venerdì 9 agosto 2024

Alessandro. L’incesto come problema. Callistene e la congiura dei paggi.


 

L’incesto e l’incapacità di staccarsi dalla madre.

Quindi Al. attaccò la regione della Sogdiana Nautica, il cui satrapo Sisimitre  aveva avuto due figli dalla propria madre: “quippe apud eos parentibus stupro coire cum liberis fa sest [1]  (8, 2, 19), da loro è lecito commettere incesto con i figli.

Del resto Freud sostiene che il tabù è culturale piuttosto che naturale: deriverebbe dal divieto del padre-padrone dell’orda primitiva-

Il satrapo si arrese nonostante la moglie-madre insistesse perché combattesse.

 

Catullo ricorda,: “nam magus ex matre et gnato gignatur oportet/ si vera est Persarum impia relligio” (90, 3-4).

La Sfinge nasce da un incesto tra la vipera Echidna e suo figlio, il cane Orto.

 

Ermione nell’Andromaca di Euripide sostiene: “toiou'ton pa'n to; bavrbaron gevno":-pathvr te qugatri; pai'" te mhtri; mivgnutai-kovrh t  j ajdelfw'/, dia; fovnou d  j oiJ fivltatoi-cwrou'si, kai; tw'nd  j oujde;n ejxeivrgei novmo" (vv. 173-176), siffatta è la razza dei barbari, il padre si unisce alla figlia, il figlio alla madre, la sorella al fratello, mentre gli amici più cari muovono all’uccisione l’uno dell’ altro e la legge non impedisce nessuno di questi orrori.    

 

L'ombra di Laio nell'Oedipus di Seneca punta subito il dito contro l'incesto:"maximum Thebis scelus/maternus amor est " (629-630). E’ questo il verso chiave della tragedia.

 

Nelle Phoenissae di Seneca,  Edipo considera l'incesto il più grave dei suoi due delitti, anzi di tutti i delitti:"Nullum crimen hoc maius potest/natura ferre" (vv. 272-273), la natura non può produrre nessun crimine più grande di questo.

Le commento con queste di C. Pavese:"Se nascerai un'altra volta dovrai andare adagio anche nell'attaccarti a tua madre. Non hai che da perderci".[2]

 

Sentiamo anche Kundera:"Non c'è attaccamento più forte di quello di una madre verso il suo bambino. Questo attaccamento mutila per sempre l'anima del bambino e prepara per la madre, quando il figlio diventa grande, i più crudeli tormenti d'amore che esistano al mondo"[3].

 

Concludo con  E. Fromm :" Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo[4], ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[5].

Fromm definisce "matura" la persona che "si è liberata delle figure esteriori del padre e della madre e li ha ricreati in se stessa"[6].

 

In Totem e tabù  Freud scrive che “tabù è un vocabolo polinesiano” di traduzione difficile in tedesco, ma equivalente in modo esatto al latino sacer. Quindi aggiunge: “Anche l’a[go~ dei greci e il kodausch (kadosch) degli ebrei deve avere avuto lo stesso significato del tabù per i polinesiani…I divieti tabù più antichi e più importanti sono i due princìpi fondamentali della legge totemica: non uccidere l’animale totemico e fuggire il rapporto sessuale con individui di sesso diverso appartenenti allo stesso totem…L’uomo che ha violato un tabù, diventa egli stesso tabù in quanto possiede la pericolosa capacità di indurre gli altri a seguire il suo esempio[7].  

L’esogamia  venne imposta all’orda primigenia dal padre che, in seguito a una rivolta della banda dei figli aizzati e guidati da uno di loro “il caporione”, venne ammazzato e sostituito simbolicamente con l’animale totemico. Questo poi  fu alternatamente venerato e ucciso per essere mangiato nel pasto totemico[8] cui è succeduta la comunione cristiana. Ebbene l’ambivalenza della parola  sacer rifletterebbe l’ambivalenza del rapporto tra il padre e i figli: L’imperio dell’esogamia, la cui espressione negativa è l’orrore dell’incesto, si fondava sulla volontà del padre e continuò questa volontà dopo il parricidio. Di qui l’intensità del suo tono affettivo e l’impossibilità di una fondazione razionale, cioè il suo carattere sacro. Siamo fiduciosi che l’esame di tutti gli altri casi di divieto sacro condurrebbe allo stesso risultato del caso dell’orrore dell’incesto, e cioè che in origine il sacro non è altro che la prosecuzione della volontà del padre primigenio. Con ciò si farebbe anche un po’ di luce sull’ambivalenza, finora incomprensibile , delle parole che esprimono il concetto di sacro. E’ la stessa ambivalenza che domina in genere il rapporto con il padre. “Sacer” significa non solo “sacro”, “consacrato”, ma anche qualcosa che possiamo tradurre soltanto con “infame”, “esecrando” (“auri sacra fames[9]). Tuttavia la volontà del padre non era soltanto qualcosa di intoccabile, qualcosa da tenere altamente in onore, ma anche qualcosa di fronte a cui si tremava, perché esigeva una dolorosa rinuncia pulsionale[10].

