lunedì 12 agosto 2024

Alessandro in India. La logica dell’impero non ammette tregua.


 

La campagna contro Poro 326.

Ancora Plutarco riferice  Onesicrito (FGrH134F19), secondo il quale mentre, nell’attraversare l’Idaspe, la riva ulteriore franava, e i Macedoni erano in difficoltà  Al. allora disse: o Ateniesi, si potrebbe credere a quali pericoli mi espongo e{neka th'~ par j uJmi'n eujdoxiva~; (Vita, 60, 6) per essere ben reputato presso di voi?

 

Nel Simposio   Platone fa dire a Diotima che Alcesti, Achille e Codro hanno dato la vita , non tanto per gli amati e la patria, quanto convinti che immortale sarebbe stata la fama della loro virtù ("ajqavnaton mnhvmhn ajreth'" pevri eJautw'n e[sesqai", 208d).

Tutti  fanno ogni cosa per la virtù immortale e tale fama gloriosa ("uJpe;r ajreth'" ajqanavtou kai; toiauvth" dovxh" eujkleou'" pavnte~ pavnta poiou'sin" 208d).

In effetti il coro dell'Alcesti  di Euripide, il cosiddetto filosofo della scena, elogia l'eroina morente con queste parole:" i[stw nun eujklehv" ge katqanoumevnh-gunhv t  j ajrivsth tw'n uJf  j hjlivw/ makrw'/"(vv. 150-151), sappia dunque che morrà gloriosa/di gran lunga la migliore delle donne sotto il sole.

Una gloria che la stessa moribonda rivendica, biasimando i genitori di Admeto ("oJ fuvsa" chJ tekou'sa",v. 290),  poiché hanno lasciato perdere l'occasione di salvare nobilmente il figlio e morire con gloria("kalw'" de; sw'sai pai'da keujklew'" qanei'n", v. 292). 

 

Secondo Jaeger questa aspirazione alla gloria e alla perfezione della virtù viene intesa da Aristotele "quale emanazione d'un amor di sé elettissimo, la filautiva". L'espressione si trova nell'Etica Nicomachea che  seguita con questo brano:"Invero vivere breve tempo in somma gioia sarà preferito, da chi sia animato da tale amor di sé, ad una lunga esistenza in pigra quiete. Egli vivrà piuttosto un anno solo per uno scopo elevato, che non condurre una lunga vita per nulla. Compirà piuttosto un'unica magnifica e grande azione, che non molte insignificanti"[1]. L'autore di Paideia  conclude così:" In queste parole è espressa la fondamentale concezione della vita dei Greci, nella quale ci sentiamo loro affini d'indole e di razza: l'eroismo"[2].

 

 

 

Oltre l’Idaspe c’era Poro (estate 326) con gli elefanti. Voleva impedire la traversata ai Macedoni. Al. mosse l’esercito in varie direzioni perché Poro fosse incerto tra due assalitori ajmfivbolo~ (5, 9, 2). A. creava confusione con finti assalti. Invece poi, credendo di avere passato il fiume, per primo metteva ordine tra i propri cavalieri (5, 13, 2). Ma era su un’isola.

Passato l’altro braccio dell’Idaspe, A. perse Bucefalo ucciso dal figlio di Poro che venne ucciso a sua volta. Gli elefanti colpiti danneggiavano gli stessi Indiani. Morirono i due figli di Poro.

 

Cultura degli Indiani.

Nel XIII capitolo dell’Indiké Arriano racconta come gli Indiani catturano gli elefanti: li attirano in un recinto con le femmine. Il branco segue il più grande e nobile di tutti (13, 7). Leopardi menziona questo capitolo per dire che se tra gli animali c’è qualche vestigio di comando esso viene da superiorità di natura e quasi di specie, intorno a cui non ha luogo invidia né emulazione” come “le donne non invidiano agli uomini la loro maggior fortezza, nello stesso modo che noi non l’invidiamo al leone ( 3779).

 

Condanna del lusso.

