giovedì 15 agosto 2024

Alessandro. Brutti segni di morte. La fine di Alessandro che aveva compiuto l’opera assegnatagli dal fato.


 

Intanto Al. attaccava i Cossei, gente bellicosa, briganti montanari. confinanti con gli Ussi. Né l’inverno  poteva inceppare (ejmpodw;n ejgevneto)  lui o Tolomeo che guidava una parte dell’esercito, né il luoghi impervi (aiJ duscwrivai), e nessuna impresa bellica era per lui impossibile a[poron (Arriano,7, 15, 3).

Mentre tornava a Babilonia lo omaggiarono delegazioni di Lucani, Turrebi, Bruzzi, Sciti e Celti. Gli affidarono anche delle contese da risolvere e Al. apparve a se stesso e agli altri padrone (fanh'naikuvrion) di ogni terra e mare (7, 15, 5).

 

Gli storici di Al. Aristo e Asclepiade sostengono che anche i Romani mandarono una delegazione. Al. profetizzò che avrebbero avuto una grande potenza vedendo l’ordine (tovn te kovsmon ) di quegli uomini, l’amore per la fatica, il senso della libertà, ed essendosi informato sulla loro costituzione.  

Gli storici con cui Arriano soprattutto consente, Tolomeo e Aristobulo, non ne fanno menzione, né alcun romano. Arriano registra comunque la notizia ma non le dà molto credito, poiché nessun romano la dà, inoltre i Romani non lo temevano né si aspettavano aiuti;  e poi, giunti al culmine della libertà,  erano posseduti dall’ odio (mivseikatecomevnou", 7, 15, 6) per la razza e il nome dei tiranni.

Secondo Bosworth i Romani, che stavano intraprendendo la seconda guerra sannitica, potevano essere interessati alla benevolenza di Al. (p. 168).

 I Caldei lo sconsigliarono di entrare in Babilonia. Al. rispose citando Euripide: “Mavnti" d j a[risto" o{sti" eijkavzei kalw'"”(Fr. 973 Nauk.) , il profeta migliore è quello che congettura bene.  Infatti Al. interpretava le profezie secondo le proprie esigenze.

Secondo Diodoro Al. prima si spaventò, poi fu spinto da Anassarco e altri filosofi a disprezzare i Caldei e la loro divinazione (17, 112).

 

Plutarco racconta che fu Nearco a dirgli che i Caldei lo consigliavano di stare alla larga da Babilonia. Al. non ci fece caso ma, giunto alle mura di Babilonia vide molti corvi kovraka~ pollou;~ diaferomevnou~ kai; tuvptonta~ ajllhvlou~ (Vita, 73, 2) che lottavano e si colpivano a vicenda. Alcuni di questi gli caddero ai piedi.

 

E’ un cattivo segno: si trova anche nell’Antigone dove Tiresia risponde a Creonte che gli ha domandato, rabbrividendo, che cosa significhino i moniti precedenti :"Lo saprai ascoltando i segni dell'arte mia./Infatti sedendo sull'antico seggio/ augurale, dove c'era per me l'approdo di ogni alato,/odo uno sconosciuto frastuono di uccelli schiamazzanti/con furore cattivo e incomprensibile./E mi accorsi che si dilaniavano tra loro con gli artigli,/ a sangue: infatti il frullo delle ali non era senza significato" (vv.999-1004). I segni degli uccelli sono sempre auspici, non tutti buoni

"volatus avium dirigit deus", come ogni altra cosa del resto come i movimenti del petalo di rosa e la foglia di alloro.

 

Inoltre l'indovino Pitagora aveva trovato nelle vittime sacrificali un fegato senza lobi h|par a[lobon (Vita, 73, 5). Lo stesso Al. disse papai; ijscuro;n to; shmei'on, ahi, un segno forte! Al. si sente la morte addosso, non è più se stesso, perché questa volta non ha la forza di volgere il segno in proprio favore.

"Il successo e la fortuna sono in noi. Noi dobbiamo tenerli: saldi, profondamente. Appena qua dentro qualche cosa comincia a cedere, a stancarsi, a perder forza, tutti intorno a noi si sentono liberi, si ribellano, recalcitrano, si sottraggono al nostro influsso. Allora un guaio viene dopo l'altro, batoste su batoste, e si è liquidati"[1].

