lunedì 12 agosto 2024

Alessandro parla alla truppa esausta. Quindi dà l'esempio rischiando la vita, poi interroga i gimnosofisti


 

Arriano. ”ajlla; parameivnate, (5, 26, 4), allora Macedoni e alleati, tenete duro! Eracle e Dioniso affrontarono grandi fatiche! Se fossimo rimasti in Macedonia non avremmo compiuto nulla di mevga kai; kalovn (6), invece abbiamo superato Nisa e Aorno. Io partecipo alle fatiche e voi ai premi, la regione è vostra e satrapi siete voi: “h{  te cwvra uJmetevra kai; u{mei`~ aujth`~ satrapeuvete” (8). Assoggettata l’Asia vi riporterò in patria ma vi dispiacerà tornare. Seguì un lungo silenzio (5, 27, 1). Infine rispose Ceno qarshvsa", fattosi coraggio, chiedendo comprensione per le truppe. Dopo averle riportate a casa, Al. poteva ripartire con forze fresche per altre imprese: Cartagine o la Libia oltre Cartagine (5, 27, 7). Seguì un brusìo di approvazione qovrubon genevsqai (28). Molti piangevano. Al. prima si adirò, poi, siccome i sacrifici non erano favorevoli, decise di tornare indietro.  

Plutarco racconta che Al. giaceva nella sua tenda dove si era rinchiuso per lo sconforto e l’ira (uJpo; dusqumiva~ kai ojrgh'~ auJto;n eij~ th;n skhnh;n kaqeivrxa~ (Vita, 62, 5).

“Come Achille, Al. si ritirò nella tenda a coltivare la sua ira, in attesa di segnali che indicassero un cambiamento della situazione. I segnali non vennero. Poi, come riferito da Tolomeo, celebrò il consueto sacrificio rituale per propiziarsi l’attraversamento, e assai opportunamente i presagi non si dimostrarono favorevoli. Al. ora poteva accettare il verdetto degli dèi, e rinunciare ad andare al di là dell’Ifasi”[1]. 326 a. C.

Curzio Rufo 9, 3. Dopo il discorso di Al. piangevano tutti. Quindi parlò Ceno dicendo voces non fictas…verum necessitate ultima expressas (9, 3, 6). L’esercito è malridotto e logorato anche nelle armi: “omnium victores omnium inŏpes sumus” (9, 3, 11). Al. si ritirò irato nella sua tenda: “biduum irae datum est” (19). Poi fece costruire altari e lasciare segni di grandezza, come p. e. cubilia amplioris formae, ut speciem omnium augeret”, per dare un’impressione ingrandita. Quindi pose il campo sul fiume Acesine dove Ceno morì. Fondò Nicea e Bucefala (23).

Diodoro racconta che Al. , costretto a porre fine alla spedizione, comandò ai soldati di lasciare oggetti grandi il doppio della misura consueta. Ordinò questo perché voleva che rimanesero tracce di uomini enormi,  eroici, dotati di un’eccezionale forza fisica (17, 95).

Anche Plutarco dice che pro;~ dovxan, per farsi reputare un grande, architettò polla; ajpathla; kai; sofistikav ( Vita, 62, 7), molti trucchi ingegnosi e ingannevoli, ossia fece costruire armi e greppie  più grandi del normale  (o{pla meivzona kai favtna~ i{ppwn). Poi eresse altari agli dèi. 

Curzio 9, 4.  si era giunti alla confluenza tra l’Idaspe e l’Acesine. Quindi il fiume scorre tra i Sibi, discendenti dell’esercito portato da Ercole.

Diodoro racconta che alla confluenza tra i due fiumi con l’Indo la nave di Al. fu trascinata in una rapida e il re se la cavò con fatica. Quindi sacrificò agli dèi poiché era sfuggito a grandissimi pericoli e, come Achille, aveva combattuto con un fiume[2] (17, 97). Cfr. “ Exigit poenas mare provocatum” (Seneca, Medea, v. 616).  In questo caso un fiume provocato.

 

 Poi Al. procedeva devastando e massacrando. Succedeva che gli assediati dessero fuoco alla loro città e gli assedianti cercassero di spegnere il fuoco: “adeo etiam naturae iura bellum in contrarium mutat” (9, 4, 7). Acta retro cuncta (Oedipus, 367).

