L'ira del tiranno. La fides: un valore forte annullato dai tiranni e dagli schiavi
L'ira del tiranno. Edipo re, Creonte nell’ Antigone, Edipo a Colono.
Anche l'ira (ojrghv) è un tratto essenziale del carattere tirannico.
Edipo è in preda all'ira quando minaccia Tiresia: non tralascerò nulla, irato come sono ( "wJ" ojrgh'" e[cw", Edipo re , 345) e pure quando uccide Laio (" paivw di j ojrgh'" ", colpisco con ira, v. 807).
"L'ira appare tratto distintivo di ogni figura di tiranno rappresentata sulla scena; essa trova una particolare evidenza nell'Antigone e nell'Edipo re sofoclei. Sia Creonte fin dall'inizio, sia Edipo, da quando incomincia a sospettare un complotto contro il suo potere (è dunque in questo caso il principio della degenerazione che trasforma il buon re paterno del prologo in una figura tirannica), appaiono soggetti all'ira, incapaci perciò di un dialogo rispettoso dell'interlocutore e di una decisione meditata. "Taci, prima di riempirmi d'ira con le tue parole" (Antigone , v. 280), esclama Creonte, interrompendo il resoconto col quale la guardia lo sta informando del clandestino seppellimento di Polinice. E, a conclusione quasi della scena, nuovamente lo redarguisce:"Non ti rendi conto di parlare di nuovo in modo irritante? (Antigone , v. 316)"[1].
L'ira di Edipo continuerà a colpire i nemici anche dopo la morte: nell' Edipo a Colono Ismene dice al padre che un giorno il suo cadavere sarà un grave peso (bavro" , v. 409) per i Cadmei, quindi la ragazza precisa: "th'" sh'" uJp ' ojrgh'", soi'" o{tan stw'sin tavfoi" " (v. 411), a causa della tua ira, quando staranno presso la tua tomba. Lo ha fatto sapere Apollo delfico (v. 413).
L'ira per i Latini è una forma di pazzia. Orazio sentenzia:"ira furor brevis est " (Epist. I, 2, 62), l'ira è una breve follia.
Seneca considera l'ira un' insania e un sintomo di impotenza:" iram dixerunt brevem insaniam; aeque enim impotens sui est ", dissero che l'ira è una breve pazzia; infatti è incapace di dominarsi, proprio come quella (De ira , I, 1). Inoltre non è naturale l'ira poiché essa desidera infliggere pene (poenae appetens est , I, 6) mentre la natura dell'uomo non vuole questo:"ergo non est naturalis ira ", I, 6).
Sentiamo Fromm sulle cause psicologiche dell’ira:“we see a man who shouts and has a red face. We describe his behavior as ‘being angry’. If we ask why he is angry, the answer may be ‘because he is frightened’ ‘Why is he frightened?’ ‘Because he suffers from a deep sense of impotence’. ‘Why is this so?’ ‘Because he has never dissolved the ties to mother and is emotionally still a little child’ ”[2], noi vediamo un uomo che grida e ha la faccia rossa. Descriviamo il suo comportamento dicendo che è arrabbiato. Se noi domandiamo perché è arrabbiato, la risposta può essere, perché è spaventato. Perché è spaventato? Perché soffre di un profondo senso di impotenza. Perché è così? Perché non ha mai reciso i legami con la madre ed è ancora emotivamente un bambino.
Il tiranno, come lo schiavo calpesta la fides che è un valore solo per le persone oneste.
Cicerone nel De amicitia[3] scrive:"Haec enim est tyrannorum vita nimirum, in qua nulla fides, nulla caritas, nulla stabilis benevolentiae potest esse fiducia, omnia semper suspecta atque sollicita, nullus locus amicitiae. Quis enim aut eum diligat quem metuat, aut eum a quo se metui putet?" (15, 52), questa infatti senza dubbio è la vita dei tiranni, nella quale non può essere alcuna lealtà, alcun affetto, alcuna fiducia di stabile benevolenza, tutto è sempre pieno di sospetto e di ansia, e non c'è posto per l'amicizia. Chi infatti potrebbe amare quello che deve temere o quello dal quale pensa di essere temuto?