Nel capitolo 9 del libro VIII Curzio descrive l’India biasimando il commercio di margaritae e gemmae che chiama vitiorum commercium. Infatti aestimantur purgamenta exaestuantis freti pretio quod libido constituit (8, 9, 19), si valutano le scorie dell’alta marea al prezzo stabilito dal capriccio. E’ una condanna del lusso dei Romani. Solo con l'avvento di Vespasiano (69 d. C.) termina il tempo del  luxus  delle splendidissime famiglie senatorie, un ciclo iniziato "a fine Actiăci belli "(Annales , III, 55) , dalla fine della guerra di Azio, il 31 a. C. I Flavi erano rappresentavano una borghesia pecuniosa ma parca secondo Santo Mazzarino

Questo concetto del luxus  senatorio stroncato dall'avvento, nel 69 d. C. , di una borghesia "pecuniosa" ma parca, basterebbe a fornire taluni elementi essenziali per una storia sociale del periodo dal 69 d. C.-l'anno di Galba, Otone, Vitellio-fino a tutta l'età flavia: del periodo, insomma, che Tacito aveva trattato nelle Historiae "[3].

 

 

Il biasimo dello sfoggio dei metalli preziosi si  trova nella Repubblica di Platone dove Socrate sostiene che non necessitano di oro e argento  terreno i guardiani che ce l' hanno divino nell'anima, e che non è lecito mescolare e contaminare l'uno con l'altro:"diovti polla; kai; ajnovsia peri; to; tw'n pollw'n novmisma gevgonen"(417a), poiché molti empi misfatti sono avvenuti per la moneta corrente nel volgo. Un riflesso di questa affermazione, da ascrivere al tovpo" che biasima la ricchezza come fonte di infelicità,   si trova in forma dubitativa nella Germania di Tacito:"Argentum et aurum propitiine an irati dii negaverint dubito" (5), l'argento e l'oro non so dire se glieli abbiano negati gli dèi favorevoli oppure ostili.

Vesti sfacciatamente lussuose vengono sconsigliate alle donne eleganti da Ovidio : “Quid de veste loquar? Nec nunc segmenta requiro/nec quae de Tyrio murice, lana, rubes./Cum tot prodierint pretio leviore colores,/ quis furor est census corpore ferre suos? " (Ars  III 169 sgg.), che devo dire della veste? Io non chiedo le frange d'oro, né te, lana, che rosseggi per la porpora di Tiro. Dal momento che sono venuti fuori tanti colori a prezzo più basso, che pazzia è portare sul corpo il proprio patrimonio?

 

"Anche senza portare altre prove, credo di poter affermare che questo è il gusto dominante dell'Ars amatoria, benché nella valorizzazione del cultus  essa tocchi la punta più avanzata: un equilibrio diverso da quello dell'oraziano simplex munditiis , ma pure in qualche modo simile, lontano dalla rozzezza arcaica[4], ma anche al di qua del lusso fastoso e insolente di molti ricchi romani di oggi. Questa specie di classicismo è dettato nello stesso tempo dal gusto e dalla preoccupazione, quasi dalla paura, che suscita l'ampliamento incontrollato dei consumi"[5] .

 

Curzio. Il fasto dei loro re (regum luxuria, 8, 9, 23) supera gli eccessi di ogni altro popolo. Il re  aureā lecticā, margaritis circumpendentibus recǔbat “(24) con perle che pendono intorno, mentre “turibula argentea ministri ferunt totumque iter, per quod ferri destinavit, odoribus complent ” (23). Gli abiti di mussolina carbǎsa sono fregiati di oro e di porpora. Sembra la Cleopatra di Plutarco-Shakespeare. Le guardie del corpo portano rami sui quali cantano gli uccelli. Ac ne quid perditis moribus desit, lectīcis aureis paelĭcum longus ordo sequitur »(8, 9, 29),  e affinché nulla manchi alla corruzione dei loro costumi, segue su lettighe d’oro un lungo corteo di concubune.   

Sono costumi corrotti. Ancora  ordo degenerato.

Quindi il vizio del vino.

 In mezzo a tanti vizi si curano della sapientia solo i sapientes appunto, che conducono una vita diversa: “Unum agreste et horridum genus est, quod sapientes vocant” (8, 9, 31), sono rustici e non curati. Considerano onorevole occupare fati diem (32) prevenire il giorno della propria morte, e farsi bruciare vivi.

 Al. Arriva in India nell’autunno del 327 a. C. Cominciò con i suoi massacri quindi giunse a Nisa (8, 10, 7) tra il Cofen e l’Indo. Dopo un breve assedio i Nisei capitolarono. La città è situata sotto il monte quem Meron incolae appellant; inde Graeci mentiendi traxēre licentiam Iovis femine Liberum Patrem esse celatum (8, 10, 12), si presero la libertà di inventarsi la favola della coscia-mhrov~- ou` oj- di Giove. In cima al monte c’era multa hedera vitisque (13) ma anche alloro e altro. I soldati dalla lascivia, gaiezza, e non da ispirazione divina furono indotti a vagare per il bosco cinti di corone similes bacchantibus (15). Poi si misero a gridare tutti quanti cum orta licentia a paucis, ut fere fit, in omnes se repente vulgasset”(16), l’orgia iniziata da pochi, come di solito accade, si era improvvisamente diffusa tra tutti.

