giovedì 8 agosto 2024

L’ira di Alessandro e l’uccisione di Clito. L’ira è un vizio dei despoti.


 

Sacrifici malriusciti (tristia exta, 7, 7, 22, viscere infauste) preconizzavano una violenta dissenteria : kai; h\n ga;r ponhro;n to; u{dwr (Arriano, 4, 4, 9), l’acqua era inquinata.

Siamo nell’inverno 329-328. Besso fu punito atrocemente (naso e punta delle orecchie mozzate poi giustiziato a Ecbatana). Diodoro racconta che Besso fu consegnato ai parenti di Dario i quali tagliarono il corpo a pezzi e dispersero le membra con le fionde (17, 83).

 

Critiche di Arriano ad Alessandro.

 

Arriano non approva l’eccessiva sadica punizione inflitta a Besso a[gan tauvthn timwrivan Bhvssou (4, 7, 4) e tanto meno che Al. abbia cambiato la veste e i costumi macedoni con quelli dei Medi.

Non serve alla felicità dell’uomo né un fisico possente, per chi ce l’ha, né le vittorie di Al. e altre da lui progettate, come la conquista della Libia, se manca il swfronei`n (4, 7, 5), essere saggio e moderato.

Oltretutto Alessandro non aveva un fisico possente come si è visto.

 

L’offuscamento della saggezza dipende spesso dal narcisismo.

Nel Prometeo incatenato di Eschilo,  Ermes replica al Titano che lo aveva apostrofato come galoppino (trovcin, v. 941) e servitore (diavkonon, v. 942) degli dèi, accusandolo  di arroganza  coniugata con una debole ragione:"aujqadiva ga;r tw/' fronou'nti mh; kalw'"-aujth; kaq  j aujth;n oujdeno;" mei'on sqevnei" (vv. 1012-1013) il  narcisismo infatti per chi non  ragiona bene, di per sé ha meno forza del nulla.

 

 Nelle tragedie di Sofocle il despota riceve l’accusa di narcisismo stupido mentre corre incontro alla propria rovina.  Nell' Edipo re è Creonte, accusato da Edipo di complotto, ad accusare il tiranno di :" Se davvero pensi che sia un bene l’alterigia (th;n aujqadivan)/ separata dall'intelligenza, non pensi in modo retto" (vv. 549-550). Nell' Antigone è Tiresia che, per spingere Creonte alla resipiscenza, gli suggerisce di ascoltarlo evitando di arroccarsi nel proprio potere:"aujqadiva toi skaiovtht j  jofliskavnei", l’alterigia davvero merita accusa di stoltezza (v.1028).

Atteggiamento supponente  è  dunque quello di Prometeo.


 

 Un tovpo" funzionale all'educazione: la condanna della stupidità.

Si trova espresso chiaramente nell'Agamennone[1] di Eschilo dal “gran duce dei Greci” che esita a calpestare il tappeto di porpora:" to; mh; kakw'" fronei'n-qeou' mevgiston dw'ron[2]" (vv. 927-928);

 

quindi nell'Antigone[3] di Sofocle le cui parole conclusive, del Coro, ovvero dell'autore che da questo "cantuccio" si esprime senza "introdursi nell'azione"[4], contengono la morale del dramma e presentano la  quintessenza del sofocleismo: "il comprendere (to; fronei'n[5]) è di gran lunga il primo requisito/della felicità; è necessario poi non essere empio/ in nessun modo negli atti che riguardano gli dèi (crh; de; tav  g j ej" qeou;" mhde;n ajseptei'n)" [6]. Lo stesso Creonte alla fine lo capisce:"mh; fronei'n pleivsth  blavbh" (v. 1051), non comprendere è il danno massimo.

 

Luogo simile nelle Baccanti[7] di Euripide[8]:" Essere equilibrati e venerare gli dèi /è la cosa più bella (To; swfronei'n de; kai; sevbein ta; tw'n qew'n-kavlliston"), e credo che questo sia anche il bene/più saggio per chi sa farne uso (vv.1150-1151).

 

  "La pietà suprema sarà per i Greci l'intelligenza"[9].