Poi Al. entrò nella regione dei Sudraci e dei Malli (325). Erano le popolazioni più selvagge dell’India. L’esercito riprese a lamentarsi: “Trahi extra sidera et solem, cogique adire, quae mortalium oculis natură subduxerit” (9, 4, 18), venivano trascinati olre le stelle e il sole, e costretti a entrare in luoghi che la natira aveva sottratto agli occhi dei mortali. Al. disse che stavano arrivando ad finem mundi laborumque (19). Bastava un piccolo sacrificio per superare Ercole e Libero e raggiungere l’immortalità della fama. I soldati vennero trascinati all’entusiasmo da impulsi volubili: “omnis multitudo et maxime militaris mobili impetu effertur” (22). Doveva conquistare una città dei Sudraci e l’indovino Demofonte trasse segni cattivi dalle viscere. Ma Al. ignorò il segno considerando un impedimentum il vatem superstitione captum (9, 4, 29).  Ancora un uso politico e personale della religio.

Diodoro afferma che Al. arrivò sul Gange, ma, dopo avere conquistato tutta l’Asia “aJpavsh~ th`~ j Asiva~ krathvsa~ ” (II, 37, 3), non fece guerra ai Gandaridi che avevano 4000 elefanti equipaggiati per la guerra.

 

Arriano VI

Al. decise di scendere fino al mare navigando l’Idraote, l’Idaspe, l’Acesine e l’Indo che li raccoglie.

 Gli Indiani sottomessi correvano sulla riva e cantavano poiché essi amano molto il canto e la danza (filw/doi; kai; filorchvmone~ ,VI, 3, 5) da quando Dioniso ha introdotto canti bacchici. Giunse nella terra dei Malli alla confluenza di Idaspe e Acesine. Quindi avanzò nel loro paese , contro la  città indiana più fortificata dei dintorni.

 

L’amore del rischio.

Durante l’attacco venne ferito: era infatti era ben visibile dh`lo~ per lo splendore delle armi o{plwn th`/ lamprovthti e per la straordinarietà dell’ardire kai; tw`/ ajtovpw/ th`~ tovlmh~ (6, 9, 5). Saltò addirittura dentro la rocca sempre con l’idea di compiere megavla e[rga kai; toi`~ e[peita puqevsqai a[xia, grandi e degne di essere conosciute dai posteri.

Un altro gesto rischioso e teatrale, motivato dalla passione -mevno~- di cui Arriano dice sotto.

Dunque venne ferito seriamente dai Malli. Secondo alcuni fu salvato da Tolomeo che per questo venne chiamato Swthvr, ma Tolomeo stesso afferma di non avere partecipato a quell’azione. Al. fu rimproverato per il suo ardimento eccessivo ma egli, per la passione nelle battaglie e l’amore della rinomanza “uJpo; mevnou~ te tou` ejn tai`~ mavcai~ kai; tou` e[rwto~ th`~ dovxh~” (6, 13, 4), non aveva la forza di tenersi lontano dai rischi (ouj kartero;~ h\n ajpevcesqai tw'n kinduvnwn).

Il maestro che spinge alle imprese pericolose è Pindaro. Indegna di essere vissuta è l'esistenza ingloriosa e insignificante dei deboli e vili ignari di aretà (virtù in senso pindarico): "il pericolo grande non prende l'uomo imbelle (oJ mevga" de; kinduno" a[nalkin ouj fw'ta lambavnei). Per coloro ai quali è necessario morire, come uno potrebbe smaltire una vecchiaia anonima seduto nell'ombra invano?"( Olimpica I , vv.81-84). 

Quindi nell’Olimpica VI :“ ajkivndunoi d  j ajretaiv-ou[te par j ajndravsin ou[t j ejn nausi; koivlai"-tivmiai” ( vv. 9-11), virtù senza pericolo non hanno onore tra gli uomini, né sulle concave navi.

 

 

Diodoro racconta che Al. diede una prova di coraggio quale l’avrebbe potuta dare solo un re che avesse già compiuto imprese del genere e avesse l’ambizione di rendere piena di gloria la propria morte (17, 99).

