"Nella tradizione "alta" filosofica della letteratura conviviale, il cibo di norma non compare, è come censurato: il simposio ha inizio quando il banchetto è giunto al termine…Nel convito di Trimalchione la prospettiva è completamente rovesciata: il cibo domina la parola. E' stato dimostrato che la Cena per molti aspetti è costruita come il rovesciamento del Simposio"[1].
Stiamo per assistere a uno di quei conviti volgari che Seneca consiglia di schivare per togliere occasioni all'ira:"vitare vulgares convictos memento " (De ira , II, 28).
La Cena viene annunciata da uno schiavo di Agamennone:"unus servus Agamemnonis interpellavit trepidantes et:"quid vos?" inquit "nescitis, hodie apud quem fiat? Trimalchio, lautissimus homo, horologium in triclinio et bucinatorem habet subornatum, ut subinde sciat, quantum de vita perdiderit" (26, 8-9), interruppe la nostra agitazione e disse:"ma come? non sapete da chi oggi si fa festa? Trimalchione, uomo sontuosissimo, ha un orologio[2] nella sala da pranzo e un trombettiere addetto, per sapere ogni momento quanta parte di vita abbia perduto.
Questo del Satyricon è un banchetto di gente volgare.
Vediamo qual è la tipologia dei banchetti
Il "pasto antico" sostiene K. Kerènyi: "quello dei Greci, degli Etruschi, dei Romani…non è mai puramente materiale e formale: esso è sempre riferito a una presenza divina, a uno o più partecipanti spirituali che lo godono insieme con i banchettanti umani, e appunto perciò esso diventa una festa pienamente realizzata"[3].
Tali sono i banchetti di Pilo nel III canto dell'Odissea e quello di Sparta nel IV : un mangiare in eletta compagnia dopo la partecipazione a un rito religioso, una successione che sembra anticipare l'agape cristiana: il banchetto d'amore che segue alla cerimonia.
Se ne può ricavare notizia dalla famosa lettera di Plinio il Giovane (61-112 d. C.) che descrive i costumi dei Cristiani a Traiano:" Adfirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta, ne latrocinia, ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discendendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium " (X, 96, 7), affermavano d'altra parte che questa era stata l'essenza della loro colpa o dell'errore, il fatto che erano soliti riunirsi in un giorno stabilito prima dell'alba, e cantare tra loro, alternatamente, un inno in onore di Cristo come se fosse un dio e impegnarsi con giuramento, non a perpetrare qualche crimine, bensì a non commettere furti, rapine, adultèri, a non rifiutarsi di restituire, richiesti, una cosa avuta in consegna. Compiute tali cerimonie, avevano l'abitudine di andarsene e di riunirsi un'altra volta per prendere del cibo, comunque ordinario e innocente.
Anche il cibus di Pilo è sostanzialmente promiscuus, innoxius , e nobilitato dai buoni sentimenti di quanti partecipano a tale comunione. Questo è il convito piacevole, legittimo e perfino santo: insomma il banchetto umano, privo di corruzione. Per quanto riguarda i valori e i disvalori considerati nel nostro percorso c'è da notare che il sacramentum dei cristiani esclude comportamenti esecrati anche dai tradizionalisti romani: in particolare: ne adulteria committerent, ne fidem fallerent
Ma nell'Odissea esiste anche il convito violento praticato dal Ciclope (IX) e dai Lestrigoni. Questi giganti, non simili agli uomini (X, 120) catturano gli stranieri e, infilzandoli come pesci "se li portano a casa per farne dei "festini privi di gioia" (ajterpeva dai'ta[4]), altrimenti detti antifestini, perché ciò che caratterizza il festino umano è proprio che il condividere, daîta , è inseparabile dal térpein. Invece di accogliere gli stranieri con un dolce festino, i Lestrigoni li mangiano; improvvisamente quei festini mancano di dolcezza, non possono essere il luogo della sociabilità. Tutto ciò rivela una spaventosa coerenza: la vita degli antropofagi è dura. I Lestrigoni ignorano le dolcezze del banchetto e il buon odore della carne cotta"[5].
"Giganti e titani, miticamente, gli eterni nemici della cultura"[6].
Tacito riferisce di avvelenamenti compiuti durante le cene imperiali (quello di Britannico in Annales XIII, 15-16), ma forse è più interessante l'allusione polemica dello storiografo agli stimoli dei banchetti che, in combutta con la seduzione degli spettacoli, contribuiscono a guastare la castità delle donne dei Romani; tra i Germani invece, per la mancanza di tali irritationes, le donne sono caste:"Ergo saepta pudicitia agunt, nullis spectaculorum illecebris, nullis conviviorum irritationibus corruptae" (Germania, 19).
