NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 27 ottobre 2022

Sul Potere. III parte

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Alcune notizie presenti in questa parte verranno chiarite quando ne parlerò

 
Torniamo a Erodoto
 “In un passo delle sue Storie, Erodoto sostiene molto chiaramente che prima di Clistene la democrazia politica era stata “inventata” in Persia da uno dei dignitari persiani implicati nella congiura che aveva abbattuto l’usurpatore, il falso Smerdis. Erodoto si lamenta del fatto che i Greci, durante le sue letture pubbliche, non avevano accettato questa informazione molto netta e dettagliata (III, 80). Un grande storico della Grecia e della Persia, David Asheri, ha scritto bene in proposito che in questo passo Erodoto ha di mira, in maniera velata, il pregiudizio tipicamente ateniese (più in generale greco) che la democrazia sarebbe un’ “invenzione” greca[1][2].  
Erodoto scrive che i lovgoi da lui riportati sono incredibili per alcuni Greci a[pistoi ejnivoisi  JEllhvnwn , eppure vennero davvero pronunciati (III, 80, 1).
 
Del resto Otane usa il termine ijsonomivh, uguaglianza davanti alla legge, parità di diritti, per designare plh'qo~ a[rcon (III, 80, 6), il governo del popolo, non dhmokrativa. Usa invece questo termine quando torna sull’argomento nel VI libro scrivendo che i Greci non credono che Otane avesse dato un parere favorevole al dhmokratevesqai favorevole alla democrazia, eppure Mardonio depose tutti i tiranni della Ionia e istituì nelle loro città delle democrazie- dhmokrativa~ (VI, 43, 3). Mardonio è il comandante persiano sconfitto da Pausania a Platea dove morì (479). 
 
Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo “popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l’appunto la forza nel suo violente esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotanti intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida…la democrazia è un bersaglio polemico costante, nel caso della Repubblica di Platone addirittura il bersaglio di una feroce polemica…E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[3]. 
A questo proposito si può anche ricordare la commedia di Aristofane Vespe del 422.
 
Platone nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo (558c). E' una costituzione  piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa).
 
 Platone mette in rilievo il cambiamento di valore delle parole quando passa in rassegna le forme costituzionali: nello stato democratico gli appetiti (ejpiqumivai) prendono possesso dell'acropoli dell'anima del giovane, quindi questa viene occupata da parole e opinioni false e arroganti  (yeudei'" dh; kai; ajlazovne"lovgoi te kai; dovxai 560c)  le quali chiamando il pudore stoltezza (th;n me;n aijdw' hjliqiovthta ojnomavzonte"), lo bandiscono con disonore; chiamando la temperanza viltà (swfrosuvnhn [4] de; ajnandrivan), la buttano fuori coprendola di fango (prophlakivzonte" ejkbavllousi), e mandano oltre confine la misura e le ordinate spese (metriovthta de; kai; kosmivan dapavnhn)  persuadendo che sono rustichezza e illiberalità (ajgroikivan kai; ajneleuqerivan 560d).
E non basta. I discorsi arroganti con l'aiuto di molti inutili appetiti transvalutano pure, ma in positivo, i vizi, immettendoli nell'anima  e chiamano la prepotenza buona educazione (u{brin me;n eujpaideusivan kalou'nte" ), l'anarchia libertà (ajnarcivan de; ejleuqerivan), la dissolutezza magnificenza (ajswtivan de; megaloprevpeian), e l'impudenza coraggio (ajnaivdeian de; ajndreivan 560e-561). L’uomo così corrotto vive a casaccio, e la sua vita non è regolata da ordine (tavxi") né da alcuna necessità (ajnavgkh). Si capovolgono pure i rapporti umani: il padre teme il figlio, il maestro lo scolaro, i vecchi imitano i giovani, per non sembrare inameni e autoritari (563).
Si possono vedere le Nuvole di Aristofane.
E' interessante notare che la rivolta contro l'oligarchia parte dal povero snello e abbronzato ijscno;" ajnh;r pevnh"  hJliwvmeno" (556d) il quale, schierato in battaglia accanto al ricco cresciuto nell'ombra con molta carne altrui (paratacqei;" ejn mavch/ plousivw/ ejskiatrofhkovti, polla;" e[conti savrka" ajllotriva"), lo vede pieno di affanno e difficoltà, e capisce che non vale nulla, quindi che non deve obbedirgli poiché il  potere di quell’individuo pallido e grasso non è naturale. 
Nel Pluto di Aristofane (388), Penia dice di rendere gli uomini ijscnoi; kai; sfhkwvdeiς  snelli e con ls vita di vespa e temibili per i nemici.
 Con Pluto invece sono podagrosi pancioni, dalle gambe gonfie e inverecondamente pingui  podagrw`nte~ kai; gastrwvdei~ kai; pacuvknhmoi kai; pivonev~ eijsin ajselgw`~ (vv. 560-561)
 