Curzio Rufo 9, 5. Al. si gettò dentro la città fortificata dei Sudraci da solo. Si appoggiò a un albero per non essere circondato. “Pugnabat pro rege primum celebrati nominis fama deinde desperatio, magnum ad honeste moriendum incitamentum” (9, 5, 6) combatteva dalla parte del re innanzitutto la fama del suo nome celebrato, poi la perdita della speranza, grande sprone a morire con onore.

 Una freccia di 2 cubiti (90 cm.) lo ferì sopra il fianco destro. Fu salvato a stento, ma non da Tolomeo come affermano Clitarco commilitone di Al. e Timagene (I sec. a. C.).

Tanto grande era la securitas la leggerezza o la credulitas, l’ingenuità, par huic vitium (21) difetto pari a questo di chi compilava gli antichi resoconti. Infine Al. fu operato e se la cavò. L’esercito gli fu vicino confessus omnes unius spiritu vivere (30), dimostrando che tutti vivevano del suo respiro. La convalescenza fu lunga. Andarono a trovarlo gli amici e Cratero lo pregò di essere più prudente. Non vale la pena rischiare tanto contro nemici mediocri. Tolomeo e altri confermarono. La sua salus era publica (15), di tutti. Al era grato e contento ma disse: “ego me metior non aetatis spatio sed gloriae” (9, 6, 18), mi commisuro non al tempo della vita ma della gloria. Avrei potuto aspettare una vecchiaia oscura e senza gloria dentro i confini della Macedonia; “quamquam ne pigri quidem sibi fata disponunt” (19), sebbene neppure gli indolenti[3]  dispongano del proprio destino, e mentre mirano a una lunga vita li prende un’acerba mors.

Verum ego, qui non annos meos, sed victorias numero, si munera fortunae bene computo, diu vixi” (9, 6, 19), torna il “non calcolare” bassamente.  E non cederò, di nuovo Achille: “Ego vero non deero et, ubicumque pugnabo, in theatro terrarum orbis esse me credam” (21), mi crederò nel teatro del mondo. Voglio una vita densa e piena (multa) piuttosto che longa. Ancora non abbiamo uguagliato Semiramide! Restano altre imprese più grandi. Temo solo le insidie interne: “Philippus in acie tutior quam in theatro fuit” (25). Il suo è un teatro più grande e meno rischioso  di quello in cui fu ammazzato Filippo.

 Infine chiede ai suoi amici di consacrare Olimpiade all’immortalità se lui fosse morto prima.  Quindi Malli e Sudraci si arrendono.

 

 

Plutarco dice che la punta della freccia era penetrata in un osso del petto ed era lunga quattro dita e larga tre (Vita, 63, 12).

Quindi lo storico di Cheronea racconta dei Gimnosofisti. Ne fece arrestare dieci istigatori di una ribellione di Indiani. Avevano fama di essere abili e concisi nelle risposte (deinou;~ dokou'nta~ ei\nai peri; ta;~ ajpokrivsei~ kai; braculovgou~,Vita 64). Alessandro  propose loro domande insolubili per poi ucciderli. Il più anziano doveva fare da giudice. Vediamo le domande-risposte più interessanti.

Sono più numerosi i vivi o i morti? I vivi, poiché i morti non ci sono più. L’animale più astuto? Quello che l’uomo ancora non ha conosciuto (o{ mevcri nu'n, ei\pen, a[nqrwpo~ oujk e[gnwken, 64, 5).

Al quarto domandò perché avesse indotto Sabba alla rivolta: “ajpekrivnato kalw'~ zh'n boulovmeno~ aujto;n h] kalw'~ ajpoqanei'n  volendo, rispose, che quello nobilmente vivesse o nobilmente morisse.

E’ quanto dice l’Aiace di Sofocle prima di suicidarsi  per non sopravvivere alla degradazione :"ajll j h] kalw'" zh'n  h] kalw'" teqnhkevnai- to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve  vivere con stile, o con stile morire. (vv.479-480).

Per la stessa ragione si uccide Fedra.

