Motivo antitirannico
La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti Pittaco "to;n kakopatrivdan"( fr. 348 L P) dal padre ignobile, a Platone che certamente non risparmia biasimi al turanniko;" ajnh;r. Costui, nella Repubblica (573c) è uomo, per natura, o per le abitudini, "mequstikov"... ejrwtikov"... melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre è di animo sostanzialmente servile"oJ tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e), della massima servilità, schiavitù e adulatore degli uomini più malvagi.
Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà sostiene che
" l'impotenza dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui l'individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama di potere" (p. 144).
“In senso psicologico la brama di potere non si fonda sulla forza ma sulla debolezza. E' l'espressione dell'incapacità dell'io individuale di reggersi da solo, e di vivere. E' il disperato tentativo di acquistare una forza secondaria là dove manca la forza genuina. Il termine "potere" ha un duplice significato. Uno è il possesso di un potere su qualcuno, la possibilità di dominarlo; l'altro significato è il possesso del potere di fare qualcosa, di essere capace. Quest'ultimo significato non ha nulla a che vedere con il dominare; esprime padronanza nel senso di capacità"[1].
Metus tyranni: genitivo soggettivo e oggettivo.
Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice della Medea di Euripide (119 sgg.), e Antigone di Sofocle a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507) , ma nel metus tyranni il genitivo è soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive circondato dalla paura: ne fa e ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit " (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti.
Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che infine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.
La paura che il tiranno ha dei migliori è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio:"Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[2], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito.
Nell'Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'" ejmh'" turannivdo"" (vv. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura ("a[rcein... xu;n fovboisi", v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più utile delle dee.
"La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[3].
Il fanatismo di Eteocle nelle Fenicie di Euripide. Callicle nel Gorgia.
Eppure per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (“th;n qew'n megivsthn w{st j e[cein Turannivda”v. 506), e pur di averla egli sarebbe disposto anche a salire sugli astri e a scendere sotto terra. Sicché egli non cederà mai questo bene supremo: sarebbe un atto di viltà (ajnandriva, v. 509). Non solo: il figlio di Giocasta conclude la sua celebrazione del potere dicendo alla madre che poi lo contraddice :" ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d eujsebei'n crewvn", vv. 524-525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
“Ciò che si chiama morale è viltà e debolezza: buono è il potere (cfr. anche vv. 507 sg.). Questo radicale smascheramento dei valori tradizionali, che attraverso il Callicle del Gorgia e il Trasimaco dello Stato platonico è arrivato fino a Nietzsche, deriva da una fiducia di poter agire e giudicare autonomamente che supera di gran lunga tutti i precedenti. E’ la fiducia nella propria interiorità, per così dire nel suo potenziale. La “natura della propria anima” e la sua forza è l’unica realtà nella convivenza sociale degli uomini[4]….Eteocle getta esplicitamente in disparte il principio normativo di ogni shame-culture, il riguardo per il prestigio e il buon nome”[5].
L’umanesimo di Cicerone
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare:"Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas ", (De Officiis , III, 82).
Cicerone in questo libro del De Officiis dice pure che l'umanità è un unico corpo del quale i singoli individui sono le membra. Dobbiamo aiutare l'uomo perché ogni uomo è parte di noi stessi :"Etenim multo magis est secundum naturam excelsitas animi et magnitudo itemque comitas, iustitia, liberalitas quam voluptas, quam vita, quam divitiae, quae quidem contemnere et pro nihilo ducere comparantem cum utilitate communi magni animi et excelsi est. Detrahere autem de altero, sui commodi causa, magis est contra naturam quam mors, quam dolor, quam cetera generis eiusdem "(III, 24). Infatti è molto più secondo natura l'elevatezza e la grandezza d'animo, e parimenti la cortesia, la giustizia, la generosità, che il piacere, che la vita stessa e le ricchezze; quindi disprezzare questa roba e valutarla nulla paragonandola con l'utilità comune è proprio di un animo grande ed elevato. Sottrarre invece a un altro per il tornaconto proprio, è più contro natura che la morte, il dolore e altre cose del medesimo genere.
E più avanti (III, 25):" ex quo efficitur hominem naturae oboedientem homini nocere non posse ", da ciò deriva che l'uomo il quale obbedisce alla natura non può nuocere all'uomo.