 

 

 

 

Callistene e la congiura dei paggi 327 in Sogdiana.

Arriano approva il fatto che A. dopo avere ucciso Clito ammise di avere sbagliato essendo uomo (4, 9, 6): xumfh`sai ga;r ejptaikevnai-ptaivw- a[nqrwpovn ge o[nta. Il sofista Anassarco[11],  lo adulò, mentre il suo storico Callistene di Olinto non lo approvò.

 

Dall’onore in cui Al. tenne Anassarco Plutarco deduce che l’amore per la filosofia, innato nel giovane, non gli uscì mai dal cuore, anche se  Aristotele dopo averlo amato, gli era venuto in sospetto (Vita, 8, 4).

Callistene era nipote di Aristotele e segretario della cancelleria (ejpistologravfo") di Al. Sosteneva che la grandezza di Al. dipendeva dal proprio racconto storico. Doveva comporre la versione ufficiale della campagna di Oriente ma nel 327 fu condannato a morte.

 “Della sua opera storica ci sono rimasti solo frammenti, che però bastano a rivelarci con quale tono iperbolico celebrasse le imprese del suo eroe. A proposito del passaggio della zona marittima della Panfilia, Callistene scrive che le onde del mare si prosternarono dinanzi ad Alessandro, compiendo una vera e propria proschinesi[12].

 

Callistene, storico di Al.,  parlava contro la tirannide.

Una volta Filota gli domandò chi pensasse che venisse maggiormente ammirato dalla città degli Ateniesi; Callistene rispose Armodio e Aristogitone poiché avevano ammazzato uno dei due tiranni (Ipparco) “kai; turannivda o{ti katevlusan” (Arriano, 4, 10, 3) e  per il fatto che avevano abbattuto la tirannide. Quindi Filota chiese se un tirannicida poteva trovare rifugio e salvarsi presso qualche popolazione greca, e il nipote di Aristotele rispose che un fuggitivo poteva salvarsi, se non presso altri, certo dagli Ateniesi, essi infatti si erano battuti per i figli di Eracle anche contro Euristeo "turannou`nta ejn tw`/ tovte th`~  JEllavdo~" ( 4, 10, 4) che allora tiranneggiava la Grecia. Il mito venne drammatizzato da Euripide negli Eraclidi[13].

 

Il re di Atene, Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, riceve e accoglie una richiesta di aiuto dai supplici figli di Eracle che l'argivo Euristeo perseguita: nella parodo il coro composto di cittadini ateniesi avverte: "a[qeon iJkesivan meqei'nai povlei-xevnwn prostropavn" (vv. 107-108), è empio per una città trascurare la supplice preghiera di stranieri. La tirannide è collegata all'empietà, come nelle Supplici di Euripide e nell'Antigone di Sofocle, tragedie nelle quali Creonte vuole negare la sepoltura dei morti. Insomma Atene, la scuola dell'Ellade, esecrava la tirannide.

 

Quanto alla proskuvnhsi~ Anassarco la approvò dicendo che Al. era un dio più benefico e più macedone di Eracle e Dioniso, mentre Callistene disapprovò la confusione tra uomini e dèi e le timaiv, gli onori, devono restare ajpokekrimevnai, distinti (4, 11, 4).

Anassarco viene biasimato dal discorso di Callistene  poiché ha trattato A. come un despota orientale, Cambise o Serse, e non come il figlio di Filippo, di stirpe Eraclide e pure Eacide i cui antenati governarono oujde; biva/, ajlla; novmw/ (7).

 I despoti persiani del resto furono fatti rinsavire dagli Sciti pevnhte~ a[ndre~ kai; aujtovnomoi poveri e indipendenti, ( Ciro in Erodoto I, 208-214 da Tomiri; Dario in Erodoto IV, 1; 83-142 dagli Sciti; Serse dagli Ateniesi, e questo Dario III da Alessandro)

 Dunque Callistene non volle prostrarsi e Al. non lo baciò. Arriano non approva né l’ u{bri~ di A. né la rozzezza (skaiovth~) di Callistene, e sostiene che basta comportarsi kosmivw~ con moderazione (4, 12, 7) per quanto riguarda se stessi, pur esaltando il potere del re, dato che gli si vive accanto. Dunque l’odio di Al. è motivato dall’inopportuna libertà di parola (ajkaivrw/ te parrhsiva/) e dalla stupidità altezzosa del segretario. Callistene venne accusato di partecipazione alla congiura dei paggi. Arriano racconta poi la congiura dei paggi (327) e l’uccisione di Callistene, anticipandola perché avverrà a Battra.