 Quando si vive fuori dal bello insomma la morte può essere una liberazione. Al quinto fu chiesto se venisse prima il giorno o la notte. Rispose: il giorno, di un giorno. Al. rimase stupito e disse: “è necessario che siano impossibili (ajpovrou~ ei\nai, 64, 8) le risposte date a domande impossibili.

Come si fa a essere amati in sommo grado? Fu domandato al sesto. “a]n kravtisto~ w[n, e[fh, mh; fobero;~ h\/ ” (64, 9), se, pur essendo potentissimi, non si fa paura.

Come può l’uomo diventare un dio? Se fa quanto non è possibile che l’uomo faccia.

Al penultimo se fosse più forte la vita o la morte: “ajpekrivnato th;n zw/hvn, tosau'ta kaka; fevrousan” (64, 11), rispose la vita che sopporta mali tanto grandi.

All’ultimo fu chiesto fino a quando è bene che l’uomo viva: “mevcri ou| mh; nomivzei to; teqnavnai tou' zh'n a[meinon” (64, 12), fino a quando non pensa che essere morto è meglio che vivere.

 Fino a quando cioè non cade nell’antica malinconia della

sapienza silenica.

Nietzsche ne La nascita della tragedia si sofferma su tale aspirazione all'annientamento e la considera caratteristica del greco primitivo che soggiace al terrore dei mostri, all'avvoltoio di Prometeo, al destino spaventoso di Edipo, al matricidio di Oreste, finché non trova la giustificazione estetica dell'esistenza e l'individuazione positiva nell'Apollineo che, in termini artistici, è la bellezza e la chiarezza delle immagini omeriche, in termini culturali, mitologici e psicologici, è il rovesciamento del caos dei Titani nel prevalere del cosmo olimpico: "Per poter vivere i greci dovevano, per una necessità profonda, creare questi dèi: un procedimento che dobbiamo raffigurarci come lo sviluppo, in lenti trapassi, del divino ordine olimpico della gioia, dall'originario titanico ordinamento dell'orrore e dello spavento, in virtù appunto di quell'istinto apollineo della bellezza, come un ciuffo di rose che sbocci da uno spinoso cespuglio"(cap. 3).  Negli autori classici troviamo varie espressioni della triste saggezza del Sileno:  Erodoto nel primo libro delle sue Storie racconta la fiaba tragica di Cleobi e Bitone che la dea Era, per ricompensare della loro devozione, fece morire ventenni.

“Su loro che avevano compiuto questo ed erano visti dalla folla sopraggiunse la fine della vita migliore, e mostrò in questi la divinità che è meglio per l'uomo essere morto piuttosto che vivere" (I, 31).

 

Nel quinto libro Erodoto narra lo strano costume  dei Trausi che compiangono il neonato e seppelliscono il morto con manifestazioni di gioia:"sedendo attorno al neonato i parenti piangono...enumerando tutte le sofferenze umane; invece scherzando con gioia mettono sotto terra (paivzontev" te kai; hJdovmenoi gh'/ kruvptousi) il morto, spiegando che si trova in completa felicità, liberato da tanti mali"(V, 4, 2).

Un terzo momento silenico  è quello in cui Serse, invadendo la Grecia, vede l'Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si disse beato (oJ  Xevrxh" eJwuto;n ejmakavrise, VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta; de; tou'to ejdavkruse) al pensiero di quanto è breve la vita umana. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che, essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l'uomo ("ou{tw" oJ me;n qavnato" mocqhrh'" ejouvsh" th'" zovh", katafugh; aiJretwtavth tw'/ ajnqrwvpw/ gevgone", VII, 46).

 

Alla fine Al. congedò i gimnosofisti con dei doni (Plutarco, Vita, 65, 1).

 

   Pesaro 12 agosto 2024 ore 18 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] A. B. Bosworth, Alessandro Magno, p. 134.

[2] Ossia con lo Scamandro (Iliade, 21, 228-382).

[3] Cfr. Pelope in Pindaro:  "il pericolo grande non prende l'uomo imbelle. Per coloro ai quali è necessario morire, come uno potrebbe smaltire una vecchiaia anonima seduto nell'ombra invano?"(I Olimpica vv.81-84).

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