 

Sicché Alessandro si pentì di non avere ascoltato Nearco. Rimaneva fuori da Babilonia, non senza altri segni: un mite asino assalì e uccise a calci (laktivsa~ ajnei'len, 73, 7) il leone più grande tra quanti ne manteneva il re.  Poi il segno dell'uomo seduto sul suo trono. Al. era scoraggiato e sfiduciato hjquvmei kai; duvselpi~ h\n verso la divinità e pieno di sospetto (u{popto~)  nei confronti degli amici (74). Soprattutto temeva Antipatro e i  figli di lui: Iolao che era il suo ajrcioinocovo~, il primo coppiere e Cassandro che era scoppiato a ridere vedendo per la prima volta la proskynesis. Al. allora gli batté la testa contro il muro. A Cassandro rimase sempre una paura enorme di Al. Quando era già re di Macedonia (dal 305) si mise a tremare per avere visto a Delfi una statua di Al.

Plutarco nota che Al. era diventato taracwvde~ kai; perivfobo~ (75), confuso e pauroso da quando si era affidato ai segni divini. Lo storico commenta dicendo che se l’incredulità (ajpistiva) e il disprezzo (perifrovnhsi~) nei confronti del divino è terribile (deinovn), terribile d’altra parte è anche la superstizione (deinh; d  j au\qi~ hJ deisidaimoniva) che come la pioggia cade sempre sul terreno depresso (divkhn u{dato~ ajei; pro;~ to; tapeinouvmenon, Vita, 75, 2)    

 

Devi andare verso oriente, dicevano i Caldei. Ma il demone lo spingeva dove, una volta arrivato, doveva morire. E forse fu meglio per lui morire ejn ajkmh'/, al culmine della fama e del rimpianto degli uomini; per questo motivo Solone disse a Creso di non considerare felice un uomo prima di averne conosciuta la fine[2] (Arriano,  7, 16, 7).

Al. voleva fare ricostruire il tempio di Belo distrutto da Serse, con l’oro  la terra e le ricchezze del dio gestite dai sacerdoti. Sicché pensò che la pretaglia volesse ostacolare il suo ingresso  ej" wjfevleian th;n auJtw'n, nel loro interesse. Questo viene smascherato solo quando non coincide con il suo. Voleva comunque entrare procedendo verso oriente, come gli avevano detto, ma il terreno era paludoso e fangoso e non ci riuscì. Kai; ou{tw kai; eJkovnta kai; a[konta ajpeiqh'sai tw'/ qew'/ (7, 17, 6) così, sia volendo sia senza volere, disobbedì al dio.

L’indovino Pitagora aveva fatto sacrifici sia riguardo ad Efestione, sia  ad A.,  e in entrambi i casi non si vedeva il lobo nel fegato[3] della vittima.

 To; h|par a[lobon significava qualche cosa di molto grave mevga calepovn  (7, 18, 4). Al. non punì l’indovino, anzi lo stimò poiché gli aveva detto la verità ajdovlw", senza inganni. Il saggio indiano Calano quando salì sulla pira abbracciò gli altri e disse ad Al. che l’avrebbe abbracciato incontrandolo a Babilonia. Ne aveva profetizzato la morte.

Al. restituì agli Ateniesi le statue di Armodio e Aristogitone rubate da Serse. Il re radunò una grande flotta, quella di Nearco più le navi della Fenicia smontate e portate là, più delle navi costruite con i cipressi di Babilonia.  Voleva colonizzare il golfo persico e attaccare gli Arabi che non lo avevano omaggiato; ma in realtà A. era a[plhsto" tou' kta'sqai ti ajeiv (Arriano, 7, 19, 5), insaziabile di conquistare sempre qualche cosa.

 

La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione: che pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non son dominati dalle illusioni…Esempio: l’impresa d’Alessandro: tutta illusione” (Leopardi, Zibaldone, 14).

 

La storia universale in rebus ipsis e nel racconto.

