sabato 10 agosto 2024

Alessandro Magno e gli Indiani. Non c’è la schiavitù tra loro ma nemmeno la vera libertà ostacolata dalle caste.


 

Arriano Libro V.

Dicono che in questa regione c’era Nisa fondata da Dioniso (5, 1, 1). Si trova a ovest di Aorno e dell’Indo. Tra il Cofen e l’Indo. E’ un racconto strano; d’altra parte non si deve essere un esaminatore rigoroso (oujk ajkribh` ejxetasth;n crh; ei\nai)- ejxetavzw, investigo- sui racconti antichi che riguardano la divinità. Infatti gli elementi incredibili (ouj pistav), quando uno accosta il discorso al divino, appaiono non del tutto privi di fede (ouj pavnth/ a[pista faivnetai, 5, 1, 2).

 

 

   

Sentiamo Diodoro Siculo. Biblioteca storica II 38. I più dotti (oiJ logiwvtatoi) tra gli Indiani raccontano un mito (muqologou`si). Dioniso giunse dall’Occidente con una considerevole armata e percorse tutta l’India poiché non c’era città in grado di opporsi. Gli Indiani infatti vivevano in villaggi (kwmhdovn). Kwvmh hj villaggio; kovmh hJ chioma.

Poi sopraggiunse un gran caldo e i soldati morivano per la pestilenza (loimikh`/ novsw/ ) e Dioniso che si distingueva per l’intelligenza (sunevsei diafevronta) portò l’esercito eij~ th;n ojreinhvn, verso la zona montuosa dove c’erano vènti freschi e acque pure che guarirono l’esercito. Questa località si chiama Meròs, donde la leggenda dell’incubazione di Dioniso ejn mhrw`/,  nella coscia di Zeus Quindi Dioniso trasmise agli Indiani th;n eu{resin tou` oi[nou la scoperta del vino e di altre cose utili alla vita. Poi fondò città con leggi  tribunali ed are. Insomma fu ritenuto un dio e ottenne onori mortali poiché aveva introdotto molte cose belle. Conduceva molte donne e durante le battaglie faceva uso di timpani e cembali. Regnò per 52 anni poi morì; dopo alcune generazioni di re suoi discendenti, le città ebbero delle democrazie.

 

Nell’Indiké (1, 1) Arriano racconta che i Nisei non sono Indiani ma discendono dal seguito di Dioniso:  Greci divenuti inabili a combattere, e indigeni volontari. Il monte che la sovrasta si chiama Meròs in ricordo della nascita di Dioniso. Siano pure i dotti dei Greci o dei barbari a raccontare queste storie. Forma di preterizione.  

 

Arriano sostiene pure che tutti gli Indiani sono liberi oujdev tina dou'lon ei\nai (Indiké 10, 8) e nessun indiano è schiavo. Sarebbe così anche a Sparta se là non ci fossero gli Iloti.

 

 

Le caste.

Leopardi nello Zibaldone commenta l’assenza di schiavitù come conseguenza delle caste: “ gl’indiani erano liberi…Qual era dunque la cagione di questa singolarità? Sebbene Arriano non l’osserva, ella si trova però in quello ch’egli soggiunge immediatamente. Ed è questo: Nevnemhntai de; oiJ pavnte" jIndoi; ej" genea;"  …ossia caste…Ecco dunque la ragione perché gl’indiani non usavano schiavitù. Perché sebben liberi, non avevano l’uguaglianza” (918-919)..

Vediamo le caste che sono sette eJpta; mavlista ( Arriano, Indikè, 11, 1). La prima casta è quella dei sofistaiv, inferiori per numero, ma i più ragguardevoli per reputazione e onore dovxh/ de; kai; timh'/ . Questi sacrificano agli dèi e praticano l’arte divinatoria su questioni molto importanti. Chi sbaglia tre volte viene condannato al silenzio. Questi saggi gumnoi; diaitw'ntai (11, 7) vivono nudi, d’inverno al sole, d’estate all’ombra di grandi alberi. Sono vegetariani.

Anche in Diodoro le caste sono sette.

La prima è quella dei filosofi, inferiore per numero ma che primeggia su tutte th'/ ejpifaneiva/ per rinomanza (Biblioteca storica, II, 40, 1). Questi fanno predizioni.

Poi (seconda casta di Arriano, Indikè, 11, 9) ci sono i gewrgoiv non toccati dalla guerra, questi sono i più numerosi.

Quelli di Diodoro non vanno in città e non è concessa ad alcun privato la proprietà della terra: ijdiwvth/ de; mhdeni; gh'n ejxei'nai kekth'sqai (40, 2, 5)

 Poi (terza casta di Arriano) oiJ nomeve", poimevne" te kai; boukovloi (11, 11) i pastori di pecore e di buoi. Questi sono nomadi, cacciatori e vivono sui monti.

