martedì 27 agosto 2024

Viaggio in Grecia agosto 1981 XXI. L’Acropoli. Il museo nazionale. Capo Sunio, Brauron. Elena e Paride.

La mattina seguente salimmo sull’Acropoli dove non ci fermammo a lungo perché il Museo era chiuso e Ifigenia aveva paura di rimanere sotto il cielo siccome aveva sentito dire da una barista vaga di ciance che sulla collina grava perpetuamente una nuvola tossica foriera di malattie mortali. Probabilmente tale chiacchiera veniva messa in giro dai commercianti della Plaka situata sotto l’Acropoli perché i turisti non salissero su quel colle avvelenato e rimanessero nel grande mercato  sottostante a comprare con vantaggio di chi vendeva ogni cosa. Ma Ifigenia diede cieca fiducia all’incontrollabile voce . Probabilmente sentiva qualche cosa di malato e cattivo dentro di sé e lo proiettava nell’aria, su fino al cielo. Del resto il pur mirabile Partenone non ci commosse quanto Delfi, né quanto Micene e Olimpia visitati l’anno precedente dopo il soggiorno con Fulvio a Debrecen.

Non sentimmo il divino come in quei luoghi sacri: il tempio più grande di Atene ci apparve costruito meravigliosamente  per suscitare meraviglia anche terrena e politica se vogliamo: mettere in mostra la grande potenza della città esemplare : apparire ai nemici e ai federati asserviti e taglieggiati la signora  oltre che la scuola dell’Ellade[1]

Quindi andammo al Museo Nazionale dove ci piacque sopra tutto lo Zeus dell’Artemision: in quella statua di bronzo vedemmo e ci commosse l’idea del divino rappresentata non astrattamente ma attraverso la forma umana còlta nei suoi aspetti migliori: la forza consapevole, la nobile semplicità, la calma sicura dove si manifesta una bellezza serena che non appassisce con il volgere delle stagioni, anzi acquista nuovo vigore siccome incarna  una potenza mentale sempre più cosciente di sé, un equilibrio sicuro, una sintonia musicale, un’armonia artistica tra le parti del corpo e  quelle dell’anima.

 “Anche io come questo maestro-dissi- vorrei trovare e rappresentare in immagini chiare, luminose, il significato eterno delle tue belle membra, del nostro amore, e del piacere tanto corporeo quanto mentale che ne traemmo”.

Ifigenia in quel momento gioì del proposito mio.

Una gioia che poi rinnegò.

Nel pomeriggio ci recammo a Capo Sunio per vedere il tempio di Poseidone e pregare il dio. Avrei voluto farlo in un duetto con lei alzando  al cielo le braccia tra le colonne, ma Ifigenia era ancora distratta dal pensiero fastidioso della nuvola tossica.

Per tornare ad Atene cambiammo strada e giungemmo a Brauron.

Ricordai che  l’Ifigenia di Euripide  dopo la Tauride avrebbe custodito le chiavi del tempio di Artemide nelle sacre praterie di Brauron[2].

 Lì poi sarebbe morta e sarebbe stata sepolta la figlia di Agamennone. “Riceverai ornamento dei pepli e i tessuti che le donne morte di parto lasciano nelle loro case”[3]. Questo   le preannuncia la dea Atena nell’esodo della tragedia.

Ma Ifigenia in carne e ossa, brutta o bella copia che fosse della fanciulla Pelopide, non gradì questo mio sfoggio e tanto meno di venire accostata a una ragazza che prima era stata designata come vittima dal padre, poi era stata relegata tra i barbari, e infine destinata alla custodia di un tempio luttuoso.

Disse di non essere tagliata per quella parte: si sentiva piuttosto simile a Elena,  più donna, più bella, più libera, tanto che aveva piantato il re suo marito per seguire un principe di passaggio che le piaceva di più.

“E adesso dov’è Menelao il tuo biondo marito? ” le domandai.

Speravo di non essere io, anche perché non sono biondo, tanto meno marito.

“Non c’è-rispose-Adesso sto bene con te Pavri"  gunaimanhvv"[4].

Fui contento di questo. Ne era contenta anche lei. Bastava non addentrarsi nelle questioni di fondo: si poteva scherzare, citare, recitare, sempre comunque ponendosi dei limiti che impedissero di sfiorare la zona malata, ferita, ulcerata  dell’anima dell’altro

Pesaro 27 agosto 2024 ore 11, 02 giovanni ghiselli

giovanni ghiselli  

p. s.

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[1]Levgw thvn te pa`san povlin th`"  JEllavdo" paivdeusin ei\nai”. Sono parole del logos epitafios attibuite da Tucidide a Pericle (II, 41, 1) 

 

18  ajmfi; semna;" leivmaka"- braurwniva",  Euripide, Ifigenia fra i Tauri 1462-1463) .

[3]

19 ujfav~, a{~ a]n gunai`ke~ ejn tovkoi~ yucorragei`~-lipw`s  j ejn oi[koi~ (Euripide, Ifigenia fra i Tauri 1465-1466

 

[4]  Donnaiolo di un Paride, Paride che va matto per le donne (e  fa impazzire le donne. Cfr. Iliade, III, 39.

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