Poi c'è il banchetto con i morti. La versione più famosa del mito è quella di Mozart-Da Ponte. Nel secondo atto[7] il Commendatore ucciso dal protagonista gli ricorda di avere accettato un suo invito a cena e gli chiede il contraccambio :"Tu m'invitasti a cena,/il tuo dover or sai./ Rispondimi: verrai/tu a cenar meco?". Don Giovanni, nonostante i tentativi di elusione e dissuasione di Leporello, intrepidamente accetta l'invito del morto da lui stesso assassinato:"A torto di viltate/tacciato mai sarò!…Ho fermo il cuore in petto:/non ho timor, verrò!". Quindi dà la sua mano, in pegno, a quella, gelida, del Commendatore. La cena del vivo dal morto è il momento conclusivo e culminante della leggenda.
:"Quello che vieta ai vivi di mangiare nel mondo dei morti è un tabù molto antico e molto diffuso: ne conosciamo numerosissimi esempi, che si collocano nei tempi più vari e nei paesi più diversi. Un esempio che appartiene alla grecità arcaica è presente nell'Inno omerico A Demetra (VII sec. a. C.). La vicenda è assai nota: Ade, il signore dei morti, ha rapito la giovinetta Persefone e l'ha portata come consorte agli Inferi. La madre di Persefone, la grande dea Demetra, dopo un'aspra contesa, ha finalmente ottenuto da Zeus che la fanciulla possa ritornare tra gli dei superi. Ma prima di lasciarla partire Ade, ancora entro i confini del suo regno, le diede da mangiare il seme del melograno, dolce come il miele,-furtivamente guardandosi intorno-affinché ella non rimanesse per sempre lassù, con la veneranda Demetra dallo scuro peplo"[8]
Un altro invito a cena che non si può accettare, indicato nello stesso Satyricon, è quello con il versipellis, il lupo mannaro che è passato per il mondo dei morti e ha avuto le vesti pietrificate:" "Ego primitus nesciebam ubi essem, deinde accessi, ut vestimenta eius tollerem: illa autem lapidea facta sunt".
(Satyricon, 62, 8), io all'inizio non sapevo dove fossi, poi mi avvicinai per raccogliere i suoi vestiti, ma quelli erano diventati di pietra.
"…et postquam veni in illum locum in quo lapidea vestimenta erant facta, nihil inveni nisi sanguinem. Ut vero domum veni, iacebat miles meus in lecto tamquam bovis, et collum illius medicus curabat[9]. intellexi illum versipellem esse, nec postea cum illo panem gustare potui, non si me occidisses"( Satyricon, 62, 13-14), e dopo che fui giunto in quel luogo dove le vesti erano diventate di pietra, non trovai altro che del sangue. Quando poi arrivai a casa, il mio soldato era steso nel letto come un bove, e un medico curava il suo collo. Capii che quello era un lupo mannaro né in seguito potei assaggiare del pane con lui, neppure se mi avesse ucciso.
Ci sono conviti santi dunque, antifestini violenti, cene presso i morti, poi i simposi dei maleducati che rumoreggiano a tavola e ostacolano la conversazione, come i proci innanzitutto, che spesso fanno chiasso nel megaron ombroso (p. e. Odissea , IV, 768), quindi quelli degli incolti biasimati da Platone nel Protagora. In questo dialogo Socrate indica delle regole per i simposi della gente educata che non può rumoreggiare a tavola, e, anzi, non sopporta qualsiasi elemento ostacoli la conversazione. Le persone mediocri e volgari, per incapacità di parlare tra loro durante i simposi, a causa della mancanza di educazione, si intrattengono a vicenda attraverso la voce dei flauti; invece tra i convitati colti e per bene, non puoi vedere né suonatrici di flauto, né danzatrici, né citariste, ma essi soli che sono capaci di conversare tra loro senza queste sciocchezze e questi giochi (" ajlla; aujtou;" auJtoi'" iJkanou;" o[nta" sunei'nai a[neu tw'n lhvrwn te kai; paidiw'n touvtwn", 347d) e parlano e si ascoltano a turno ordinatamente, anche se bevono molto vino.
Nel Satyricon dunque c'è l'ignobile convito di Trimalchione dove il cibo domina sulla parola. Non solo il parlare (bene) caratterizza i simposi colti ma anche l'ascoltare.
Senza ascolto non c'è cortesia che "è il rituale dell'accoglienza. Preparare tutto quello che serve perché l'altro possa varcare la soglia del nostro mondo. La dimostrazione che siamo disponibili ad ascoltare. Così come negli antichi banchetti ci si raccoglieva intorno all'aedo e lo si supplicava di dare inizio al canto. Ed è cortesia anche il canto"[10]. Non ascoltare è l'attitudine degli assassini e degli iracondi: l'Elettra di Sofocle rimprovera la madre dicendole:"pro;" ojrgh;n ejkfevrh/…oud' ejpivstasai kluvein" (Elettra, vv. 687-688), ti lasci trasportare all'ira…e non sai ascoltare.