 

Capire è anche amare. Sentiamo Pasolini a questo proposito

“Non c’è peccato peggiore, nel nostro tempo, che quello di rifiutarsi di capire: perché nel nostro tempo non può scindersi l’amare dal capire. L’invito evangelico che dice “ama il prossimo tuo come te stesso” va integrato con un “capisci il prossimo tuo come te stesso”. Altrimenti l’amore è un puro fatto mistico e disumano”[10].

 

Alla fine delle Rane[11]  di Aristofane[12] c'è un makarismov" dell'intelligenza benefica grazie alla quale Eschilo potrà tornare sulla terra:"makavriov"  g  j ajnh;r  e[cwn-xuvnesin hjkribwmevnhn: -pavra de; polloi'sin maqei'n.-   o{de ga;r  eu\ fronei'n dokhvsa"-pavlin a[peisin oi[kad  j au\qi",- ejp  j ajgaqw'/  me;n toi'" polivtai" ,-ejp  j ajgaqw'/  de; toi'" eJautou'-xuggenevsi te kai; fivloisi,-dia; to; sunetov"  ei\nai" (vv.1482-1490), beato l'uomo che ha intelligenza acuta: è possibile riconoscerlo da molti segni. Questo qui che si è rivelato saggio torna di nuovo a casa per il bene dei cittadini, per il bene dei suoi parenti e amici, perché è intelligente.

Subito dopo Plutone dà a Eschilo in procinto di tornare ad Atene l'incarico di educare gli stolti che sono tanti:"paivdeuson-tou;" ajnohvtou" : polloi; d  j eijsivn" (vv. 1502-1503).

 

Capire significa prima di tutto sentirsi in armonia con il cosmo e con la vita, riconoscersi quale "una docile fibra/dell'universo"[13]. "Il destino dell'uomo è inserito nell'ordine divino del mondo; e quando l'ordine divino e il disordine umano vengono al cozzo, si sprigiona la scintilla della tragedia"[14].

 

 Per il latino cito la Rhetorica ad Herennium[15]  che già suggeriva una cultura fatta di tovpoi :" Omnium malorum stultitia est mater atque praeceptrix (II, 22), la stoltezza è madre e maestra di tutti i mali.

Orazio ci ricorda che la saggezza è principio e fonte del bene anche nel campo della scrittura:"scribendi recte,  sapere est et principium et fons"[16].  Si vede che autori diversi e lontani hanno elementi comuni: sono i tovpoi contenutistici di base, fondanti la cultura occidentale.

 


Clito ucciso in Sogdiana (328).

Subito dopo la riflessione sull’intelligenza, Arriano anticipa la sciagura (xumforav) di Clito e la sofferenza (pavqhma) di Al. (4, 8).

 Il fattaccio avvenne a Maracanda, capitale della Sogdiana, nel 328. Il re aveva trascurato Dioniso in favore dei Dioscuri. In mezzo al bere vigoreggiava l’adulazione. Gli adulatori sono la rovina dei regnanti.  Costoro dicevano che Al. era superiore ai Dioscuri e ad Eracle. Clito negò che le imprese di A. fossero megavla kai; qaumastav (4, 8, 5) come sostenevano quelli. Per giunta non le aveva compiute da solo. Al. si offese. Arriano non approva nemmeno Clito: bastava tacere e non  partecipare all’adulazione. Gli adulatori presero a denigrare Filippo: le sue imprese non erano grandi e meravigliose. Allora Clito non più in sé, già ubriaco paroinou`nta h[dh (6) si mise a celebrare Filippo e a rinfacciare ad A. la  propria prodezza  sul Granico.

“Il satrapo della Lidia, Spitridate, s’era avvicinato alle spalle del re. Già levava la sciabola sopra la testa per dargli il colpo fatale, quando il nero Clito lo precedette: con un colpo tagliò al barbaro un braccio, che si staccò dal tronco e cadde a terra. Poi Clito finì la sua vittima”[17]. Cfr. Plutarco, Vita, 16, 11.

 Ma oramai era arrivata l’ora di Clito. Al. afferrò una sarissa e lo uccise. Dunque un uomo assennato swfronou`nta non deve lasciarsi vincere dal vizio dell’ira né da quello dell’ubriachezza: ojrgh` te kai; paroiniva (4, 9, 1).

L’ira del resto è la caratteristica del tiranno nella tragedia.

 

L'ira del tiranno

   L'ira  è un tratto essenziale del carattere tirannico.