 

“Alessandro Magno aiutò a riscoprire il mondo di Ecateo, caratterizzato, in duplice modo, dalla esigenza unitaria della “storia universale” e dall’identità di ricerca storica e descrizione geografica. Nel 325 a. C. Alessandro fu affascinato da un’alta ambizione: mandare la sua flotta lungo il grande Oceano, dal delta dell’Indo al golfo Persico; lascia affrontare una navigazione ch’egli considerava la più rischiosa, seppure la più affascinante, delle avventure…La terra apparve di nuovo nella sua unità, quasi un’isola; e la geografia ellenistica, di cui Eratostene[4] fu poi massimo rappresentante, tornò ad immaginarla, di fatti, abbracciata dall’Oceano…nel IV secolo l’ideale universalistico era qualcosa di vivo, già prima di Alessandro. Vale la pena di ricordare…il cinico Anassimene[5]: questi trattava “quasi tutte le imprese dei Greci e barbari”. Eforo[6]…si meritò le lodi di Polibio che lo ritenne “primo e solo ad avere trattato storia universale”. Polibio menziona Eforo come  " to;n prw'ton kai; movnon ejpibeblhmevnon ta; kaqovlou gravfein" ( V 33, 2), il primo e l'unico che si è messo a scrivere una storia universale.

I  3O libri di  JIstorivai di Eforo ci sono  noti soprattutto per il largo uso che ne ha fatto Diodoro. In realtà, primo e solo Eforo non era. Quando, nel quarto dei suoi ventinove libri di Storie, trattava l’Europa, e nel quinto l’Asia, la sua opera si rifaceva, nello spirito, a quella considerazione unitaria di Grecia e Oriente, che già si trovava in Ecateo ed Erodoto”[7].  

In Erodoto non direi: aveva infatti negato l’Oceano.  Nel secondo libro lo storiografo di Alicarnasso scrive: colui che ha parlato dell'Oceano ("oj de; peri; tou'  jWkeavnou levxa"", con riferimento a Ecateo) e ha portato il discorso su cose oscure, non merita nemmeno confutazione; io infatti non so che ci sia un fiume Oceano ("ouj gavr tina oi\da potamo;n  jWkeano;n ejovnta", II, 23), ma credo che Omero    o qualcun altro dei poeti vissuti prima di lui abbia inventato il nome e l'abbia introdotto nella poesia.

Polibio nota che ai suoi tempi quasi tutte le regioni del mondo sono diventate navigabili e percorribili (scedo;n aJpavntwn plwtw'n kai; poreuetw'n gegonovtwn), quelle dell’Asia grazie all’impero di Alessandro (dia; th;n  j  Alexavndrou dunasteivan), le altre grazie al dominio romano (dia; tw'n   JRwmaivwn uJperochvn, 3, 59, 3).

 

  L’insaziabilità di Alessandro, di Ciro il Vecchio e di Dario.

 L’insaziabilità di Al. (a[plhsto" tou' kta'sqaiv ti ajei; jAlexavndro~ , Arriano, 7, 19, 6) richiama quella dei suoi predecessori sul trono persiano: Erodoto racconta che Tomiri, regina dei Massageti (Sciti) che vivevano oltre l’Arasse, giurò per il Sole e preannunciò a Ciro insaziabile che lo avrebbe saziato di sangue: “ejgw; kai; a[plhston ejovnta ai{mato" korevsw” (Erodoto, I, 213), io ti sazierò di sangue anche se sei insaziabile. E così fece, oltraggiando il cadavere e ficcandone la testa in un otre pieno di sangue umano. Dante che conosce l’episodio da Orosio[8] (Historiae adversus paganos, “Satia te sanguine quem sitisti”, II, 7, 6), ne fa un esempio di superbia punita: “Mostrava la ruina e ‘l crudo scempo/che fe’ Tamiri, quando disse a Ciro:/’ Sangue sitisti, e io di sangue t’empio’” (Purgatorio, XII, 55-57).

Altrettanto a[plhsto"  fu Dario che aprì la tomba della regina babilonese Nitòcri per prendervi denari annunciati da un’iscrizione, invece trovò il cadavere e la scritta: se tu non fossi insaziabile (a[plhsto" ) e aijscrokerdhv" , amante dei turpi guadagni, non apriresti le tombe dei morti (Erodoto, I, 187).