Il diritto del più forte negato dalla volontà di uguaglianza dei deboli
Platone, nel Gorgia, attribuisce a Callicle una franca affermazione del diritto del più forte. Secondo questo personaggio del dialogo la natura e la legge sono per lo più in contrasto l'una con l'altra:"wJ" ta; polla; de; tau'ta ejnantiv j ajllhvloi" ejstivn, h{ te fuvsi" kai; oJ novmo"" ( Gorgia, 482e).
i novmoi della povli" democratica costituiscono la barriera difensiva che gli ajsqenei'" , i deboli, e oiJ polloiv, la massa, erigono per sé e per il loro utile (sumfevron):" jall j oi\mai oiJ tiqevmenoi tou;" novmou" oiJ ajsqenei'" a[nqrwpoiv eijsin kai; oiJ polloiv.
pro;" auJtou;" ou\n kai; to; auJtoi'" sumfevron touv" te novmou" tivqentai kai; tou;" ejpaivnou" ejpainou'sin kai; tou;" yovgou" yevgousin[6]: ejkfobou'nte" tou;" ejrrwmenestavtou" tw'n ajnqrwvpwn kai; dunatou;" o[nta" plevon e[[cein, i{na mh; aujtw'n plevon e[cwsin, levgousin wJ" aijscro;n kai; a[dikon to; pleonektei'n , kai; tou'tov ejstin to; ajdikei'n, to; plevon tw'n a[llwn zhtei'n e[cein: ajgapw'si ga;r oi\mai aujtoi; a]n to; i[son e[cwsin faulovteroi o[nte". dia; tau'ta dh; novmw/ me;n tou'to a[dikon kai; aijscro;n levgetai, to; plevon zhtei'n e[cein tw'n pollw'n , kai; ajdikei'n aujto; kalou'sin”(Gorgia, 483b-c), ma io credo che coloro i quali stabiliscono le leggi sono gli uomini deboli e i più.
Per se stessi dunque e per il proprio utile stabiliscono le leggi e spandono gli elogi ed esprimono biasimi: per spaventare i più forti tra gli uomini, e quelli che sarebbero capaci di prevalere, proprio perché non prevalgano su di loro, dicono che è brutto e ingiusto avere la meglio e che questo è commettere ingiustizia: cercare di avere più degli altri; infatti loro sono contenti di essere alla pari, lo credo, dal momento che sono inferiori! Per questi motivi dunque secondo la legge proprio questo si chiama ingiusto e vergognoso, cercare di avere la meglio sui più, e questo chiamano commettere ingiustizia.
Una critica del genere fa A. Schopenhauer ai filosofi cattedratici del suo tempo. E' loro interesse "far valere in qualche modo quanto è piatto e privo di spirito". Per soffocare quanto c'è "di autentico, di grande e di profondamente pensato" e "per mettere in circolazione senza ostacoli ciò che non vale, essi si riuniscono, alla maniera di tutti i deboli[7], costituiscono congreghe e partiti, s'impadroniscono dei giornali letterari, in cui, come del resto nei propri libri, parlano con profondo rispetto e sussiego dei loro rispettivi capolavori, traendo in tal modo per il naso il miope pubblico"[8].
Ma mette le cose a posto la natura poiché " la natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata sulle caste"[9].
Nella Repubblica di Platone il sofista Trasimaco sostiene che il giusto non è altro che l’utile del più forte: “fhmi; ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion oujk a[llo h] to; tou` kreivttono~ sumfevron”, 338c.
Il fratello di Platone, Glaucone nota che nell’uomo è innata la prepotenza e che nessuno è giusto volontariamente ma solo se costretto (360d). Chi sembra giusto senza esserlo se la passa meglio dell’uomo come l’Anfiarao dei Sette a Tebe di Eschilo: “ouj ga;r dokei`n a[risto~ all j ei\nai qevlei”(v. 592), infatti non vuole sembrare buono ma esserlo.
Infine l’altro fratello, Adimanto, ricorda che la virtù è faticosa (Esiodo, Opere, 289), gli dèi sono esorabili (Iliade IX, 497) e che l’apparire violenta anche la verità: “to; dokei`n kai; ta;n ajlavqaian bia`tai”(citazione da Simonide). Allora conviene tracciarsi intorno un chiaroscuro di virtù e tirarsi dietro la volpe scaltra e screziata di Archiloco (365 c).
Maledizioni del potere
Il regnum secondo Seneca è un fallax bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto seducente:" Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis"(Oedipus,vv.7-8), qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera!
Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l'infuriare della pestilenza.
Per Seneca, " per questo uomo di potere…il potere è un nucleo irriducibile di male-insieme fatto e subìto, avviluppato nelle rispondenze tra violenza oggettiva e angoscia soggettiva"[10].