 Edipo è  in preda all'ira quando minaccia Tiresia: non tralascerò nulla, irato come sono ( "wJ" ojrgh'" e[cw", Edipo re , 345), e pure  quando uccide Laio (" paivw di j ojrgh'" ", colpisco con ira, v. 807).

 

 "L'ira appare tratto distintivo di ogni figura di tiranno venga rappresentata sulla scena; essa trova una particolare evidenza nell'Antigone  e nell'Edipo re  sofoclei. Sia Creonte fin dall'inizio, sia Edipo, da quando incomincia a sospettare un complotto contro il suo potere (è dunque in questo caso il principio della degenerazione che trasforma il buon re paterno del prologo in una figura tirannica), appaiono soggetti all'ira, incapaci perciò di un dialogo rispettoso dell'interlocutore e di una decisione meditata. "Taci, prima di riempirmi d'ira con le tue parole" (Antigone , v. 280), esclama Creonte, quasi ad interrompere il resoconto col quale la guardia lo sta informando del clandestino seppellimento di Polinice. E, a conclusione quasi della scena, nuovamente lo redarguisce:"Non ti rendi conto di parlare di nuovo in modo irritante? (Antigone , v. 316)"[18].

 

 L'ira di Edipo continuerà a colpire i  nemici  Tebani anche dopo la sua morte: nell' Edipo a Colono Ismene dice al padre che un giorno il suo cadavere sarà un grave peso (bavro" , v. 409) per i Cadmei, quindi la ragazza precisa: "th'" sh'" uJp ' ojrgh'", soi'" o{tan stw'sin tavfoi" " (v. 411), a causa della tua ira, quando staranno presso la tua tomba. Lo ha fatto sapere Apollo delfico (v. 413).

 

 L'ira per i Latini è una forma di pazzia intermittente.  Orazio sentenzia:"ira furor brevis est " (Epist.  I, 2, 62), l'ira è una breve follia.

 

Seneca considera l'ira un' insania  e un sintomo di impotenza:" iram dixerunt brevem insaniam; aeque enim impotens sui est ", dissero che l'ira è una breve pazzia; infatti è incapace di dominarsi, proprio come quella (De ira , I, 1).

 Inoltre non è naturale l'ira poiché essa desidera infliggere pene (poenae appetens est , I, 6) mentre la natura dell'uomo non vuole questo:"ergo non est naturalis ira " (I, 6).

 

Arriano approva il fatto che A. capì subito di avere commesso scevtlion e[rgon (4, 9, 2) un misfatto atroce e piangeva e digiunava.

 

“Qualunque sia stata ll’enormità dell’atto a cui il re si lasciò trascinare dalla sua collera, tale enormità non deve farci dimenticare che le parole di Clito gli rivelarono per la prima volta l’indignazione e la disapprovazione che i suoi modi avevano suscitato in quanti sino ad allora aveva onorato della propria fiducia; gli fecero improvvisamente vedere l’abisso scavato tra lui e i Macedoni[19].

 

Plutarco cerca di giustificare Al: il fattaccio non fu intenzionale ma conseguenza della sfortuna (dustuciva) del re il quale fornì la sua ira e la sua ubriachezza come pretesto al destino di Clito (ojrgh;n kai; mevqhn provfasin tw'/ Kleivtou daivmoni parascovnto~, Vita,  50, 2). Plutarco prosegue ricordando cattivi presagi e un brutto sogno di Al.: aveva visto Clito vestito di nero seduto tra i figli morti di Parmenione.

 

Cfr. il sogno di Riccardo III di Shakespeare

 

Quando il vino scorreva a fiotti, Clito e Al. cominciarono a litigare. Clito per natura era duro, incline all’ira e arrogante (fuvsei tracu;~ w]n pro;~ ojrgh;n kai; aujqavdh~, 50, 9). Insomma aveva il carattere del tiranno.

Clito rinfacciò ad Al. la salvezza da lui ricevuta quando voltava le spalle a Spitridate, poi continuò a parlare parrhsiazovmeno~ (51, 3), con franchezza estrema suscitando proteste tra gli amici di Al il quale gli tirò contro una mela. Gli amici a fatica allontanarono dalla sala Clito oujc uJfievmenon (51, 8), che non smetteva, non cedeva. Poi Clito assunse l’atteggiamento tipico dell’eroe. Egli rientrò da un’altra porta citando un verso dell’Andromaca di Euripide: “oi[moi, kaq j   J Ellavd  j wJ~ kakw'~ nomivzetai” (v. 693), ahimé, che cattive usanze ci sono in Grecia! 