 

Positività della parresia.

La critica dei ragazzi deve avere la possibilità di colpire anche i docenti: all'allievo va lasciata piena libertà di parola. Sentiamo Cacciari:" Paideia è ab origine connessa a parresia . Se viene meno la parola libera - e la parola può cessare di essere libera soltanto per 'autocensura' - , la parola che intende discutere ogni presupposto e ogni 'stato', non vi è più scuola, ma, per dirla con Nietzsche, una "produzione di impiegati", se va bene di "impiegati intelligenti"[14].

 

Parrhsiva potrebbe essere scelta come parola chiave e considerata a partire dallo Ione[15] di Euripide dove il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai[16] koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).

Il meteco non aveva la pienezza dei diritti politici.

Analogo concetto si trova nelle Fenicie[17] quando  Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.

Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa.

 

"La parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell'Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura europea vi trovano fondamento"[18].

 

 

Callistene in Curzio Rufo.

Al. si preparava alla guerra contro l’India e prava mente, con mente alterata, voleva onori divini (8, 5, 5). Voleva essere creduto sul serio figlio di Giove, tamquam perinde animis imperare posset ac linguis, iussitque more Persarum Macedonas venerabundos ipsum salutare prosternentes humi corpora (6). Contribuiva a tale capriccio perniciosa adulatio, perpetuum male regum, quorum opes saepius adsentatio quam hostis evertit.

 

La colpa più che dei Macedoni era dei Greci che, malis moribus, avevano corrotto una tradizione nobile. Un argivo in particolare (Cherilo) e un siciliota (Cleone). Dicevano che Ercole, Libero e i Dioscuri gli avrebbero ceduto il loro posto. Callistene era già odioso ad Al. : “gravitas viri et prompta libertas invisa erat regi, quasi solus Macedonas paratos ad tale obsequium moraretur” (8, 5, 13), la libertà risoluta, come se fosse lui solo a trattenere i Macedoni già disposti a tale ossequio.

Callistene rispose che Ercole e Libero non diventarono dèi per il decreto di un convivio convivii decreto, ma la loro grandezza venne riconosciuta solo dopo la morte. Quanto agli dèi: “nostris moribus velint nos esse contentos” (19) vorrebbero che ci accontentassimo dei nostri usi e costumi. Vince il popolo di cui prevalgono i costumi. Il re, appostato dietro ai tendaggi, in atteggiamento ignobile dunque, ascoltava, poi entrato nella sala intanto se la prese con Poliperconte. Ma lo perdonò mentre covava l’ira contro Callistene contumaciā suspectum (8, 6, 1), sospetto per la sua riottosità.

Seconda congiura: quella “dei paggi” (primavera 327 a. C.) I camerieri di Al. costituivano un seminarium ducum praefectorumque (8, 6, 6), un vivaio di capi e governatori. Alcuni di questi, ordirono una congiura: volevano ammazzarlo dopo un banchetto tenuto nella notte in cui erano di guardia ma intervenne la solita fortuna ipsius (8, 6, 14), sicché una mulier attonitae mentis (16), di spirito profetico dotata, come si credeva, invitò Al. a rientrare nella sala del banchetto. Al. per ludum bene deos suadere respondit (17), rispose per scherzo che gli dèì davano buoni consigli, e protrasse il banchetto quasi fino alla seconda ora (le otto del mattino).

 Quindi i paggi congiurati dovevano  smontare la guardia e rinunciare. Invece  continuavano a sperare di farcela: “adeo pertinax spes est, quam humanae mentes devoraverunt” (18), tanto ostinata è la speranza  che le umane menti hanno inghiottito. Ma il re li mandò a letto. Uno dei paggi però parlò con il fratello che corse a fare la denuncia. Al. fece arrestare i congiurati e pure Callistene che non era stato denunciato ma usava ascoltare quei giovani. Il giorno dopo Al. convocò l’assemblea plenaria frequens consilium adhibuit (8, 6, 28).