Torniamo alla Repubblica di Platone: la democrazia sorge quando i poveri vittoriosi oiJ pevnhte~ nikhvsante~, ammazzano alcuni degli altri, alcuni li cacciano via e i rimanenti ammettono nelle cariche del governo per lo più con il sorteggio- to; polu; ajpo, klhvrwn (557a)
 
La tirannide di Ippia fu eliminata dall’intervento degli Spartani  guidati dal re Cleomene nel 511-510. Cleomene avrebbe voluto favorire un governo oligarchico ma l’Alcmeonide Clistene instaurò la democrazia.
 
“Sparta, tradizionale capofila delle oligarchie, abbatte la tirannide in Atene. Ciò però non impedisce che tirannide e oligarchia finiscano, nel gergo democratico, per essere adoperati come sinonimi o comunque come una endiadi. Ecco quindi ad esempio, in una commedia messa in scena in Atene poco prima del colpo di mano oligarchico del 411, personaggi che debbono incarnare  la figura del “democratico medio” esclamare in modo tragicomico: “sento odore di Ippia!”[5], per dire: c’è in giro una minaccia di oligarchia. Insomma, contro ogni corretta distinzione politologica, nella coscienza diffusa e nel linguaggio corrente la schematica polarità che si afferma è democrazia/tirannide. Ovviamente grazie a tale polarità la democrazia si autolegittima.
 
Il coro dei vecchi nella Parabasi della Lisistrata  dice: “kai; mavlist j ojsfraivnomai th`~  JIppivou turannivdo~ (619) e soprattutto sento odore della tirannide di Ippia. Siamo nel 411
 
 Resta invece appannaggio dei filosofi, oltre ovviamente che della cultura politica oligarchica, il sovvertimento radicale di tale polarità: in quest’altra prospettiva è il demo onnipotente della città democratica che assume le fattezze del tiranno, ad esempio nelle drammatiche pagine della Repubblica di Platone (557 A):
la democrazia si instaura quando i poveri trionfano nello scontro civile sui loro avversari: un po’ li ammazzano, altri li scacciano. Con quelli che restano si spartiscono i diritti politici e le magistrature, anzi spesso addirittura le tirano a sorte.-E’ così, rispose, che si instaura la democrazia: o per mezzo delle armi, o perché presi dal terrore, i ricchi scappano e abbandonano il campo.
Poco più avanti  Platone illustra come l’eccesso di libertà porti alla schiavitù (563 E-564 A), come dal popolo scaturisca il potere personale di un “protettore” desiderato e corteggiato dal popolo stesso (565 C-D), e come costui immancabilmente si faccia tiranno (566 B-569C). Il despota susciterà anche delle guerre affinché il popolo abbia bisogno di un duce (566 e).
Erodoto, con il distacco che è tipico dei dibattiti senza vincitore, nel “dialogo sulla costituzione” svoltosi-secondo lui-in Persia alla morte di Cambise (522-521 a. C.), fa sostenere al promotore della democrazia, Otanes, la polarità democrazia/tiranno, e al sostenitore dell’oligarchia, Megabizo, l’identità popolo sovrano/tirannide. Se dunque la polarità fondamentale dell’etica democratica è democrazia/tirannide, ben si comprende la centralità del mito dei tirannicidi nell’Atene del V secolo.
 