 

Al.dunque voleva sottomettere gli Arabi, aspettandosi di essere venerato da loro come terza divinità dopo Urano e Dioniso. Il secondo è venerato per la spedizione in India, Urano perché contiene tutte le altre stelle e il sole “ ajf j o{tou megivsth kai; fanotavth wjfevleia ej" pavnta h{kei ta; ajnqrwvpeia” (Arriano, 7, 20, 1), dal quale deriva il beneficio più grande e più evidente a tutte le cose umane[9].

Anche l’eujdaimoniva della regione lo attirava (cfr. Arabia felix in Plinio il Vecchio Naturalis historia,   5, 87, attuale Yemen).

Ci fu anche il brutto segno del diadema che un colpo di vento gli portò via mentre navigava nelle paludi.

“Talvolta per gli uomini  è grandissima l’utilità dei vènti ” afferma Pindaro (Olimpica XI,vv. 1-2), riferendosi forse a quando nelle gare il vento è favorevole, ma questa volta ad Al. preannunciava  la morte.

 Secondo Aristobulo fu un marinaio fenicio a riportarlo, secondo altri fu Seleuco e questo significò la morte per A. e il grande regno per Seleuco che fu il più grande dei diadochi, il più regale di spirito : “mevgiston tw'n meta ;  jAlevxandron diadexamevnwn te gnwvmhn basilikwvtaton” (Arriano, 7, 22, 5).

 Regnò sul territorio più esteso. Morì nel 280, per ultimo tra i diadochi dopo la battaglia di Curupedio (281). Regnò dall’Ellesponto all’Indo e fu grande fondatore di città. Fu assassinato da Tolomeo Cerauno figlio di Tolomeo Sotèr e fratellastro del Filadelfo. Il regno di Seleuco passò al figlio Antioco.

 

La fine di Al. non era lontana (ouj povrrw hJ teleuth; h\n, 7, 23, 2). Dal tempio di Ammone giunse la risposta che poteva onorare e fare sacrifici ad Efestione come a un eroe  (7, 23, 6).

Diodoro racconta che Al. ordinò di rendere sacrifici ad Efestione come dio Paredro e che gli fece sacrificare diecimila vittime di ogni specie (17, 115).

 Gli eroi sono strettamente congiunti da una parte colle divinità ctonie e dall’altra coi morti. Infatti essi non sono altro che gli spiriti dei morti, che abitano nell’interno della terra, vivono là sotto eternamente, come gli dèi, e si avvicinano a questi in potenza[10].

Alessandro scrisse a un farabutto, Cleomene che in Egitto aveva commesso molte malefatte, dicendo che lo avrebbe perdonato se avesse costruito ad Alessandria d’Egitto, a regola d’arte, templi e santuari per Efestione. Uno lo voleva sull’isola di Faro, dove c’è la torre.

Arriano disapprova il perdono al farabutto: “oujk e[cw ejpanevsai” (7, 24). Ma la fine era vicina ejggu;" h\n to; tevlo". Ci fu un altro presagio cattivo. Un tale di nessun conto sedette sul  trono di Alessandro.

Diodoro racconta che Al. era turbato da questi segni funesti e si rammentava delle predizioni dei Caldei cui tornava a dare credito. Quindi muoveva accuse ai filosofi che con la loro abilità di escogitare ragionamenti pensavano di vincere la potenza del destino con la debole forza dei sofismi (17, 116).

Plutarco ci dice qualcosa della ruggine tra Al. e i filosofi i quali gli davano brighe (pravgmata) insultando i re che si arrendevano, e sobillandogli contro i popoli liberi: dio; kai; touvtwn pollou;~ ejkrevmase (59, 8), perciò anche di questi impiccò parecchi.

Violenza contro violenza. “I filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema[11].

Al. si mise a banchettare e a bere con gli amici. Quindi si sentì male. Poi morì dicendo che il regno doveva restare al migliore.

 

"Alexander died, Alexander was buried, Alexander returned into dust" (Shakespeare, Amleto, 5, 1), Alessandro morì, Alessandro fu sepolto, Alessandro ridivenne polvere. Al era un uomo,  ossia quintessence of dust   (Amleto, 2, 2), quintessenza di polvere.