Anche il Vangelo di Matteo sembra denunciare il potere come nucleo di male: Satana mostra a Gesù Cristo omnia regna mundi (pavsa~ ta;~ basileiva~, 4, 4, 8), tutti i regni del mondo e glieli offre: “Haec omnia tibi dabo, si cadens adoraveris” (tau`tav soi pavnta dwvsw) , te li darò tutti, se tu prostrandoti mi adorerai.
Ebbene, come avrebbe potuto fare tale offerta, se tutti i regni del mondo non fossero stati suoi?
In ogni caso Cristo non si lascia tentare.
Chi è potens sui non desidera altro potere. Egli laetus deget (cfr. Orazio Odi, III, 29, 41-42)
"Il tema fondamentale di tutto il teatro senecano… è che potere e regno, condizioni di illusoria felicità soggette a rovinosi cambiamenti di sorte, coincidono con la frode, con l'Erinni familiare, con il furor mentre l'unica salvezza è la obscura quies [11], la serenità del proprio cantuccio, l'esser parte indistinguibile della folla. L'avversione al regno ha come aspetto complementare l'esaltazione della tranquillità di ogni piccolo uomo, uno qualsiasi della massa silenziosa: felix mediae quisquis turbae, come canta un coro dell' Agamennone (v. 103). Liceat in media mihi/latere turba (Thy. 533 sg,) afferma Tieste prima di cadere nelle lusinghe del potere e nella trappola tesagli da Atreo"[12].
Questo tema è presente anche nella tragedia greca.
Ione sostiene la superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene smontato del tutto: "del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il dolore (tajn dovmoisi de;- luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;"-zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione, vv. 621-628).
E' questa un'affermazione ricorrente nell'opera euripidea: torna nell' Ifigenia in Aulide dove lo stesso Agamennone, richiesto di sacrificare la vita della primogenita , dice a un vecchio servo:" ti invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini quello che passa una vita/senza pericoli, ignorato, oscuro (ajgnw;" ajklehv" );/ quelli che stanno tra gli onori li invidio di meno"(17-20).
Del resto l'invidia del potente per l'umile si ritrova parecchi secoli più tardi in Guerra e Pace (p. 577):"-Discutiamo pure-, disse il principe Andrej.-Tu parli di scuole-, continuò, e piegava un dito.-Parli di istruzione, eccetera. Cioè vuoi togliere lui,-disse, indicando un contadino che passava davanti a loro levandosi il berretto-, dalla sua condizione d'animale e renderlo consapevole di esigenze morali, mentre a me sembra che l'unica felicità possibile sia la felicità animale...Io lo invidio e tu vuoi farlo diventare come me...".
Nel Riccardo III di Shakespeare, il duca di Gloucester, non ancora re, simula una ripugnanza del potere per dissimularne la brama: lord Rivers, cognato del re Edoardo IV, gli dice che lui e i suoi figli hanno sempre seguito il re appena swfunto, dunque” so should we, you, if you should be our king”, faremmo lo stesso con voi, se foste re. E Riccardo risponde: “If I should be? I had rather be a pedlar!-Far be it from my heart, the thought thereof ” (I, 3, 149-150), se fossi re? Preferirei essere un venditore ambulante! Sia lontanno dal mio cuore un pensiero del genere!
Questa battuta rientra nella falsità del Potere
Riccardo III, è “ il principe che ha letto Il Principe. La politica è per lui pura pratica, un’arte il cui fine è governare. Un’arte amorale come quella di costruire i ponti o come una lezione di scherma. Le passioni umane sono argilla, e anche gli uomini sono un’argilla di cui si può fare quel che si vuole.”[13].
Quando Riccardo rimane solo in questa terza scena del primo atto parla a se stesso descrivendo il proprio comportamento e compiacendosene.
Quando mi incitano aizzato a vendicarmi dei mie nemici: “ But then I sigh, and, with a piece of Scripture,-Tell them that God bids us do good for evil:- And thus I clothe my naked villainy-With odd old ends stol’n forth of Holy Writ-And seem a saint, when most I play the devil” (I, 3, 336-338), allora io invece sospiro, e, con un brano della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi scampoli della Sacra Scrittura, e sembro un santo quando più faccio il diavolo.
Quindi entrano i due sicari cui Riccardo ordina di ammazzare suo fratello, il duca di Clarence. Così si chiude la scena.
La constatazione del sangue umano che scorre nelle corti viene denunciata da Donalbain, un figlio del re vecchio assassinato dal nuovo re, da Macbeth :"qui dove siamo ci sono pugnali nei sorrisi degli uomini: il vicino per sangue è il più vicino all'essere sanguinario (Macbeth 2, 3).