Una congettura attribuita da Luciano Canfora a Tucidide.
Quando perciò, documenti alla mano,  Tucidide riscrive, la storia del (tentato) tirannicidio del 514 a. C. e lo svuota di ogni proposito politico, anzi lo riduce al rango di mediocre e inetta vendetta privata[6], egli compie in tal modo un’operazione che, con terminologia oggi corrente, potremmo definire prettamente “revisionistica”.
E la compie su documenti, interpretando documenti, noti e meno noti…Nel libro sesto campeggia l’intrigo d’amore come causa determinante dell’attentato”.
 
To; ga;r  jAristogeivtono~ kai; Armodivou tovlmhma  di  j ejrwtikh;n xuntucivan ejpeceirhvqh  (VI, 54, 1), l’atto audace di Aristogitone e Armodio fu compiuto per una circostanza amorosa.
Armodio amante di Aristogitone. Armodio fu tentato da Ipparco (peirasqei;~ de; oJj Armovdio~ uJpo;  jIppavrcou-(VI, 54, 3)  
 
 Io credo che Tucidide con queste parole abbia voluto evidenziare il ruolo di Clistene e degli Alcmeonidi nell’abbattimento della tirannide.
 
Ma torniamo a Canfora Le prime parole dell’excursus intendono dare la notizia principale: “L’azione di Armodio e di Aristogitone fu compiuta a causa di una vicenda amorosa”[7] (ma poco dopo l’autore si lascia sfuggire espressioni quali “lottare per la libertà”[8] per indicare il proposito per il quale i congiurati agivano). Invece nel proemio al libro primo (scritto probabilmente più tardi) il motivo dell’eros è scomparso dalla rettifica di ciò che gli Ateniesi mal conoscono sul proprio mito fondatore, e tutto si riduce alla puntigliosa precisazione “credono (errando) che Ipparco, quando fu ucciso, fosse lui il tiranno”[9].
Tucidide scrive che Armodio rifiutava i tentativi di Ipparco e ne era offeso. Anche perché Ipparco ne offendeva pure , in altro modo la sorella. Anche Aristogitone si irritò. I congiurati non erano molti però speravano che altri li avrebbero aiutati per volontà di liberare se stessi (VI, 56)
La diversità di bersaglio non può passare inosservata”[10].
Nella chiusura del capitolo Canfora fa una “congettura” che avvicina il caso della fine di Ipparco a quello di Melo: “Il trattamento anti-democratico inserito nel sesto libro è forse da mettersi in relazione, come anche il dialogo melio-ateniese, con l’opera di discredito della democrazia cui lo storico potrebbe essersi dedicato nel periodo in cui era in cantiere la congiura che abbatté il regime popolare (e di cui lui non era ignaro). Se una tale ipotesi sta in piedi, comprendiamo meglio fasi compositive e finalità di questi svolgimenti-Melo, la fine di Ipparco-, che sono confluiti dentro il racconto tucidideo ma che si legano al racconto in modo piuttosto lasso. Sia in un caso che nell’altro l’uso, o il non uso, dei documenti, da parte di Tucidide, ha avuto, in relazione ai fini perseguiti, una funzione determinante”[11].
Trovo che questa congettura di Canfora sia alquanto arzigogolata e forzata.
    
Sentiamo Fassò
“Non minore nobiltà, del resto, Erodoto presta, nel cap. 104 del libro VII, alla risposta che il greco Demarato dà a Serse, quando questi giudica elemento di debolezza per i Greci la libertà che vige tra essi. Demarato, il quale pure è al servizio del re persiano, non esita a rivendicare il valore della libertà, di quella libertà che nasce dall’obbedienza alle leggi:
Essi pur essendo liberi non sono liberi del tutto: sovrasta loro infatti sovrana la legge…(VII, 104)”[12].
Demarato però è uno spartano e parla degli Spartani. Vediamolo in greco: “ejleuvqeroi ga;r ejovnte~ ouj pavnta ejleuqeroiv eijsi: e[pesti gavr sfi despovth~ novmo~” (VII, 104, 4).  
 
Fassò ricorda pure che  il coro dei Persiani di Eschilo dice ad Atossa  che gli Ateniesi combattenti a Salamina non si chiamano schiavi di nessun uomo e di nessuno sono sudditi (v. 242).
 