 Parlò Ermolao il capo della congiura, difendendo se stesso e accusando Al. Dice che non voleva vivere da schiavo. Gli rinfaccia gli assassini dei collaboratori più fidati. Al. lo ascoltava mentre altri, compreso il padre Sopoli, volevano sopprimerlo. Ermolao rinfaccia al re il silenzio imposto a Callistene “quia solus potest dicere” (8, 7, 8). Comunque Callistene non c’entra con la congiura. “patrios mores exōsus es” (12), tu odi i costumi della patria e ami quelli persiani. “Persarum ergo, non Macedonum regem occidere voluimus”. “Tu quidem, si emendari potes, multum mihi debes. Ex me enim scire coepisti quid ingenui homines ferre non possint” (15). Tu, se riesci a correggerti, mi devi molto. Infatti hai imparato da me che cosa gli uomini liberi non possono sopportare.

Al. risponde di essere mite con chi gli permette di impiegare la propria indole. ubi vero reverentia excessit animis et summa imis confundi videmus, vi opus est, ut vim repellamus” (8, 8, 8), quando il rispetto è uscito dagli animi e vediamo le cime confuse con gli abissi, è necessario respingere la violenza con la violenza.  

 

 Insomma acta retro cuncta :" Mutatus ordo est, sed nil propria iacet;/ sed acta retro cuncta” (Seneca, Oedipus,  vv. 366-367) , è mutato l'ordine naturale e nulla si trova al suo posto; ma tutto è invertito.

La quintessenza del male è spesso il disordine e la confusione. Nell'Agamennone l'ombra di Tieste, alludendo al suo rapporto incestuoso con la figlia, dice; "versa natura est retro "(v. 34) , la natura è stata rivoltata. La regressione è segno di caos e pazzia.

 

 Al. afferma di essere mite e generoso, perciò non maltratta e non depreda nemmeno i Persiani . Non sono venuto “ut…solitudinem facerem[19], sed ut illos, quos bello subegissem, victoriae meae non paeniteret (8, 8, 10). Il mio impero deve durare: “beneficiorum gratia sempiterna est” (11). Abbiamo bisogno della fides dell’Asia: “horum fides stabile et aeternum faciet imperum  (8, 8, 12). “Nec aliter tantum imperium apte regi potest, quam ut quaedam et tradamus illis et ab isdem discamus” (13). Al. ha appreso la lezione degli Sciti. Ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: Famā[20] enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit” (8, 8, 15), Le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità.

Cfr. 3, 8, 7 dove Dario dice “famā bella stare”. Come nelle Eumenidi di Eschilo le parti in conflitto hanno un pensiero comune.

 

Nella Germania di Tacito, i capi sono assai reputati, afferma l’autore “si numero ac virtute comitatus emineat”, se il loro seguito si distingue per numero e per valore; in questo caso : “expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsā plerumque famā bella proflīgant” (13, 3), vengono di fatto richiesti attraverso ambascerie e vengono onorati con doni e con la stessa fama per lo più determinano l’esito delle guerre.   

 

Callistene è il tuo degno maestro continua Alessandro, e non l’ho invitato a parlare poiché non è un Macedone ma uno di Olinto.

 

 I congiurati vennero fatti morire tra le torture, e pure Callistene che non si era mai conformato alla corte e all’indole degli adulatori: “haudquaquam aulae et adsentantium accomodatus ingenio” (8, 8, 21). Questo delitto suscitò grande odio tra i Greci, tanto più che la tortura e la morte furono inflitte a Callistene indictā causā (22), senza processo.

 

Anche Seneca manifesta sdegno per questo crimen : “Hic est Alexandri crimen aeternum, quod nulla virtus, nulla bellorum felicitas redĭmet” (nat., 6, 23, 2), qui è il crimine eterno, non riscattabile di Al.  Quindi ex his quae fecit nihil tam magnum erit quam scelus.

 

Callistene in Plutarco.

Callistene era visto di malocchio dagli altri sofisti e dagli adulatori ma piaceva ai giovani per la sua vita ordinata, seria, sobria (dia; to;n bivon, eu[takton o[nta kai; semno;n kai; aujtavrkh, Vita di Al., 53) e anche perché confermava il suo proposito di fare riedificare Olinto come aveva fatto il cugino della propria  madre Ero, Aristotele, con Stagira.

Si rendeva odioso a molti per il fatto che non accettava gli inviti, o, se interveniva, assumeva un atteggiamento di gravità e con il silenzio dava a vedere di non elogiare quanto avveniva e di non compiacersene (baruvthti kai; siwph'/ dokw'n oujk ejpainei'n oujd   ajrevskesqai toi'~ gignomevnoi~, 53, 2). Una volta Al. citando Euripide disse misw' sofisthvn, o{sti~ oujc auJtw'/ sofov~ , odio il sapiente che non è saggio nei confronti di se stesso. Il frammento di Euripide potrebbe applicarsi a Prometeo messo in guardia dai suoi vicini.