 Si tratta di Peleo che biasima l’arroganza dei duci, nella fattispecie Agamennone e Menelao, che si prendono tutto il merito delle imprese compiute in massima parte dai soldati. Cfr. Curzio Rufo (8, 1, 29).

 

Ricordare a memoria i versi di Euripide non salvò la vita a Clito come agli Ateniesi fatti prigionieri a Siracusa.

Nella Vita di Nicia  Plutarco narra che alcuni Ateniesi finiti nelle Latomie di Siracusa "kai; di j Eujripivdhn ejswvqhsan" (29, 2), si salvarono anche grazie ad Euripide. Infatti i Greci di Sicilia amavano il tragediografo e lo citavano. Alcuni dei superstiti da quella catastrofe dunque, tornati a casa, andarono ad abbracciare affettuosamente Euripide e raccontarono che erano stati affrancati dalla loro schiavitù "ejkdidavxante" o{sa tw'n ejkeivnou poihmavtwn ejmevmnhnto" (29,4) poiché avevano insegnato quanto ricordavano dei suoi drammi.

 

Al. dunque uccise Clito poi si pentì: passò la notte malamente piangendo (nuvkta kakw'~ klaivwn dihvnegke, Vita di Al., 52). Quindi intervenne l’indovino Aristandro che gli ricordò il sogno e il presagio. Poi Callistene che cercò di consolarlo. Infine il filosofo Anassandro lo adulò dicendo  che non doveva temere leggi e biasimi degli uomini, lui che dava agli uomini regole e leggi.

 

Nietzsche intitola Che cosa è aristocratico?  il IX capitolo del suo Di là dal bene e dal male, e suggerisce:" Noi veritieri"- è questo  l'appellativo che si davano i nobili dell'antica Grecia...L'uomo di razza aristocratica avverte se stesso come colui che determina il valore, egli non sente la necessità di essere approvato, giudica"[20].

 

Quindi Anassandro gli fece: non sai che Zeus ha al proprio fianco Diche e Temis (Divkhn kai; Qevmin), affinché tutto quanto viene fatto da chi comanda sia legittimo e giusto (qemito;n kai; divkaion, 52, 6)? In questo modo Anassandro, che aveva fama di disprezzare i colleghi filosofi, alleggerì il dolore (to; me;n pavqo~ ejkouvfise) però gli rese il carattere più vano e trasgressivo delle leggi in molte circostanze (to; d j h\qo~ ei~ polla; caunovteron kai; paranomwvteron ejpoivhsen, 52, 7). Lo spinse anche a disprezzare la compagnia di Callistene che del resto non era gradevole data la sua secca rigidità. Una volta Callistene sosteneva che in Grecia faceva  meno freddo e Anassandro gli si oppose; allora Callistene gli disse: strano, tu dovresti riconoscere che qui fa più freddo: là infatti ejn trivbwni dieceivmaze~, passavi l’inverno in un mantello logoro, qui dormi con tre coperte.    

    

 

Sull'iracondia di Alessandro quale causa della morte di Clito insistono gli scrittori latini. Curzio Rufo racconta che Al. aveva assegnato la Sogdiana a Clito che gli aveva salvato la vita sul Granico. Sua sorella Ellanice aveva allevato Al. e il re l’amava come la propria madre (8, 1, 21). Durante un interminabile banchetto Al. si vantò della vittoria di Cheronea che gli era stata scippata (338 a. C.) “iactavit ademptamque sibi malignitate et invidiā patris tantae rei gloriam” (8, 1, 23). Al. continuava a ricordare la malevolenza del padre nei propri confronti. Il padre era stato iniziato ai misteri di Samotracia (isola dell’Egeo settentrionale) dove aveva conosciuto Olimpiade ma per ottenere la gloria ci voleva ben altro!