 

Si dicono molte cose sulla sua morte: che Antipatro mandò un veleno (farmakon, 7, 27). Antipatro era in disgrazia per gli intrighi di Olimpiade. Il veleno lo avrebbe portato suo figlio Cassandro, dentro uno zoccolo di mulo. “Gli Ateniesi votarono subito decreti onorifici per il figlio di Antipatro, Iolao, il presunto assassino, e può darsi che di avvelenamento abbia parlato apertamente anche il contemporaneo Onesicrito” (Bosworth, p. 172). Glielo avrebbe somministrato Iolao, fratello minore di Cassandro e coppiere, e anche Medio, amante di Iolao, avrebbe partecipato all’azione. Medio infatti introdusse A. nella baldoria.

 

Plutarco racconta che all’inizio di giugno del 323 a. C. Alessandro fu invitato da Medio perché andasse da lui kwmasovmeno~ (Vita, 75, 4) a fare baldoria. Il conquistatore macedone rimase là tutta la notte, poi cominciò ad avere la febbre. Non è vero che bevve alla tazza di Eracle, né che fu preso da un dolore alla schiena[12], come fosse stato colpito da una lancia, secondo quanto scrivono alcuni, quasi rappresentando la conclusione tragica e dolorosa di un grande dramma (w{sper dravmato~ megavlou tragiko;n ejxovdion kai; peripaqe;~ plavsante~, Vita,  75, 5).

 

Differenza tra storia e tragedia. Polibio. Gorgia. Aristotele.

  Polibio sostiene che la storia non deve tragw/dei'n,  rappresentare tragedie. Lo scopo della storia e della tragedia non è lo stesso ma è opposto ("to; ga;r tevlo" iJstoriva" kai; tragw/diva" ouj taujtovn, ajlla; toujnantivon", II, 56, 11) in quanto la tragedia deve impressionare e affascinare momentaneamente gli spettatori attraverso la verosimiglianza dei discorsi ("dei' dia; tw'n piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to; paro;n tou;" ajkouvonta"", II, 56, 11) mentre la storia deve istruire e convincere per sempre con fatti e discorsi veri coloro che vogliono imparare ("dia; tw'n ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to;n pavnta crovnon didavxai kai; pei'sai tou;" filomaqou'nta"" ). Questo  poiché nella tragedia prevale il verosimile, anche se falso, per creare illusione negli spettatori ("dia; th;n ajpavthn tw'n qewmevnwn"), mentre nella storia il vero per l'utilità di quelli che vogliono imparare ("tajlhqe;" dia; th;n wjfevleian tw'n filomaqouvntwn", II 56 12).

Si ricorderà che Gorgia aveva detto che la tragedia creava un inganno nel quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato ("oJv te ajpathvsa" dikaiovtero" tou' mh; ajpathvsanto" kai; oJ ajpathqei;" sofwvtero" tou' mh; ajpathqevnto""[13]).

Secondo Aristotele l'arte è essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il teatro ne costituisce la quintessenza. Il poeta però, diversamente dallo storico che racconta cose avvenute, deve volgersi a quello che potrebbe sempre avvenire secondo verosimiglianza e necessità: “dio; kai; filosofwvteron kai; spoudaiovteron poivhsi~ iJstoriva~ ejstivn” (1451b, 5), e perciò la poesia è più filosofica e più importante della storia. Infatti la poesia esprime piuttosto l’universale[14], la storia il particolare.

 

