Dopo Encolpio parla il maestro di retorica Agamennone , da esperto, dello stato, non buono, della scuola. Egli è uno che ha sudato nella scuola (ipse in schola sudaverat, 4, 1).
Questa è una dichiarazione topica: Esiodo dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289). Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[1] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
Alessandro Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche immani, e, ovviamente, le impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti: Arriano racconta che dopo la distruzione di Tebe (335), poco prima di partire per la sua spedizione, il giovane re di Macedonia celebrò giochi e sacrifici. Allora gli fu annunciato che la statua di Orfeo nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~ sudava continuamente; quindi l’indovino Aristandro disse che cantare le gesta di Alessandro sarebbe costato polu;~ povno~ ai poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2-3).
Dante mette in rilievo la grande fatica che gli è costata l’opera grandiosa della sua Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e cielo e terra/sì che m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso, XXV, 1-3).
Machiavelli nota che molti uomini attribuiscono alla Fortuna un potere eccessivo nella vita umana e per questo ritengono “che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte”.
Il segretario fiorentino non condivide questo parere: “perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitre della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”. La Fortuna come certi “fiumi rovinosi…dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”. Dunque non bisogna adagiarsi sulla Fortuna: “ quel principe che s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia” (Il principe, 25).
Leopardi nell’Operetta morale Il Parini ovvero della gloria[2] immagina che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”, e gli dica che pochi sono capaci di intendere “che e quale sia propriamente il perfetto scrivere”. Chi non intende questo “non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi”. La conclusione del ragionamento dunque è: “ Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarli e saper lodarli degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta”.
La colpa della decadenza secondo Agamennone è degli allievi e dei loro genitori, non dei maestri qui necesse habent cum insanientibus furere ( Satyricon, 3, 2) , i quali sono costretti a delirare con i pazzi e, per avere uditori, devono assecondare i ragazzi. "Nam nisi dixerint quae adulescentuli probent, ut ait Cicero, "soli in scholis relinquentur"[3]. sicut ficti adulatores cum cenas divitum captant, nihil prius meditantur quam id quod putant gratissimum auditoribus fore: nec enim aliter impetrabunt quod petunt, nisi quasdam insidias auribus fecerint"(3, 2- 3), infatti se non avranno detto quello che i ragazzi probabilmente approvano, come dice Cicerone, "verranno lasciati soli nelle scuole". Come i parassiti adulatori delle commedie, quando danno la caccia alle cene dei ricchi, niente pensano prima di ciò che ritengono sarà graditissimo agli ascoltatori: né infatti otterranno ciò che agognano in altro modo se non avranno teso qualche trabocchetto alle orecchie.
Quindi il maestro di eloquenza, continua Agamennone, deve fare come il pescatore se vuole catturare l'attenzione dei giovani:"sic eloquentiae magister, nisi tamquam piscator eam imposuerit hamis escam, quam scierit appetituros esse pisciculos, sine spe praedae morabitur in scopulo" (3, 4), se, come un pescatore non avrà messo sugli ami l'esca di cui sappia che i pesciolini avranno appetito si attarderà sullo scoglio senza speranza di preda.
Anche i genitori sono meritevoli di rimproveri di un maestro abituato a "insudare molto nelle cose[4]":"parentes obiurgatione digni sunt, qui nolunt liberos suos severa lege proficere" (4, 1) poiché non vogliono che i loro figli migliorino con una dura disciplina.
Simile rimprovero ai genitori lo rivolge Messalla nel Dialogus de oratoribus [5] di Tacito:"Quis enim ignorat et eloquentiam et ceteras artis descivisse ab illa vetere gloria non inopia hominum, sed desidia iuventutis et neglegentia parentum et inscientia praecipientium et oblivione moris antiqui?" (28), chi non sa infatti che l'eloquenza e le altre arti sono decadute da quella gloria antica non per carestia di uomini, ma per l'infingardaggine della gioventù, la noncuranza dei genitori, l'ignoranza dei maestri e l'oblio del costume antico?
Prendiamo due parole chiave: oblivio e desidia. Dimenticare è uno dei vizi di Trimalchione che lo denuncia da solo:"Tam bonae memoriae sum, ut frequenter nomen meum obliviscar" (Satyricon, 66), ho una memoria così buona che spesso dimentico il mio nome.
Nell'Odissea dimenticare[6] è il verbo più negativo:"Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi canta versi senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il verbo più negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi , cavallo di battaglia del loro repertorio".
Cfr. novstou te laqevsqai (Odissea, IX, 97), dimenticare il ritorno.
Ricordare sempre il passato come fanno alcuni può essere un modo ignorare il presente e il futuro.
Il passato deve essere un viatico per capire il presente. Se una persona non ricava da un genocidio passato la lezione che i genocidi e le guerre devono diventare tabù almeno quanto l’incesto, non ha capito niente oppure finge di non avere capito per restare vicino alla greppia.
Bologna 15 ottobre 2022 ore 11, 15
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[2] Scritta nel 1824, pubblicata nel 1827.
[3] Nel Pro Caelio del 56 a. C. Cicerone critica il rigorismo etico del primo stoicismo scrivendo precisamente:"illlud unum derectum iter ad laudem cum labore qui probaverunt, prope soli iam in scholis sunt relicti" (41), coloro che sostennero quell'unico percorso diretto alla gloria con la fatica, sono rlasciati quasi soli nelle scuole.
[4] Cfr. Machiavelli, Il principe, 25.
[5] Ambientato tra il 75 e il 77 e redatto, probabilmente, un quarto di secolo più tardi.
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