Non  era buono il rapporto con il padre. I successi di Filippo non rendevano felice Alessandro poiché temeva che non gli sarebbero rimaste grandi imprese da compiere. : “ ogni volta che veniva annunciato che Filippo aveva preso una città famosa o aveva vinto una battaglia celebrata, non era affatto raggiante nell'udirlo, ma ai coetanei diceva:"ragazzi, il padre mio si prenderà tutto e a me non lascerà nessuna impresa grande e splendida da compiere con voi".  (Plutarco, Vita di Alessandro, 5, 4-6.)

 

Plutarco invece racconta che dopo la vittoria di Cheronea (338) Filippo in seguito alle azioni del figlio, lo amava moltissimo (uJperhgavpa to;n uiJovn), al punto che era contento del fatto che chiamassero Al. re, e lui generale (Vita, 9, 4).

 

Però la madre Olimpiade lo metteva su contro il padre. Era una donna connotata dalla durezza (calepovth~), gelosa e collerica  e sobillava Alessandro (paroxunouvsh~ to;n  jAlevxandron, Vita, 9, 5).

 

Come nel caso di Medea, la leonessa ( Medea, v. 1407) è sempre l’offesa del letto che rende furenti le donne. La donna infatti per il resto è piena di paura/e vile davanti a un atto di forza e a guardare un'arma;/ma quando sia offesa nel letto,/non c'è non c'è altro cuore più sanguinario” , dice la protagonista eponima della tragedia di Euripide.  (Medea, vv.263-266).

Il letto della madre oltraggiata ricorre nella cagnara che scoppiò durante il banchetto nuziale di Filippo, innamorato della ragazzina Cleopatra. Attalo, lo zio della sposa, invitò i Macedoni a pregare gli dèi per un legittimo erede del regno; Al. gli gettò una coppa addosso chiedendogli se fosse un bastardo; Filippo si lanciò contro il figlio con la spada sguainata, ma scivolò e cadde. Allora Al. disse : costui, signori, che si preparava a passare in Asia, si è ribaltato passando da un letto a un altro (ejpi; klivnhn ajpo; klivnh~ diabaivnwn ajnatetravptai, 9, 11-ajnatrevpw).

 

 

I giovani, continua Curzio Rufo,  ascoltavano volentieri le denigrazioni di Filippo, ma Clito allora, rivolto ai convitati sottostanti, si mise a recitare dei versi dell’Andromaca di Euripide: quelli nei quali Peleo biasima “quod tropaeis regum dumtaxat nomina inscriberent ” (8, 1, 29), il fatto che nei trofei  scrivessero solo i nomi dei re.

Clito utilizza della letteratura  il tragediografo dei personaggi tragici pezzenti per smontare l’eroismo di Al. denunciandolo come fasullo.

Lo stratego, dice il Peleo di Euripide: “oujde;n plevon drw'n eJno;", e[cei pleivw lovgon” (Andromaca, v. 698), non facendo niente più di uno solo, ottiene una fama maggiore.

La Medea di Euripide rinfaccia a Giasone l’aiuto che gli ha dato per compiere l’impresa: “ il drago, che avvolgendo il vello tutto d'oro/lo sorvegliava con le spire contorte senza dormire,/dopo averlo ucciso, sollevai per te la luce della salvezza (Medea, vv. 480-482).

Bertolt Brecht fa eco a questa critica: “Il giovane Alessandro conquistò l’India./Da solo?/Cesare sconfisse i Galli./Non aveva con sé nemmeno un cuoco?”[21].

 

Al. ingentem iram conceperat (8, 1, 31). Clito pospose Al. anche a suo zio Alessandro il Molosso, re dell’Epiro, fratello di Olimpiade che dal 334 al 332 combattè in Italia, con i Tarantini, contro i Lucani: “Verum est, ut opinor, quod avunculum tuum in Italia dixisse constat, ipsum in viros incidisse, te in feminas” (8, 1, 37). E’ la stessa smontatura si Aleesandro fatta  da Tito Livio.

Inoltre Clito ricordò Parmenione elogiandolo. Rinfacciò ad Al. pure l’assassinio di Attalo. L’ira del re cresceva.  

 Tolomeo e Perdicca lo supplicarono in ginocchio di non perseverare in un'ira tanto folle,  " sed clausae erant aures, obstrepente ira "(VIII, 1, 49) le orecchie erano chiuse, dato lo strepitare dell'ira e il re era "impŏtens sui ",  incapace di controllarsi. Al. uccise Clito dicendogli: “I nunc ad Philippum et Parmenionem et Attalum” (1, 8, 52).  