Gli Indiani, terrorizzati dallo strepito, non osarono attaccarli. “Quis neget eximiam quoque gloriam saepius fortunae quam virtutis esse beneficium?” (8, 10, 18). La fortuna dunque prevale sulla virtù anche nell’assegnare una gloria egregia

Per quanto riguarda il rapporto tra fortuna e virtù, Plutarco dice che Al. affermava che la tuvch avversa poteva essere superata con l’audacia, tovlmh/, e la forza con la virtù: nulla infatti riteneva imprendibile per chi ha coraggio né sicuro per chi non osa ( oujde;n w[/eto toi'~ qarrou'sin  ajnavlwton oujd  ojcuro;n toi'~ ajtovlmoi~,  58, 2).

 

La non perfezione dell’eroe. Al. ferito in India 326.

 Durante l’assedio di Mazage  Al. venne ferito da un telum scagliato in suram (8, 10, 28), in un polpaccio, allora dixisse fertur se quidem Iovis filium dici, sed corporis aegri vitia sentire (29), ma sentiva i difetti di un corpo malato. Con questo Al. appare, o vuole apparire, più umano ai suoi soldati. Anche Achille soffriva e piangeva.

 Leopardi ha assunto più volte atteggiamenti eroici[6] però, o forse perciò,    fa notare che l'eroismo non coincide con la perfezione né con la grandezza: :"Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo...e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec."( Zibaldone, 2).

"L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec. tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi"  (Zibaldone, 471)  .

  Seneca racconta questo episodio riportando queste parole: “omnes-inquit- iurant esse me Iovis filium, sed vulnus hoc hominem esse me clamatEp. 59, 12. Quindi il filosofo commenta: “idem nos faciamus. Pro sua quemque portione adulatio infatuat (13) l’adulazione fa impazzire ciascuno di noi, nel suo piccolo.

 

 Anche Platone, come Leopardi, non trova perfetto Achille, senza però che i suoi difetti glielo rendano simpatico, al punto che il filosofo ateniese ne prescrive la correzione in una generale ejpanovrqwsi" dei poeti e delle loro mende educative. Il più bravo discepolo di Socrate vorrebbe cancellare, tra l'altro, i versi pronunciati dal Pelide quando nell'Ade rimpiange la vita, la vita comunque. Egli osa dire che, pur di essere vivo, sarebbe disposto a servire("qhteuevmen"[7]) un altro, anche un uomo povero. Questa brama della vita a tutti i costi è biasimata da Platone che vorrebbe cancellarla[8] poiché insegna a preferire il servaggio alla morte, come vengono riprovati e considerati indegni di lettura i pianti e i lamenti del figlio di Tetide, dovunque si trovino rappresentati[9].

 

 La regina Cleofi si arrese e ottenne clemenza anche perché era bella. Al figlio avuto dopo quell’incontro la donna diede il nome di Alessandro. Quindi c’è l’attacco alla rupe di Aorno (8, 11) che Ercole aveva assediato invano, secondo la tradizione, (8, 11, 3) costretto a desistere da un terremoto. Il monte è come un cono che si alza sopra il fiume Indo. Il primo assalto venne respinto e gli Indiani festeggiarono tympana suo more pulsantes (8, 11, 20). Poi però fuggirono di notte, vista la pertinacia di Al il quale aveva vinto più i luoghi che i nemici. Comunque con sacrifici e cerimonie in onore degli dèi magnae victoriae speciem…fecit (8, 11, 24), creò l’apparenza di una grande vittoria. La guerra ha bisogno di propaganda.

Al.  non volle premiare un tradimento di Indiani che gli portarono la testa di Erice, un comandante nemico: “honorem denegavit exemplo” (8, 12, 3). Poi Al. Procedette fino all’Indo. Gli andò incontro amichevolmente Omfi ceterum sine interprete non poterat consĕri sermo (8, 12, 9). Al. spiegatosi, fu generoso con Omfi che prese il nome di Taxile, predicato del potere. La generosità di Al. con l’indiano suscitò l’invidia dei suoi; allora egli dixit invĭdos homines nihil aliud quam ipsorum esse tormenta” (8, 12, 18), torturano se stessi.