Nel Pro Cluentio[13], Cicerone scrive “legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi esse possimus” (147),  :  siamo servi delle leggi solo al fine di poter essere liberi  “e lo ridiceva, ancor più concisamente, Locke nel diciassettesimo secolo: “Dove non c’è legge non c’è libertà”. Però, chi più di ogni altro ha martellato sulla tesi che la libertà era fondata dalla legge e nella legge è stato Jean-Jaque Rousseau: “quando la legge è sottomessa agli uomini” scrive” non restano che degli schiavi o dei padroni; è la certezza di cui sono più certo: la libertà segue sempre la sorte delle leggi, essa regna e perisce con queste”. Perché la libertà ha bisogno della legge? Perché se governano le leggi-che sono regole generali e impersonali-non  governano gli uomini, e per essi la volontà arbitraria, dispotica o semplicemente stupida di un altro uomo”[14].
Cfr. le Supplici di Euripide e anche l’Antigone e l’Edipo re di Sofocle.
Sofocle in queste due tragedie nega validità alle leggi che non siano basate sulla religione deifica e sull’olimpo.
Nelle Supplici di Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte  che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi- koinoiv, vv. 430-431). E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t’ ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433-434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti .
 
Vedi  però anche la Vita di Solone di Plutarco e quanto disse lo Scita Anacarsi al legislatore ateniese.
Qui troviamo una derisione delle leggi scritte da parte di Anacarsi che fu ospite e amico di Solone. Lo Scita dunque derideva l’opera del legislatore che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le leggi dunque colpirebbero solo i deboli
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle persone colte e ricche”[15].
Nella storia romana  "la maggiore singolarità" è data dal fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide" mentre diversi altri "veri o mitici legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla tradizione circonfusi da un'aureola di luce che li rende santi e venerabili". Il fatto è che Appio Claudio e i decemviri legibus scribundis nel 451/450 agirono in favore della plebe:" Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò di ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta si accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei patrizi:"Come dalla decadenza della monarchia, così dalla caduta del decemvirato trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità"[16]
 
Per quanto riguarda l’uguaglianza di tutti davanti alla legge cui tutti dovrebbero sottomettersi,  dopo la battaglia delle Arginuse (406 a. C.), il popolo ateniese, nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n   ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche I, 7, 12).
"E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", è, come vedremo, "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione  della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole").[17]
Un’ altra espressione di condanna di questa negazione dello Stato di diritto si trova nell’Ifigenia in Aulide[18] di Euripide quando il coro delle donne calcidesi lamenta che sono caduti i valori forti del Valore e della Virtù, mentre regna l’empietà, e ajnomiva de; novmwn kratei' (v. 1095), la licenza prevale sulle leggi. 
 

Bologna 27 ottobre 2022- ore 11, 10
giovanni ghiselli
 
p. s
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[1] Erodoto, Le Storie, libro III, La Persia, Fondazione Valla, Milano, 1990, p. 297.
[2] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 17.
[3] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[4] Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso Giusto dà inizio alla sua parte del disso;" lovgo" ricordando che la swfrosuvnh una volta era tenuta in conto come la quintessenza dell'educazione antica (vv. 961 sgg.). . Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (v. 961) infatti la castità (swfrosuvnh, v. 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se stesso (980).
[5] Aristofane, Lisistrata, 619. E’ il coro dei vecchi
[6] Tucidide, VI, 54-59.
[7] VI, 54, 1.
[8] VI, 56, 3.
[9] I, 20, 2. Cfr. p. 83 Ndr.
[10] L. Canfora, Prima lezione di storia greca, pp. 55-56.
[11] L. Canfora, Prima lezione di storia greca, p 52 e p.. 56.
[12] G. Fassò, La democrazia in Grecia, p. 52.
[13] Del 66 a. C.
[14] G. Sartori, La democrazia in trenta lezioni, pp. 45-46.
[15] Frammenti postumi, 1876, 14
[16] G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pp. 46-48.
[17]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.
[18] Rappresentata postuma nel 405 o nel 403.

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