giovedì 29 agosto 2024

La settimana bianca a Moena seconda parte.


Argomenti della seconda parte

 La passeggiata alla malga Peniola e alla cappella della Vergine

madre. L'incontro con Flavio"lo strullo". Altre sciate pensose rabbrividendo nel gelo. La camminata sotto le stelle amiche. Tenete lontani i  canidi nemici dell’uomo.

 

La mattina del 3 marzo sciai; nel pomeriggio, per variare le

interminabili ore di solitudine, camminavo verso la Malga Panna.

Quando ci fui arrivato, continuai per il sentiero sdrucciolevole che

porta alla Malga Peniola. Era una giornata calda e umida: il

cielo appariva gonfio di nuvole giallognole e acquose; la neve,

corrosa da un vento dolciastro, si liquefaceva.

Procedevo guardando gli alberi madidi e la terra fangosa: cercavo

visioni belle e confortanti: invano. Nell'anima  gocciava

l'angoscia. L'ultima telefonata non era valsa ad ammazzare i tarli

del mio cervello: continuavo a pensare che di Ifigenia non

potevo fidarmi. Nessun ragionamento potente o sottile, diritto o

contorto, valeva a correggere un sentimento così negativo e

profondo.

Sbucato dal bosco in una radura, vidi la Malga e la piccola chiesa

contigua. Una volta, sulla metà degli anni Cinquanta, mi ci avevano portato le zie. Mi

avvicinai alla cappella. L'uscio era chiavato, ma l'interno si poteva

vedere da una finestrina quadrata, chiusa soltanto da due sbarre di

ferro arrugginite e disposte a formare una croce: dentro il


 

 

 

minuscolo tempio, di fronte alla rugginosa inferriata, c'era

un'immagine della deipara vergine.

"La vergine madre – pensai –, sempre la storia dell'imene. Mentre

siamo bambini indifesi e suggestionabili, i preti ci impongono una

schifezza del genere. La madre perfetta fa i figli senza fare

l'amore. Se li prendi sul serio, quelli ti inibiscono la gioia amorosa

o te la rovinano con il rimorso. Vogliono dire che mettere al

mondo un figliolo secondo natura è cosa sporca,

debolezza e peccato.

Insozzano ogni venire alla luce. Me l'hanno inculcato quando ero

piccino. Hanno fatto di tutto perché odiassi l'amore, gettando una

gran confusione dentro di me".

A un tratto, dalla malga uscì un uomo di pelle e capelli rossicci;

mi osservava e sorrideva come si fa con un buon conoscente, poi

mi venne vicino e domandò se avessi bisogno di qualche cosa.

"No, guardo soltanto".

Continuava a sorridermi. Mi accorsi che lo conoscevo e mi tornò in mente il suo nome.

Venticinque anni prima era un bambino un po’ ritardato.

"Ciao Flavio – gli feci –, come stai? ti ricordi di me?"

"No, chi sei?"

"Sono gianni di Pesaro; negli anni Cinquanta venivo a Moena in

agosto; abitavo in via Damiano Chiesa. Facevamo le corse intorno

alla fontana del Turco. Eravamo bambini allora. Che strano

rivederci qui da adulti!"

Continuava a sorridere. Teneva le mani in tasca. La stessa

espressione, lo stesso atteggiamento di allora. Probabilmente

anche io: in quel tempo ero un bambino spaurito; sembravo

sempre in procinto di piangere, dicevano alle due zie.

"Ti posso offrire un bicchiere di vino, Gianni?"

"Sì grazie, volentieri." Entrammo nella malga deserta e ci

sedemmo. Mi mostrò una bottiglia: Terodelgo Rotaliano , vino del

concilio di Trento. Pensai alla pretaglia carnefice dei miei sensi

amorosi, ma dissi che andava bene, che mi piaceva molto. Riempì

due bicchieri.

"Raccontami qualcosa di te e degli altri che giocavano con noi in

via Damiano Chiesa. Tu che hai fatto in questi anni?"

Balbettando rispose che aveva servito come facchino in un paio di

alberghi e aveva visto molta gente, persone per bene. Anche da

ragazzino non diceva male mai di nessuno. Le zie lo definivano "


 

 

 

lo strullo" e mi consigliavano di non frequentarlo. A me non

dispiaceva: mi insegnava qualcosa con quel suo perpetuo sorriso.

Rimasi là un paio di ore: mi raccontò alcune storie di ex bambini

Moenesi e villeggianti, nostri compagni di giochi. Non sentii una parola

malevola. Gli dissi di me, del mio lavoro con i bambini che mi

curano l'anima . Poi gli chiesi se potevo invitarlo a cena, non in

 

via Damiano Chiesa purtroppo, ché la casa non era più della zia: il marito l’aveva lasciata ai propri nipoti.

Rispose che doveva restare lì: custodiva la malga Peniola e la

chiesa.

Camminando verso l'albergo mi domandavo se quello "strullo"

non fosse migliore e meno infelice di me.