 

 Seneca nel De ira  ricorda questo episodio condannando la collera come forma di irrazionalità alla cui tentazione sono particolarmente esposti i despoti, soprattutto quando la libertas  degli spiriti nobili non vuole piegarsi alla servitus  che i tiranni vogliono imporre:" Haec barbaris regibus feritas in ira fuit quos nulla eruditio, nullus litterarum cultus imbuerat: dabo tibi ex Aristotelis sinu regem Alexandrum qui Clitum carissimum sibi et una educatum inter epulas transfōdit manu quidem sua, parum adulantem et pigre ex Macedone ac libero in Persicam servitutem transeuntem "(17, 1), nell'ira ebbero questa ferocia i re barbari che nessuna erudizione nessuna cultura letteraria aveva mai formato: ma ti darò l'esempio del re Alessandro che, uscito dall'educazione di Aristotele, trafisse di sua mano durante un banchetto Clito a lui carissimo e pure educato in sua compagnia poiché lo adulava troppo poco, ed era restio a passare dalla condizione di Macedone e libero alla servitù persiana.

 

Arriano prosegue dicendo che fu lo sdegno di Dioniso trascurato a provocare la disgrazia, secondo gli indovini.

 Anche Curzio Rufo ricorda che ad Al. pentito venne in mente che non era stato fatto il sacrificio annuale Libero Patri (8, 2, 6). Uso politico della religio.

  Al. manifestava dolore e prostrazione, e i Macedoni, per  vergognarsi meno del delitto, iure interfectum Clitum Macedones decernunt (8, 2, 12).

 

Un episodio di ira violenta seguita da pentimento si trova nella Vita di Vittorio Alfieri (1749-1803) che fin da bambino assunse modelli eroici. Nel 1771 si trovava in viaggio in Spagna, e a  Madrid  commise un atto di pazza bestialità contro il fido Elia che per ravviargli i capelli ne tirò un pochino più l’uno che l’altro. Alfieri colpì il servitore con uno dei candelieri… su la tempia diritta ferendolo seriamente. Ma già in quel frattempo l’animoso ed offeso e fieramente ferito Elia, mi era saltato addosso per picchiarmi; e ben fece. Seguì una zuffa tragicomica e scandalosissima per parte mia. Ci fu un lieto fine con riappacificazione e giusto pentimento da parte del signore.

Anche Alfieri comprese di avere sbagliato: “Inorridii molto di un così bestiale eccesso di collera; e benché vedessi Elia alquanto placato, ma non rasserenato meco, non volli né mostrare né nutrire diffidenza alcuna di lui (Vita, 3, 12).

 

Pesaro 8 agosto 2024 ore 18, 45 giovanni ghiselli

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[1] Del 458 a. C.

[2] Il non capire male/ è il dono più grande di dio.

[3] Del  442.

[4]Cfr.  A. Manzoni,  Prefazione  a Il conte di Carmagnola .

[5] "Con fronei'n, "saggezza", il coro non allude a qualità teoretiche, come la conoscenza o la sapienza, ma a un modo di pensare, di sentire e di agire misurato, equilibrato, improntato al rispetto degli dèi. Allude a qualità morali" , G. A. Privitera, R. Pretagostini,  Storie e forme della letteratura greca, p. 281.

[6] Vv. 1347-1349.

[7] Rappresentate postume

[8] 485 ca-406 a. C.

[9] M. Zambrano, L'uomo e il divino (1955),  p. 194.

[10] P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p. 103.

[11] Del 405 a. C.

[12] 445 ca a. C.-388 ca a. C.

[13] G. Ungaretti, I fiumi, del 1916, vv. 30-31.

[14]V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle  (1956),  p. 40.

[15] Trattato di retorica anonimo degli anni 80 a. C.

[16] Ars poetica, composta tra il 18 e il 13 a. C., v. 309.

[17] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 104.

[18]D. Lanza, ,  Il tiranno e il suo pubblico , p. 50.

[19] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 293

[20]Di là dal bene e dal male , Che cos’è aristocratico? 260

[21] Domande di un lettore operaio, vv. 16-19,  da Poesie di Svendborg, 1939, ,in Brecht, Poesie, p. 157.

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