Al. giunse sul fiume Idaspe per scontrarsi con Poro (326) che si trovava sull’altra sponda. Tutto lo favoriva: Incommoda quoque ad bonos eventus vertente fortunā (8, 13, 22).

Al. come vide la prestanza di Poro e l’enormità elefanti disse: “Tandem…par animo meo periculum video. Cum bestiis simul et cum egregiis viris res est” (8, 14, 14). Erano bersagli appropriati alle loro hastae praelongae et validae. Qui morì Bucefalo.

Plutarco dice che Al. ne soffrì molto pensando di avere perduto niente di meno che un compagno e una persona cara e fece costruire sull’Idaspe una città che chiamò Bucefala. Sull’altra riva (sinistra) del fiume fece costruire una città dandole il nome del cane Perita che pure amava ed era morto (Vita, 61, 2-3).

 

 Poro non fuggì come Dario. Al. volle salvarlo. Ne ammirò l’aspetto e lo stile. Poro gli disse: “basilikw`~ moi crh`sai” (Arriano, 5, 19, 2), trattami da re.  Voleva solo quello. Si era in aprile (del 326).

Plutarco racconta che Al. domandò se c’era altro e Poro disse: “pavnt j e[nestin ejn tw/' basilikw'~ (Vita, 60, 15), nel “da re” c’è tutto.

 

Il Poro di Curzio Rufo suggerì ad A. di fare. “quod hic dies tibi suadet, quo expertus es quam cadūca felicitas esset” (8, 14, 43), quello che ti suggerisce questo giorno, nel quale hai provato quanto è precaria la felicità umana. Alessandro onorò Poro e lo tenne come amico.

Al. riconosceva più schiettamente i meriti dei nemici che quelli dei suoi concittadini, poiché pensava che la sua grandezza potesse essere demolita dai suoi (quippe a suis credebat magnitudinem suam destrǔi posse) mentre essa era tanto più luminosa quanto più grandi erano quelli che aveva vinto (8, 14, 46). Quindi Al. sacrificò vittime al sole (Soli victimis caesis, 9, 1, 1).

 

Cfr. il culto del Sole.

Aveva ammirato Diogene il quale sull'istmo gli aveva detto di non avere bisogno di altro: solo che lui e la sua scorta “ajpo; tou` hJlivou de; ajpelqei`n” (Arriano, 7, 2, 1). Cfr. Vita di Plutarco (14, 4). Plutarco aggiunge che Al. ammirò molto la grandezza dell'uomo e gli disse: "se non fossi Alessandro, sarei Diogene" (14, 5).

 

Plutarco racconta che il principe di Macedonia, dopo avere scommesso, per  domare Bucefalo lo prese per la briglia e lo fece volgere verso il sole (" ejpevstreye pro;" to; h{lion", Vita,  6, 5) poiché aveva capito che si imbizzarriva vedendo l'ombra che cadeva e si agitava davanti a lui.

Questo rapporto di Alessandro e Bucefalo con il sole si trova anche nell'Alexandros[10] di Pascoli :"A Pella! quando nelle lunghe sere/inseguivamo, o mio Capo di toro,/il sole; il sole che tra selve nere,/sempre più lungi, ardea come un tesoro"(vv. 27-30).

Quando il ragazzo, dopo altre manovre, ebbe assunto il controllo del cavallo, il re suo padre pianse di gioia, lo baciò sulla testa e gli disse:"zhvtei seautw'/ basileivan i[shn: Makedoniva gavr s j ouj cwrei''"(Plutarco, Vita, 6, 8), cercati un regno adeguato: la Macedonia infatti non ti contiene.

 

 

 

 

 Alessandro fondò due città in utrāque fluminis  (9, 1, 6) sulle due rive del fiume Idaspe (a est dell’Indo). Nel regno di Sofite (Punjab?) uccidono i bambini difettosi e per questo si sposano electā corporum specie (26) in ragione della bellezza fisica.

 Cfr. il Taigeto e i bambini dirupati. In luglio mi sono messo alla prova su quella montagna pronto a diruparmi con la bicicletta e lo zaino di 5 chili sul groppone se non l’avessi superata.

 

Più avanti Curzio fa una dichiarazione metodologica di stampo erodoteo: “Equidem plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec subducere, quae accepi” (9, 1, 34), per conto mio riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la sento di confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle che ho ricevuto.