Ci può essere anche il banchetto negato dalla compiuta peccaminosità delle guerre intestine, della lotta spietata di tutti contro tutti, come quella descritta da Lucrezio: quando gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue dei concittadini, e ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni "et consanguineum mensas odere timentque " (De rerum natura , III, 73) e odiano e temono le mense dei consanguinei.
E' il caso del banchetto di Macbeth che si è macchiato le mani di vari delitti uccidendo per primo il re suo cugino e non riesce a partecipare alla cena preparata nel suo stesso castello. La moglie cerca di ricondurlo alla ragione ricordandogli le regole dei conviti:"My royal lord, You do not give the cheer. The feast is sold, That is not often vouched, while 't is a-making, 'T is given with welcome: to feed were best at home; From thence, the sauce to meat is ceremony, Meeting were bare without it "( III, 4), mio signore reale, voi non date una buona disposizione di spirito. Il banchetto è a pagamento se non dà spesso testimonianza, mentre è fatto, di essere dato con cordialità: per mangiare sarebbe meglio a casa; fuori da essa la salsa delle vivande è la cortesia[11], e riunirsi senza di lei sarebbe squallido.
Filemone e Bauci accolgono Giove e Mercurio che hanno assunto sembianze umane nella loro piccola e povera casa, quasi una capanna, e offrirono loro tutto il poco che c’era. Ma a questo aggiunsero grande cordialità: “super omnia vultus accessere boni ” (Metamorfosi, VIII, 677-678).
La monofagia
Ci può essere la monofagia laida, ostacolata dallo schifo, come quella di Fineo cui le Arpie strappavano il cibo di bocca e non gliene lasciavano punto, oppure poco, ma cosparso di un odore schifoso, tanto che il disgraziato non poteva mangiarlo. Il peccato di quest'uomo era stato quello di rivelare agli uomini i pensieri del figlio di Crono[12].
Oppure la monofagia compiaciuta, ma non per questo sana, come quella di Leopardi che la difende dalla cattiva reputazione:"Il mangiar soli, to; monofagei'n, era infame presso i greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo monofavgo" , si dava ad alcuno p. vituperio, come quello di toicwruvco" , cioè di ladro…Io avrei meritata quest'infamia presso gli antichi (Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli antichi però avevano ragione, perché essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione[13], ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl'inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco cibo p. destare la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più allegria, più brio, più spirito, più buon umore, e più voglia di conversare e di ciarlare. Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l'uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell'unica ora del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esterni della favella hanno un'altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell'uomo, e la digestione non può essere buona se non è ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforisma medico), abbia da esser quell'ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacché molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro p. qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell'ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell'ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano, e non fanno altro che imboccare e ingoiare!"[14].
Nel mangiare solo tuttavia c'è qualche cosa di poco umano. Leopardi, come tutti i frustrati sessuali, doveva avere un rapporto malsano con il cibo. Ce ne dà testimonianza il sodale Antonio Ranieri il quale racconta che i medici gli vietavano " le cose dolci, ed assolutamente, i gelati". Ma il poeta, "bramosissimo delle une e degli altri, lasciata dall'un dei lati ogni apprensione, perseverava i più incredibili eccessi: il caffè, sciroppo di caffè; la limonea, sciroppo di limone; il cioccolatte, sciroppo di cioccolatte (e non senza le vainiglie, rigorosamente vietategli); e così via. E quanto ai gelati, era un furore: forse che il morbo stesso lo spingeva! Più i medici minacciavano sputi sanguigni, bronchiti e vomiche, e più il furore cresceva…"[15].
Bologna 15 ottobre 2022-
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 6, p. 6.
[2] Probabilmente ad acqua,
[3]Miti e misteri , trad. it. Boringhieri, Torino, 1980. p. 185.
[4]Odissea , X, 124.
[5]F. Dupont, Omero e Dallas , p. 59.
[6] J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore , p. 144.
[7] scena XIX.
[8].Inno a Demetra, 372-374; la traduzione è di F. Cassòla, Inni omerici, a cura di F. C. , Valla-Mondadori, Milano 1975, p. 67.
[9] L’uomo, quando, fattosi lupo, sgozzava le pecore, era stato trafitto al collo con una lancia.
[10] F. Frasnedi, op. cit., p. 5.
[11] Il dovere della cortesia formale a cena non viene meno neppure in questa cupa tragedia.
[12] Cfr. Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 178 e sgg. , il III canto dell'Eneide (vv. 210 ss.) e il XIII canto (vv. 10-15) dell'Inferno di Dante .
[13] Latinismo: comissatio significa propriamente "baldoria dopo il banchetto".
[14] G. Leopardi, Zibaldone, 4183-4184.
[15] A. Ranieri, Sette anni di
sodalizio con Giacomo Leopardi, p. 69.
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