Quelli di Diodoro vivono in tende e ripuliscono la terra da uccelli e bestie selvatiche. Così rendono possibile la coltivazione della terra indiana ripulendola dalle abbondanti bestie selvatiche ejxhmerou'si th;n jIndikhvn (II, 40, 6), bonificano la terra indiana.

Aggiungo che sarà un’attitudine insegnata da Eracle: nella tragedia di Euripide intitolata all’eroe dorico, Amfitrione dice che il figlio di Alcmena offre a Euristeo un alto compenso: “ ejxhmerw'sai gai'an” (Eracle, 20), liberare la terra dalle bestie feroci.

Poi (quarta casta di Arriano) c’è to; dhmiourgikovn te kai; kaphlikovn gevno"  (12, 1), quella degli artigiani e bottegai Questa quarta casta comprende oi{ te nauphgoi; kai; oiJ nau'tai, costruttori di navi e marinai.

Tra costoro solo quelli che fabbricano armi non pagano un tributo e ricevono un salario pubblico.

Diodoro dice che sono ajtelei'" esenti dalle tasse oltre essere mantenuti dalla comunità (II, 41, 1).

La quinta casta di Arriano è quella dei guerrieri (oiJ polemistaiv, 12, 2). Fanno solo la guerra e conducono la vita più libera e piacevole. I servizi li fanno altri. Finita la guerra eujqumevontai, se la spassano e vengono mantenuti bene. Sono i più numerosi dopo gli agricoltori. Molto simile è la quinta di Diodoro.

 La sesta casta di Arriano è quella degli ejpivskopoi, ispettori i quali ejforw'si sorvegliano e riferiscono al re o ai magistrati (  jIndikhv, 12, 5).

Simile Diodoro.

 La settima casta di Arriano è formata da quelli che deliberano sui pubblici affari, oiJ uJpe;r tw'n koinw'n bouleuovmenoi (12, 6), sono pochi ma prevalgono per saggezza (sofivh/) e giustizia (dikaiovthti). Di qui vengono scelti i magistrati e i governatori. La settima casta è simile alla prima.

Diodoro dice che questa è una casta enormemente ammirata per nobiltà e intelligenza: eujgeneiva/ de; kai; fronhvsei (41, 4).

Non è lecito sposarsi tra caste diverse, né passare di casta, tranne in quella dei saggi che hanno la vita più difficile (Arriano 12, 8).

Secondo Leopardi questo Gamevein de; ejx eJtevrou gevneo" ouj qevmi" (12, 8), è il motivo per cui “senza l’uguaglianza conservano la libertà” (Zibaldone 919). E prosegue (920): “questa costituzione di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche nelle altre conosciute, e massime nelle più antiche, come nell’antica costituzione di Roma ec. ; questa costituzione , dico, è forse la migliore, forse l’unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà senza l’uguaglianza. Perocchè, ponendo un freno e un limite all’ambizione e alla cupidigia degl’individui, e togliendo (921) loro la facoltà di cangiare, e di avanzare più che tanto la loro condizione, viene a togliere in gran parte la collisione dei poteri, e le discordie interne; viene a conservare l’equilibrio, a mantenere lo stato primitivo della repubblica (che dev’essere il principale scopo degl’istituti politici) a perpetuare l’ordine stabilito ec. ec.” Eppure questa divisione in caste senza speranza di avanzamento non presenta “i grandi vantaggi della libertà”.

Dunque la libertà senza uguaglianza, e con le caste, non è vera libertà. “Si troverà la quiete” il “tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità è sempre nemico del bene. Ma l’entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione. Tolte le due molle dell’ambizione e della cupidigia, vale a dire dell’interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l’inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec…. (922) una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev’essere…che un tal popolo, ancorché libero, e quanto all’interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore”. Leopardi cita alcuni passi di Arriano che segnalano la scarsa bellicosità degli Indiani che non conquistavano, e dopo Bacco ed Ercole e prima di Al. non erano conquistati. 

In conclusione (923): “ nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione libera…così è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da’ suoi qualunque ingrandimenti che distruggono appoco appoco l’uguaglianza, senza cui non c’è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l’ordine della repubblica”.

 

La decadenza della letteratura nel trattato dell'Anonimo Sul Sublime prende il nome, tagliato su misura, di universale carestia letteraria (lovgwn kosmikhv... ajforiva, 44). Essa secondo il personaggio chiamato filovsofo" dipende dalla fine della democrazia che è la vera nutrice della grandezza (44, 2). La sorgente dell'eloquenza è la libertà; noi siamo fin dall'infanzia imbalsamati nei costumi della servitù e non siamo altro che grossi adulatori (kovlake"... megalofuei'", 44, 3).

 Il lessico di Longino è sempre ‘su misura’ e frutto di una scelta accurata delle parole: sono infatti moltissime, in percentuale statisticamente anomala, le parole usate una sola volta; come se Longino, usata una certa parola per un concetto, non volesse riusarla per un altro, quasi ad ‘ancorare’ la parola al concetto, in esclusiva[1].