 

Quindi, a proposito  del cadavere di Al. che giaceva nel sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo estivo, il corpo non era degenerato: “ Traditum magis quam creditum refero (10, 10, 12).

Erodoto: “ejgw; de; ojfeivlw levgein tav legovmena, peivqesqaiv ge me;n ouj pantavpasin ojfeivlw” (7, 152, 3), io sono tenuto a dire le parole dette, a credere a tutte invece non sono tenuto.  

Cfr. anche Tito Livio: “Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumenti traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana divinis primordia urbium angustiora faciat ” (Praefatio, 6), i racconti che si tramandati che risalgono al periodo di poco precedente la fondazione della città e quelli addirittura anteriori alla città da fondare, racconti che si addicono più alle narrazioni poetiche che ai seri documenti storici, non ho intenzione di confermare né di smentire. Alle antichità si concede questa licenza di rendere più venerabili i primordi delle città mescolando l’umano con il divino.   

 

 Al. fondò Bucefalia e Nicea.

“Sulle opposte sponde dell’Idaspe vennero impiantate due città gemelle, Nicea e Bucefala, in teoria con lo scopo di commemorare le vittorie riportate, in pratica per costituire una difesa della frontiera dell’impero dopo che le regioni orientali erano state cedute a Poro” (Bosworth, p. 266).

Poi Al. mirava al Gange:  sulla riva orientale comandava il re Agramanne, un uomo, diceva Poro, figlio di un tale, “ultimae sortis: quippe patrem eius, tonsorem vix diurno quaestu propulsantem famem, propter habitum haud indecōrum cordi fuisse reginae” (9, 2, 6) di infimo stato, un barbiere che si toglieva a malapena la fame con il guadagno giornaliero. Ma con l’aspetto attraente aveva fatto breccia nel cuore della regina, quini aveva ucciso il re e i principi mettendo sul trono il figlio suo.

 Al. temeva la natura dei luoghi, ma avaritia gloriae et insatiabilis cupīdo famae nihil invĭum, nihil remotum videri sinebat (9, 2, 9) nulla lasciava che sembrasse irraggiungibile, nulla lontano. 

I soldati però non ne potevano più. Al. lo sapeva e parla per convincerli a continuare. Vicit ergo cupīdo rationem (9, 2, 12). E’ sempre lo qumo;" kreivsswn, come nella Medea di Euripide (v. 1079). Il re parlò ai soldati facendo notare che la fama ingrandisce le difficoltà: “omnia illā tradente maiora sunt vero” (9, 2, 14), tutto quanto diffonde è pià grande della verità. .  Nostra quoque gloria, cum sit ex solido, plus tamen habet nominis quam operis”, anche la nostra gloria, sebbene reale, è tuttavia più grande di nome che di fatto.

Noi siamo i più forti: “Quamdiu vobiscum in acie stabo, nec mei nec hostium exercitus numerabo (9, 2, 25).

 

Cfr. Il non contare dei Cavalieri di Aristofane: “ouj ga;r oujdei;" pwvpot j aujtw'n tou;" ejnantivou" ijdw;n-hjrivqmhsen (vv. 569-570). E’ il coro che nella Parabasi celebra i meriti dei padri.

 

 

Oramai siamo al termine, non certo all’inizio, continua Al.: “Non in limine operum laborumque nostrorum, sed in exitu stamus” (9, 2, 26). “Pervenimus ad solis ortum et Oceanum; nisi obstat ignavia, inde victores, perdomito fine terrarum, revertemur in patriam”.

 

L’eterna nemica dell’eroe è l’ignavia, l’infingardaggine. Ignavia e inertia, incapacità: “Nolīte, quod pigri agricolae faciunt, maturos fructus per inertiam amittere e manibus”. Il paese è dives et imbellis (27).  Al. personalmente mira alla gloria, ma fa appello all’avidità dei soldati: “Itaque non tam ad gloriam vos duco quam ad praedam”. Li prega di non abbandonarlo: “alumnum et commilitonem vestrum, ne dicam regem” (28). L’adulazione talora viene dal re. Se non romperete nelle mie mani la palma della vittoria “Herculem Liberumque patrem, si invidia afuerit, aequabo” (9, 2, 29). Ma i soldati non lo acclamavano. Infine cerca di farli vergognare dicendo: “solus ire persevērabo” (9, 2, 33).