La "grande sconsacrazione rinascimentale della maestà"[14] si trova anche nel teatro di Shakespeare: nel prologo de La Tempesta di fronte ai cavalloni ruggenti, più di un re conta il nostromo (boatswain) che fa una domanda retorica :"what cares these roarers for the name of king?" (I, 1, 16-17), che importa a queste bestie ruggenti del titolo di re?
Quindi il nostromo si rivolge al re Alonso e al gentiluomo Gonzalo: “To cabin: silente trouble-lat. turba- us not!” (I, 1, 18), in cabina, silenzio! Non daceci noia
Smontature del potere.
Riccardo II[15] deposto da Bolingbroke che sarà Enrico IV espone “le tristi storie delle morti dei re”
For God’sake let us sit upon the ground
And tell sad (–lat. satur) stories of the death of kings:
How some have been deposed, some slain in war,
Some haunted by the ghosts they have deposed,
Some poisoned by their wives, some sleeping kill’d,
All murdered (lat. mors). For within the hollow
crown-corona-korwvnh- cornacchia e coronamento/
That rounds-rotundus- the mortal temples (lat. tempora) of a king
Keeps death his court; and there the antic sits, sedēre, e[zomai-
Scoffing his state and grinning at his pomp-pomphv invio, seguito- pompa seguito, processione,
Allowing-late latin. allocare-. him a breath, a little scene-scena-skhnhv-,
To monarchize, be fear’d-lat. periculum, and kill with looks,incutere timore fulminare con lo sguardo-
Infusing him with self and vain conceit
riempiendolo di sé e di vuote illusioni,
As if this flesh which walls-vallum palizzata- about our life
Come se questa carne che cinge di mura lo spirito
Were brass impregnable; and humour’d-lat. umor- umorem umidità- thus,
Fosse bronzo indistruttibile e dopo averlo lusingato così
Comes at the last, and with a little (pin lat- pinna penna, ala, freccia)
Viene alla fine e con un piccolo spillo
bores(-lat. forare)- through his castle wall, and farewell king!
Perfora le mura
Cover your heads, and mock not-late L. muccare, soffiarsi il naso- flesh and blood
Copritevi le teste e non canzonate un impasto di carne e di sangue
With solemn reverence, throw away gettate via respect lat. ,respicio respectus riguardo-
Tradition, form, and ceremonious-lat cerimonia- duty; tradizione formalità e il dovere dell’etichetta
For you have but mistook me all this while.
I live with bread, like you; feel want, vivo di pane come voi, sento desideri
Taste-( Late latin taxitare forma iterativa di taxare intensive di tangere)- grief-gravis-, need friends. Subjected-subiectus- thus ,assaporo il dolore ho bisogno di amici. Così asservito
How can you say to me I am a king? (Riccardo II, III, 2, 155-177)
Nelle Troiane di Euripide, Ecuba constata che il polu;~ o[gko~ , il grande vanto degli antenati era oujdevn, niente, era un gonfiore che si è dissolto.
“O grande vanto umiliato
Degli avi, come davvero eri un nulla!” (vv. 108-109)
La felicità dell’uomo di potere è dunque fasulla e della loro vita, recitata come quelle sul palcoscenico[16], non sappiamo nulla.
Sentiamo ora un pensiero (141) tratto dai Ricordi di Guicciardini " la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita[17]: “spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India".
Il secondo coro del Thyestes formato da vecchi micenei contrappone al tiranno crudele e avido un'immagine della regalità interiore:"rex est qui posuit metus/et diri mala pectoris,/quem non ambitio impotens/et numquam stabilis favor/vulgi praecipitis movet,/non quidquid fodit Occidens,/aut unda Tagus aurea/claro devehit alveo" (vv. 348-355), è re chi ha deposto le paure e le cattive passioni dell'animo crudele, quello che l'ambizione sfrenata non tocca e l'instabile favore del volgo precipitoso, né tutto quello che l'Occidente scava, o il Tago trasporta nel letto lucente con l'onda ricca d'oro.