 

Il quattro marzo era un giorno ventoso, e così freddo da scorticare

le capre. Era una pena salire con la seggiovia e scendere con gli

sci, sempre agghiacciato dal vento che soffiava vortici duri di gelo

sulla mia povera faccia e sui visi cagnazzi[1]

 

degli altri sciatori,

lividi tutti come le pietre dei monti. Io mi sforzavo di cacciare i

pensieri cattivi, di ripararmi dalle loro trafitture impietose. Ma

quelli, sempre vivi , continuavano a pungermi, senza concedermi

 

un momento di tregua. Per contrastarli, mi domandavo:" Cosa

starà facendo adesso  la  creatura bella e soave

amata mihi quantum amabitur nulla?[2] . Camminerà, starà

 

seduta da qualche parte o avrà appoggiato la schiena a una parete? Beate voi sedie

e pareti che reggete il peso soave di quella ragazza !"[3]

 

Mi sforzavo di evocare sentimenti amorosi attingendo espressioni

dal mio repertorio di frasi belle e già fatte. Ciò nonostante i

pensieri malvagi non cessavano di pullulare, non smettevano di

brulicare nel  cervello, quale sciame di insetti molesti o groviglio

di vermi schifosi. Mormoravo:" Ifigenia non è la mia donna

ideale: non è luce per me[4] , né io lo sono per lei. Di corpo è bella


 

 

 

assai, ma il volto è poco espressivo. Ed è proprio l'intensità dello

sguardo che mantiene vivo a lungo l'interesse erotico e umano!".

Il pungiglione della mia critica implacabile  superava la

resistenza delle parole amorose di Catullo, di Shakespeare, di Omero, e

scendeva a fondo nella carne viva dell'anima, trapanandola senza

pietà.

Il pomeriggio si fece vedere il sole che colorì il cielo, la terra e la

mia faccia, dandomi pure conforto. Pensavo:" Ifigenia è viva e

composita come questa natura. L'una e l'altra sono fatte di

splendidissimo sole e di nuvole fosche, di vento aspro e di

sorridente bonaccia. Del resto la pena e la gioia circolano per tutti

gli uomini come i continui giri delle stagioni che portano, quindi portano via tutto. Non rimangono fisse per i

mortali né la notte stellata, né la sorte cattiva, né la salute, ma

rapidamente fuggono via ".

 

La sera  le riferii soltanto il meglio di ciò che avevo pensato.

Disse:"Tu sei intelligente gianni. Io ti amo".

"Anche io" conclusi.

In quel momento ero sincero. Se era capace di apprezzare la mia

intelligenza, non poteva che amarmi.

Quella notte il cielo era tutto sereno e le stelle brillavano con

speciale vigore sopra la valle di Fassa. Uscii e scesi verso Moena.

Arrivato in paese, cominciai a risalire la china dall'altra parte del

fiume, lungo la via dalla quale il  pomeriggio del giorno prima

avevo osservato un cielo umido e sporco, quasi fangoso. Sotto il

firmamento pulito, la terra era diversa, e io mi sentivo un'altra

persona. Dopo il cimitero, il viottolo non era più illuminato da

lampadine, sicché, camminando, potevo contemplare le stelle

senza disturbo: erano splendidissime come la mia compagna

vivace.

Passato il paesino di Sorte, c'è un chilometro di buio solitario e

scosceso. Si udivano ululati cupi di lupi, un rauco ringhiare di cani e lugubri versi di strigi. Altre volte,

percorrendo quel sentiero ripido e tetro, avevo pensato con orrore

ai miei fallimenti sentimentali, all'isolamento affettivo e sociale in

cui mi trovavo, all'ora terribile della mia morte senza conforto di

donna e di figli. E avevo avuto paura. In quel momento invece

.


 

 

 

nulla mi sbigottiva: né i latrati insistenti e aborriti dei canidi, né la mia solitudine

eterna.

Sentivo una forza lietificante dentro di me, una luce di amore e di

giustizia che mi consolava dei fallimenti parziali e mi rendeva

sicuro del bene che avrei fatto durante il resto della mia vita

mortale. La questione della verginità e della condizione economica

di Ifigenia, di qualsiasi donna, diventava ridicola e falsa.

Poteva riguardare i ministri perversi di una religione corrotta e

capovolta, non me, non Dio, né Gesù Cristo e sua madre.

Dovevo usare il metro dell'intelligenza e dei sensi per misurare la

mia compagna, non i luoghi comuni.

Queste erano le riflessioni giuste, poiché mi davano forza e

coraggio. Gli ululati, che pure si facevano più rumorosi, minacciosi e

frequenti, non mi impaurivano. Continuavo a guardare le fiaccole

vive del cielo dove vedevo riflessa l'anima della mia donna;

osservavo le montagne scure, slanciate e profumate come i capelli,

la figura, la pelle di lei. Anche in me c'era un'anima viva che si

sentiva in armonia con la santa natura.

Pesaro 29 agosto 2024 ore 10, 53 giovanni ghiselli

p. s

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Cfr. Dante, Inferno, XXXII, 70-72:"Poscia vid'io mille visi cagnazzi/fatti per

freddo; onde mi vien riprezzo,/e verrà sempre, de' gelati guazzi

[2] Catullo, 8, 5.Amata da me quanto nessuna mai lo sarà.  

 

[3] Cfr. Shakespeare, Antonio e Cleopatra, I, 5:"O happy horse, to bear the weight

of Antony!", beato cavallo che porti il peso di Antonio!

[4] Cfr. Iliade, XVIII, 102.

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