Un servo  non potrà mai diventare oratore per la sua incapacità di parlare liberamente e per la cautela inculcata dalle abituali vessazioni. Come dice Omero (Odissea , XVII, 322-323) il giorno della schiavitù toglie all'uomo metà del suo valore. Ogni schiavitù è una gabbia della mente e una comune prigione.

Cfr. la corte di Al con gli adulatori dell’eroe. Chi non si prostrava veniva eliminato

 Altre cause adduce l’Anonimo: l’avidità di ricchezze, (filocrhmativa), l’amore dei piaceri  (filhdoniva) ci rendono schiavi, e l’amore del denaro (filarguriva) è novshma mikropoiovn (43, 6) una malattia che rende meschini.

  

 

Tacito nel Dialogus de oratoribus[2] dà una spiegazione del genere della decadenza culturale. Curiazio Materno, portavoce dell'autore, sostiene che una grande oratoria era possibile solo con la libertà o addirittura con la licenza della peggiore repubblica, nel fervore dei tumulti e dei conflitti civili. "Magna eloquentia, sicut flamma, materiā alitur, et motibus excitatur et urendo clarescit " (36), la grande eloquenza, come una fiamma, si alimenta con del materiale, si ravviva con il movimento e bruciando diventa più luminosa.

 

Torniamo  all’ Anabasi di Alessandro di Arriano V libro.

Nisea sorgeva tra i fiumi Cofen e Indo (5, 1, 1). I Nisei mandarono da A. il più eminente di loro, di nome Acufi. Questi chiese ad A. di lasciarli liberi per rispetto a Dioniso che chiamò la città Nisa  in onore della sua nutrice Nisea e chiamò il monte vicino Mhrov~ in ricordo della coscia di Zeus (5, 1, 5). Una prova della fondazione dionisiaca è che da loro cresce l’edera (kittov~ , 5, 1, 6) che altrove non c’era. Al. ascoltà volentieri questo racconto perché gli conveniva: poteva andare oltre Dioniso e stimolare lo spirito di emulazione delle sue truppe (5, 2, 1).

Eratostene di Cirene[3] sostiene che tutto quanto collegava la loro impresa al divino fu gonfiato all’eccesso dai Macedoni pro;~ cavrin th;n jAlexavdrou, per compiacere Al. (Anabasi,  5, 3, 1). Avendo trovato una grotta nel Parapamiso, dissero che era proprio Promhqevw~ to; a[ntron i{na ejdedeto (5, 3, 2), la grotta di Prometeo, dove era stato legato con tanto di aquila e di Eracle che la uccise. Dunque spostarono il Caucaso dal Ponto verso le zone orientali della terra th'" jAlexavndrou e{neka dovxh"  (5, 3, 3) per dare gloria ad Al.. Eratostene non ci crede.

 Per me, conclude Arriano, restino pure nell’incertezza i discorsi su questi fatti ( ejn mevsw/ keivsqwn oiJ uJpe;r touvtwn lovgoi, 5, 3, 4).

 Al. attraversò l’Indo probabilmente su un ponte di barche con una tecnica simile a quella dei Romani ed entrò in Tassila, la città più grande tra l’Indo e l’Idaspe. L’Indo che è il fiume più grande d’Asia e di Europa, tranne il Gange, nasce dal Parapamiso. Al. entrò nel territorio degli Indiani. Questi, secondo quanto dissero i Macedoni, sarebbero senza oro, non rammolliti, alti di statura (sopra i due metri), scuri di pelle e valorosi in guerra (5, 4, 4). Arriano non prende posizione netta su tali notizie probabilmente inventate, ma anticipa che sugli Indiani comporrà un’opera basandosi su Nearco[4] e su Megastene[5] (5, 4, 5). 

Al. procede oltre l’Indo verso l’Idaspe.

Plutarco dice che Al. teneva moltissimo alla reputazione: usciva di senno quando sentiva parlare male di sé, e diventava duro e inesorabile: “a{te dh; th;n dovxan ajnti; tou' zh'n kai; th'~ basileiva~ hjgaphkwv~ (Vita, 42, 4), poiché amava la reputazione più della vita e del potere regio.

 

Pesaro 10 agosto 2024 ore 18, 50 giovanni ghiselli

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[1] Guglielmo Cajani, Conii verbali e risemantizzazioni,  atti del secondo incontro internazionale di linguistica greca,  Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche. Trento 1997, p.  117. 

[2] Ambientato tra il 75 e il 77 e redatto, probabilmente, un quarto di secolo più tardi.

[3] Geografo e cartografo, misurò la circonferenza della terra sbagliando solo di 300 km. Visse tra il 296 e il 214 e successe ad Apollonio Rodio nella direzione della Biblioteca di Alessandria.

[4] Capo della flotta di A. Magno.

[5] Collaboratore di Seleuco I Nicatore, scrisse Indikà (in quattro libri) e afferma di essersi recato spesso da Sandracotto, “il più grande re degli Indiani, ancora più grande di Poro” Arriano, L’India, 5, 3.

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