Nella Fedra, Ippolito, che risponde alla nutrice, la quale lo ha invitato a godersi la vita, ribatte che la propria vita a contatto con la natura silvestre è più godibile e più sana di quella ansiosa delle corti e delle città: “Non alia magis est libera et vitio carens…quam quae relictis moenibus silvas amat” (Fedra, v. 483 e 485). Chi vive nelle selve è libero dall’ambizione, dall’invidia, dalla paura, dall’avidità. Desidera fuggire lontano dal lusso dei re: “sollicito bibunt/auro superbi; quam iuvat nuda manu/captasse fontem!” (vv. 518-520), gli arroganti bevono nell’oro che dà ansia. Nell’età più antica si viveva commisti agli dèi, senza brama dell’oro, né proprietà privata, né navi, né asservimento dei buoi per arare la terra. “Rupere foedus impius lucri furor-et ira praeceps” (v. 540-541). Seguirono altri mali, tra cui la guerra, “sed dux malorum femina” (v. 559). Vedi Medea di Seneca (vv. 1026-1027).
La nutrice commenta la dira libido della regina associandola alla sorte socialmente elevata (magnae comes fortunae, Fedra, v. 206).
Viceversa una sancta Venus, parvis habitat in tectis (v. 211) ed è il medium vulgus ad avere sanos affectus (v. 212). I ricchi e i potenti regnanti sono insaziabili: plura quam fas est petunt (v. 214). La sentenza finale è: “Quod non potest vult posse qui nimium potest” (v. 215), chi è troppo potente vuole potere l’impossibile.
Ma, ribatte Fedra, il potere supremo sulla mia persona è quello di Amore.
il quarto coro commenta la morte di Ippolito con queste parole:" Quanti casus humana rotant! Minor in parvis Fortuna furit,/leviusque ferit leviora Deus;/servat placidos obscura quies,/praebetque senes casa securos" (vv. 1123-1127), quante cadute fanno girare le umane vicende! sugli umili la Fortuna infuria di meno, e dio più debolmente colpisce i più deboli; un'oscura tranquillità conserva gli uomini in pace e una casetta presenta vecchi tranquilli. Il fatto è che la fortuna volubile non mantiene le sue promesse a nessuno: “nec ulli praestat velox/Fortuna fidem! ”(vv. 1142.1143).
Non solo nella tragedia il potere è malvisto da Seneca: nel De brevitate vitae troviamo l’immagine di Augusto che, come altri potenti, desidererebbe discendere dalla sua sommità: “cupiunt interim ex illo fastigio suo, si tuto liceat, descendere; nam, ut nihil extra lacessat aut quatiat, in se ipsa fortuna ruit " (4, 1, 2), desiderano talora discendere da quel culmine, se fosse possibile farlo senza pericolo; infatti posto che nulla dall'esterno la minacci o scuota, la fortuna implode da sola.
Manzoni riprende il tovpo" della violenza del potere nell' Adelchi quando il protagonista ferito consola il padre sconfitto:"Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto.." (V, 8). E' il diritto del più forte.
Parini in Il Mattino (prima parte di Il Giorno) aveva già ricordato questo “dritto” stravolto: “e ben fu dritto/se Cortes e Pizzrro umano sangue/non istimar quel ch’oltre l’Oceàno/scorrea le umane membra, onde tonando/e fulminando/, alfin spietatamente/balzaron giù da’ loro aviti troni/re messicani e generosi Incassi;/poiché nuove così venner delizie,/o gemma degli eroi, al tuo palato!” (vv. 149-157).
Bologna 29 ottobre 2022 ore 19, 09
giovanni ghiselli
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[1]Fuga dalla libertà , p. 144.
[2]De Catilinae coniuratione , 7.
[3]D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico , p. 47.
[4] Anche Callicle in Platone, Gorgia 483c sg. dichiara infatti che sarebbe conforme alla “natura” e giusto se il migliore avesse più del peggiore: così è anche per gli animali.
[5] B. Snell, Poesia e società, pp. 134-135.
[6] Questi due accusativi dell’oggetto interno denunciano il circolo chiuso che esclude i capaci dal giro dei deboli e degli incapaci i quali si danno forza reciproca con questi girotondi esclusivi e viziosi
[7] Cfr. oiJ ajsqenei'" a[nqrwpoiv del Gorgia di Platone (n.d. r.).
[8] Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 227.
[9] Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.
[10] G. Paduano (a cura di), Edipo, p. 9
[11] Fedra 1127.
[12] Gianna Petrone, op. cit., p. 360.
[13] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.
[14] J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 173.
[15] Riccardo II Plantageneto (Bordeaux, 6 gennaio 1367 – Pontefract, 14 febbraio 1400) è stato re d'Inghilterra dal 1377 al 1399. La tragedia di Shakespeare è del 1595.
[16] Cfr. la morte di Augusto in Svetonio.
[17]F. De Sanctis, Storia
della letteratura italiana , 2, p.
107
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