Plutarco riferisce la versione di Aristobulo: Al. che aveva una gran febbre e una gran sete continuò a bere vino, entrò in delirio e morì (Vita, 75, 6). Quindi riporta le notizie contenute ejn tai'~ ejfhmerivsin (Vita, 76), nei diari di corte. Erano redatti da segretari sotto la direzione di Eumene di Cardia. Raccontano che Al. non faceva stravizi, giocò a dadi con Medio, fece diversi bagni, parlò con i generali, fece sacrifici e la febbre non scese mai oJ de; pureto;~ oujk ajnh'ken (76, 7). Quindi perse la voce: h\n a[fwno~. Poi i soldati macedoni aprirono con violenza le porte della reggia e, vestiti della sola tunica, sfilarono tutti accanto al suo letto (para; th;n klivnhn, 75, 8). Ancora una volta il letto come luogo sacro della vita[15], e della morte.  Al. morì il ventotto di sera. Lì per lì nessuno ebbe il sospetto di avvelenamento (farmakeiva~ d j uJpoyivan, 77, 2) ma sei anni dopo Olimpiade mandò a morte molti e fece gettare via le ceneri (ta; leivyana) di Iolao morto, dicendo che aveva avvelenato A. Secondo alcuni fu Aristotele a spingere Antipatro e addirittura a  procurargli il veleno. Questo era un liquido acquoso, freddissimo che proveniva da una sorgente dell’Arcadia ed era conservato in uno zoccolo d’asino. Ma i più pensano che questa storia sia una fiction to;n lovgon o{lw~ oi[ontai peplavsqai (77, 5) e la prova (tekmhvrion)  è che il corpo rimase diversi giorni esposto al caldo senza corrompersi. Rossane incinta uccise Statira insieme alla sorella, poi gettò i cadaveri in un pozzo con la complicità di Perdicca il quale teneva con sé, come presidio del suo potere regio, Arrideo, figlio di Filippo e di Filinna, una donna non nobile, ed era minorato a causa di una malattia. Pare che tale morbo gli fosse stato causato da Olimpiade con delle droghe (farmavkoi~, 77, 8).

 

Arriano. Al. bevve oltre un intero cratere, cinque litri di vino non diluito. C’è chi ha scritto che A. voleva gettarsi nell’Eufrate per accreditare una sua sparizione da dio. Alla moglie Rossane che lo tratteneva disse che lo privava della gloria di essere nato dio. Morì a 32 anni e otto mesi, regnò dodici anni e otto mesi. Era sw'ma kavllisto", kai; filoponwvtato"  kai; ojxuvtato" kai; th;n gnwvmhn ajndreiovtato" kai; filotimovtato" kai; filokindunovtato" kai; tou' qeivou ejpimelevstato" (7, 28), era di corpo bellissimo, e molto amante delle fatiche, acutissimo di mente e coraggiosissimo e molto amante della gloria e dei rischi e assai rispettoso del divino. Vedi Ciro nell’Anabasi di Senofonte.

Era capace di dominare i piaceri del corpo, ma ajplhstovtato" insaziabile dell’elogio dello spirito (28, 2), deinovtato" nel vedere quello che bisognava fare in una situazione e[ti ejn tw'/ ajfanei', ancora oscura, e ci azzeccava nel congetturare il verosimile partendo dalle apparenze ejk tw'n fainomevnwn to; eijko;" xumbalei'n ejpitucevstato" (cfr. Temistocle in Tucidide, I, 138, 3).

Temistocle è il primo l'eroe di questa intelligenza laica: egli che "oijkeiva/ xunevsei" appunto, con la sua facoltà di capire, era "tw'n te paracrh'ma di j ejlacivsth" boulh'" kravtisto" gnwvmwn", ottimo giudice della situazione presente attraverso un rapidissimo esame" e "tw'n mellovntwn ejpi; plei'ston tou' genhsomevnou a[risto" eijkasthv""( Tucidide, I, 138, 3), e ottimo a congetturare il futuro per ampio raggio in quello che sarebbe accaduto.  "Per questo più che lo stesso Pericle", secondo Canfora[16]" è Temistocle il politico per eccellenza, il modello e insieme l'ideale

 

Al. era bravissimo come stratego. Eccellente nel sollevare il morale delle truppe: to;n qumo;n toi'" stratiwvtai" ejpa'rai, riempirle di buone speranze e fare sparire la paura nei pericoli con il suo ardimento to; dei'ma ejn toi'" kinduvnoi" tw'/ ajdeei' tw'/ auJtou' ajfanivsai . (Arriano, 7, 28, 2). Rispettava gli accordi, era parsimonioso per sé e generoso con gli altri. L’ira può essere addebitata alla giovane età e l’arroganza agli adulatori che stanno accanto ai re per loro disgrazia. Ma per sua nobiltà si pentì degli errori commessi. Infatti il solo rimedio di un errore movnh i[asi" aJmartiva"  (7, 29, 2) è ammettere di avere sbagliato e mostrare il pentimento. Non è stata una grave colpa nemmeno avere ricondotto la sua nascita a un dio.