 

 

Arriano. Al. avanza, e un altro re Poro, quello malvagio (5, 21, 2) intanto fuggiva. Passò l’Acesine e l’Idraote. Gli Indiani Catei di Sangala (5, 22, 1) si preparavano a combattere, e anche i Malli. A. mosse su Sangala. La conquistò, la rase al suolo e avanzò verso l’Ifasi. I Macedoni però non ne potevano più e Al. parlò: “Pevra~ de; tw`n povnwn gennaivw/ me;n ajndri; oujde;n dokw` e[gwge o{ti mh; aujtou;~ tou;~ povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga fevrousin” (5, 26), il limite delle fatiche per l’uomo valoroso non credo siano altro che le fatiche stesse, quante di esse li portano a grandi imprese”. Per l’eroe, cedere nescius, non c’è mai tregua alle fatiche.

Se torniamo indietro, i popoli appena assoggettati, ouj bevbaia o[nta, non ancora sicuri, saranno spinti alla rivolta da quelli non ancora sottomessi (5, 26, 3).

 

La logica dell’impero non ammette tregua.

Alcibiade  "svolge dinanzi all'assemblea popolare il disegno vertiginoso della conquista di tutta la Sicilia e del dominio su tutta la Grecia, dichiarando che lo sviluppo di una potenza come quella d'Atene non si può razionare: chi la detiene, non può conservarla che con l'estenderla sempre più, giacché la sosta significa pericolo di decadenza"[11]. Meritano di essere trascritte alcune parole di Alcibiade :" kai; th;n povlin, eja;n me;n hJsucavzh/, trivyesqaiv te aujth;n w{sper kai; a[llo ti"(VI, 18, 6) e la città, se rimarrà tranquilla si logorerà da sola, come qualsiasi altra cosa.

Pericle, nell’ultimo discorso che Tucidide gli attribuisce, dice agli Ateniesi: “turannivda ga;r h[dh e[cete aujth;n, h}n labei'n me;n a[dikon dokei' ei\nai, ajfei'nai ejpikivndunon” (II, 63, 2) avete un potere che è oramai una tirannide che può sembrare ingiusto prendere ma pericoloso abbandonarla.

 Tucidide quindi fa dire a Cleone succeduto a Pericle quale beniamino del popolo "turannivda e[cete th;n ajrchvn", (III 37, 2), avete un impero che è una tirannide la quale per reggersi deve usare la forza e bandire la compassione

Pesaro 12 agosto 2024 ore 11, 50 giovanni ghiselli

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[1]IX, 8, 1169 a 18 sgg.

[2]Paideia , I vol.,  pp. 46 e 47.

[3] Santo Mazzarino,  Il Pensiero Storico Classico ,  II, 2, p. 82.

[4]Naturalmente anche in Orazio c'è corrispondenza, soprattutto nel rifiuto dell'arcaismo, fra la poetica e il gusto della vita. Vale anche la pena di ricordare lo stile che Ovidio (Ars  III 479 sg.) raccomanda alla puella  per le lettere agli amanti: parole eleganti, ma non rare né troppo raffinate:"Munda sed e medio consuetaque verba, puellae,/scribite: sermonis publica forma placet ", ragazze, scrivete parole eleganti ma del frasario comune e correnti: il linguaggio usuale piace. La nota  (1, p. 212) è di La Penna, la traduzione mia.  

[5] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana , p. 202.

[6]Per esempio nella Canzone all'Italia :"L'armi, qua l'armi: io solo/combatterò, procomberò sol io"(vv. 37-38).

[7]Odissea , XI, 489.

[8]Repubblica , 386c. Più avanti(391c) Platone aggiunge che non si deve ammettere nemmeno l'avidità illiberale di Achille né il suo superbo disprezzo di uomini e dèi. Sentimenti che non si addicono a un giovane nato da una dea, pronipote di Zeus e allevato dal sapientissimo Chirone, proprio la ragione per cui, faccio notare, il figlio di Peleo viene approvato da Euripide il quale, nell'Ifigenia in Aulide , gli fa dire:" ejgw; d&, ejn ajndro;" eujsebestavtou trafei;"-Ceivrwno", e[maqon tou;" trovpou" aJplou'" e[cein"(vv. 926-927), io, allevato nell'ambiente di un uomo molto pio, di Chirone, ho imparato ad avere semplici i costumi.  

[9]Repubblica , 388b.

[10] Dai Poemi conviviali, 1895.

[11]Jaeger,  Paideia , I vol., p.  p. 675.

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