sabato 24 agosto 2024

Grecia agosto 1981 Capitolo VII. L’insalata greca e il sogno orribile sulla nave.


 

Ifigenia si alzò e iniziò a camminare intorno alla mia sdraia con passo furibondo, vesano gradu, come Medea[1].

Stavo per rispondere alla sua imprecazione replicando: “all’inferno ci sono già qui e ora con te!”, ma trattenni la voce, conscio che quando si trasfigurava in tale figura tragica, non sentiva altro che la sua ira.  Si imbestiava anche: i capelli le si rizzavano come serpenti infuriati, gli occhi stillavano gocce di rabbia con odio, le belle gambe diventavano zampe da bipede leonessa.

Sicché mi alzai e mi allontanai verso la prua della nave. Il vento vespertino e la situazione dove mi ero cacciato mi facevano rabbrividire. Osservavo il sole che calava nel mare. Mi sembrò che soffrisse per una ferita che ne insanguinava la luce. Aveva bisogno di riposo e di cure anche lui.

Dopo una decina di minuti, Ifigenia mi raggiunse, rabbonita, e mi diede un’occhiata. Lasciata sola, aveva smaltito la furia. Andammo a mangiare l’insalata greca nel self service, poi tornammo a dormire nella cabina rollante. Non facemmo sesso che sarebbe stato un’offesa all’amore.

 

Mentre la nave varcava i flutti dell’abisso salato, feci un sogno angoscioso pieno di significati. Forse può scandalizzare alcuni tra i miei lettori, ma vale la pena che lo racconti. Sono  immagini oniriche che occultano segni profondi. 

Ci amavano fisicamente con molta passione. Durante una fellatio, un attimo prima di avere l’orgasmo estrassi il pene da dove uscì uno schizzo di calce viva che in breve bruciò gli occhi della ragazza lasciandole due buchi  che si internavano dentro la testa. Ifigenia mi rimproverava con un singhiozzo, poi, senza ascoltare le mie preghiere, si allontanava incamminandosi per una strada deserta ma sorvolata da uccelli strani, mai visti, che schiamazzavano con fragore cattivo, e sembravano preparare un assalto violento contro la mia povera amante. Infatti ben presto molti di loro si lanciarono addosso alla giovane donna già orbata e si diedero a beccarla sulla testa, su quello che restava del volto, sulle piccole mani protese in un tentativo vano di protezione. Intanto altri uccellacci si diedero a duellare squarciandosi i petti a vicenda, altri si laceravano con il becco aguzzo da soli oppure scagliandosi violentemente contro rocce appuntite. Dopo qualche minuto, Ifigenia non potendo difendersi dai rostri furenti, si mise a correre con tutte le forze residue: allora il mantello scivolò dal suo corpo e la carne splendida apparve più luminosa che mai sotto la testa irriconoscibile tanto era stata sconciata da quelle bestie pazze e crudeli.

 

La vedevo correre nuda, veloce, e speravo che, perduta la testa, potesse tuttavia salvare il corpo splendente. Ma ecco che, invece, la carne delle braccia tornite, del florido seno, delle natiche belle, delle cosce lunghe e forti, comincia a liquefarsi, a gocciolare come grasso opaco e denso,  che scivolando nel suolo lo impregna. In poco tempo la carne si riduce a misera buccia. Tutto l’aspetto della ragazza già bella si era ridotto a una facies lurida  che mi fece impallidire.

Dalle gocce del corpo però spuntavano piccole rose rosse sorrette da gambi diritti e sottili, umide di fresca rugiada, illuminate da un sole primaverile e mattutino che faceva ammirare la loro verginale bellezza.

Cercai di coglierne una per tenderla alla mia compagna così sciupata. Volevo consolarla col dirle: tu sei simile a questa. Ma non riuscivo a spezzare il gambo che era probabilmente di ferro. Intanto Ifigenia, diventata uno scheletro si era fermata in mezzo alla vegetazione viva e variopinta nata dalla sua carne. Finalmente rivolse il teschio dalla mia parte e mi fissò con le orbite vuote manifestando rimpianto del corpo suo liquefatto e del nostro amore.

Mi avvicinai alla miseranda creatura per consolarla: con la mano destra cercavo di accarezzare i pochi capelli rimasti sul povero teschio, con la sinistra indicavo le rose immortali nate dal suo struggimento, ma Ifigenia, prima che potessi toccarla, tirò fuori una voce sepolcrale e disse: “gianni, non vedi che sono già morta?”

 

Mi svegliai con stanchezza e dolore. Il signore di Delfi, l’ombelico del mondo dove eravamo diretti, mi aveva mandato un sogno dal contenuto latente facile da svelare: desideravo la morte di Ifigenia, magari come preludio di una sua palingenesi. Così com’era non potevo più sopportarla.

Posi gli occhiali sul naso e iniziai a trascrivere la visione notturna mentre l’amata e odiata compagna di viaggio dormiva ancora.

Una volta non avrei aspettato il suo risveglio  senza mettermi le lenti a contatto che migliorano il mio aspetto: in quel tempo non presentarmi a lei al massimo di me stesso mi sembrava l’errore più grande. Difatti come si svegliò e mi vide con gli occhi invetriati , capì che non stavo annotando riflessioni fauste e propizie.

Mi guardò un momento, poi inarcò le sopracciglia e disse che non dovevo illudemi: lei non avrebbe mai più fatto l’amore con me siccome le confondevo le idee”.

“Io sono rassegnato alla castità” risposi-“già da bambino le zie due più curiali mi chiusero in un convento e monachello mi fecero far perché non generassi altri peccatori”.

 

Pesaro 24 agosto 2024 ore 17, 15 giovanni ghiselli

 

p. s.

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[1] Seneca, Medea, 738:

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