L’abbigliamento persiano mostrava ai barbari la sua non estraneità; ai Macedoni il distacco dalla superbia e dalla rozzezza macedone. Il vino lo beveva per amicizia verso i suoi compagni. Chi lo denigra, pensi alle sue imprese e alla propria pochezza che si affatica per piccole cose e non riesce a risolvere nemmeno quelle. Un uomo del genere, simile a nessun altro, non mi sembra che sia potuto nascere e[xw tou' qeivou (7, 30, 2), fuori da un intervento divino. Io che lo ammiro, talora l’ho biasimato ajlhqeiva" te e{neka th'" ejmh'" kai; a{ma wjfeleiva" [17]th'" ej" ajnqrwvpou", per il rispetto che porto alla verità e per l’utilità degli uomini; per questo mi sono messo a scrivere quest’opera, neanche io senza la divinità: “ ejf j o{tw/ wJrmhvqhn oujde; aujto;" a[neu qeou' ej" thvnde th;n xuggrafhvn” (7, 30, 3). Ecco dunque il mito di Alessandro e il mito di Arriano.

 

Pesaro 15 agosto 2024 ore 18, 16 giovanni ghiselli

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[1] T. Mann, I Buddenbrook, p. 276.

[2] Erodoto,  I, 32.

[3] Nell’Oedipus di Seneca segni brutti e  contronatura li dà la giovenca sacrificata:"cor marcet aegrum penitus, ac mersum latet,/liventque venae; magna pars fibris abest;/et felle nigro tabidum spumat iecur" (vv. 356-358), il cuore malato è marcio profondamente, e rimane nascosto colato a fondo, le vene sono livide; alle fibre manca grande parte; e il fegato schiuma putrefatto in un fiele nero.

Sono tutti segni: il cuore marcio che si nasconde allude ai sentimenti malati e obbrobriosi della famiglia, il fegato putrefatto alle passioni pervertite e letali, le fibre carenti alla vita caduta a terra e incapace di risollevarsi, le vene livide all'invidia delle corti. Gli aruspices, giunti in un primo tempo dall’Etruria, erano specializzati nel leggere il futuro nel fegato delle vittime.

[4] 295-215 a. C. Geografikà.

[5]  Seconda metà del IV sec. Elleniche, Storia di Alessandro.

[6] 400-330 a. C.  Scrisse Storie ellenocentrica. Il primo esempio di storia universale.

[7] Mazzarino, Il pensiero storico classico, II 1,p. 5.

[8] V sec. D. C.

[9] Cfr. il culto del sole in Sofocle, Platone, Giuliano Augusto, San Francesco, Dante. 

 

[10] E. Rohde, Psiche, p. 154.

[11] R. Musil, L’uomo senza qualità, p. 243.

[12] Questi particolari si trovano nella Biblioteca storica di Diodoro Siculo (XVII, 117)

[13]In Plutarco, de glor. Ath. 5 p. 348 C

[14] “ Deve necessariamente esservi una differenza tra la vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa differenza? Su questo punto molte cose sono state scritte specialmente dagli ultimi critici tedeschi…Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo carattere “d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 118.

[15] Guy de Maupassant in un suo  racconto erotico afferma l'importanza capitale del letto:"Tengo più al mio letto che a qualsiasi altra cosa. E' il santuario della vita. Gli affidiamo nuda la carne stanca, perché la rianimi e la riposi nel candore delle lenzuola e nel calduccio delle piume. E' là che troviamo le ore più dolci dell'esistenza, le ore dell'amore e del sonno. Il letto è sacro. Dobbiamo rispettarlo, venerarlo; amarlo come quanto abbiamo di migliore e di più dolce sulla terra" Le sorelle Rondoli , in Racconti d'amore, p. 256.

 

 

[16]Antologia Della Letteratura Greca , II vol., p. 459.

[17] Questo è un tratto tucidideo.

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