Nelle Tusculanae Cicerone racconta che Dionisio, tiranno di Siracusa dal 405 al 367, non si fidava nemmeno di porgere il collo al barbiere: “ne tonsori collum committeret, tondere filias suas docuit…et tamen ab iis ipsis, cum iam essent adultae, ferrum removit, instituitque ut candentibus iuglandium putaminibus barbam sibi et capillum adurerent (V, 58), per non affidare il collo al barbiere, insegnò alle sue figlie a radere…e non di meno, quando ormai furono adulte, tolse loro gli arnesi taglienti, e stabilì che gli bruciassero barba e capelli con gusci di noci ardenti.
Leggiamo anche il racconto che segue della la spada di Damocle (Tusc. V, 61-62)
“Cum quidam ex eius adsentatoribus, Damocles, commemoraret in sermone copias eius, opes, maiestatem dominationis, rerum abundantiam, magnificentiam aedium regiarum, negaretque umquam beatiorem quemquam filisse: "Cupisne igitur - inquit - o Damocles, quoniam te haec vita delectat, ipse eam degustare et fortunam experiri meam?" Cum ille se cupere dixisset, Dionysius collocari iussit hominem in aureo lecto, strato puicherrimo textĭli stragulo ), magnificis operibus picto, abacosque compluris ornavit argento auroque caelato.
Tum ad mensas servos delectos iussit consistere eosque nutum illius intuentes diligenter ministrare. Aderant unguenta, coronae; incendebantur odores, mensae conquisitissimis epulis extruebantur. Fortunatus sibi Damocles videbatur.
In hoc medio apparatu fulgentem gladium e lacunari saetā equinā aptum demitti iussit , ut impendēret illius beati cervicibus. Itaque nec pulchros ìllos mìnìstratores aspiciebat nec plenum artis argentum nec manum porrigebat in mensam, iam ipsae deflŭebant coronae; denique exoravit tyrannum, ut abire liceret, quod iam beatus nollet esse.
Nell'Agamennone di Seneca, Egisto parlando con Clitennestra fa questo rilievo:"non intrat umquam regium limen fides" (v. 285), la lealtà non entra mai nella soglia di una reggia. La regina ribatte che se la comprerà con i doni, ma il drudo conclude:"pretio parata vincitur pretio fides" (v. 287), la lealtà procurata a pagamento può essere superata da un altro pagamento.
La fides, valore forte, è annullata o venale, come tutti gli altri valori, venduti al denaro.
Nel mondo carnevalesco e rovesciato degli schiavi plautini al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia, la “santa” protettrice dei servi:" Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la mala Fede, dice lo schiavo Libano allo schiavo Leonida.
I valori forti con la fides in testa sono forse universali, comunque sono considerati peculiari delle persone oneste anche da autori di altre letterature. Sentiamo Gončarov che descrive l’animo buono di Oblomov: “ Per quanto avesse trascorso la gioventù in crocchi di giovanotti che presumevano di sapere tutto, che avevano già da un pezzo risolto tutti i problemi della vita, che non credevano in nulla e tutto analizzavano con gelida saggezza, nell’animo di Oblomov s’era conservata la fede nell’amicizia, nell’amore, nella dignità, nell’onore e, per quanto potesse essersi sbagliato e potesse ancora sbagliare nel giudicare la gente, se il suo cuore ne aveva sofferto, la sua fede nel bene non ne era mai stata intaccata. Egli si inchinava dentro di sé alla purezza femminile, ne riconosceva la potenza e i diritti e le offriva sacrifici…Oblomov era un giusto di fatto…Gli uomini ridono di simili originali, ma le donne li riconoscono subito; le donne pure e caste li amano per simpatia, le corrotte cercano di avvicinarli per dimenticare la propria rovina”[4].
giovanni ghiselli
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