Un’altra volta in un banchetto Callistene celebrò i Macedoni con un discorso fatto molto bene e ricevette una standing ovation e lancio di corone:”w{st j ajnistamevnou~ krotei'n kai; bavllein tou;~ stefavnou~ ejp  j aujtovn  ( 53, 3). Al allora citò le Baccanti di Euripide : “kala;~ ajforma;~, ouj meg j e[rgon eu\ legein”. E’ Tiresia che parla a Penteo in questo contesto: “Quando un uomo saggio abbia preso buoni spunti/per le sue parole, non è grande impresa il parlare bene;/tu hai sì una lingua sciolta, come se avessi senno,/ma nei tuoi discorsi non c'è senno (vv. 266-269).

Quindi Al. sfidò Callistene a dimostrare la sua potenza oratoria con il parlare male dei Macedoni.

 

  Qualche  cosa di simile nelle Storie di Tucidide (I, 68 sgg.)

Tucidide ha fatto lodare gli Ateniesi da Pericle in patria, e a Sparta dai nemici Corinzi. Questo procedimento fa parte dell'obiettività e dell'abilità dell'autore; "infatti", come afferma Socrate nel Menesseno  di Platone (235d):"se si dovesse parlare bene di Ateniesi tra i Peloponnesiaci o di Peloponnesiaci tra gli Ateniesi ci vorrebbe un buon oratore per persuadere e fare bella figura; quando invece uno scende in campo tra coloro che pure elogia, non ci vuole molto a dare l'impressione di parlare bene".

 

Callistene dunque parlò male dei Macedoni facendosi odiare, e Al. disse che il filosofo aveva dato prova di malevolenza, non di abilità oratoria. C’era tra i due un’avversione forte.

 

Plutarco scrive (Vita, 54) che un paio di volte Callistene si congedò da Al. con questa citazione dall’Iliade: “morì anche Patroclo che era creatura molto migliore di te” (21, 107). Lo dice Achille a Licàone figlio di Priamo, prima di ammazzarlo.

Aristotele aveva detto del nipote che era potente nel parlare, nou'n d j oujk ei\cen (54, 2) ma non aveva senno.

Eroismo di Callistene. Ancora Plutarco

Callistene non si prosternava e affermava apertamente ciò che gli altri Macedoni dicevano di nascosto. Fece del bene ai Greci e allo stesso Al. evitando la proskynesis ma rovinò se stesso. Quando Al. non volle baciarlo disse: “filhvmati toivnun e[lasson a[peimi” (Vita, 54, 6), me ne andrò con un bacio in meno. Quando fu scoperta la congiura dei paggi (327 a. C.) i suoi nemici lo accusarono di avere suggerito ad Ermolao, che voleva diventare famosissimo, di uccidere l’uomo più famoso (a]n ajpokteivnh/ to;n ejndoxovtaton” (55, 4). I giovani invece non lo accusarono ma Al. lo odiava e volle punirlo.

 

Intellettuali e potere.

Sappiamo che il tiranno per imporre il proprio arbitrio taglia, e non solo metaforicamente, le teste[21], o, quanto meno, inceppa le lingue, come rinfaccia Antigone a Creonte: “Del resto da dove avrei potuto ottenere una gloria/ più bella e famosa che componendo mio fratello/nella tomba? Si potrebbe dire che a tutti questi questo/piace, se la paura non serrasse la lingua (eij mh; glw'ssan ejglhv/oi fovbo")./ Ma la tirannide in molte altre cose ha successo/e per giunta le è possibile sia dire sia fare ciò che vuole” ( Antigone, vv. 502-507).

 

Il tiranno impedisce anche l’espressione scritta. Tacito negli Annales ricorda gli orrori della tirannide quando, sotto Tiberio, poi anche sotto Nerone, i libri degli oppositori venivano condannati: “Cornelio Cosso Asinio Agrippa consulibus Cremutius Cordus postulatur novo ac tunc primum audito crimine, quod editis annalibus laudatoque M. Bruto C. Cassium Romanorum ultimum dixisset” ( IV, 34), sotto il consolato di Cornelio Cosso e Asinio Agrippa[22] viene citato in giudizio Cremuzio Cordo per un delitto nuovo e sentito allora per la prima volta: pubblicati degli annali con la celebrazione di M. Bruto, egli aveva chiamato Cassio l'ultimo dei Romani.

 Pasolini afferma che" il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi"[23]

Tito Labieno fu vittima di Augusto, Cremuzio Cordo di Tiberio,  Trasea Peto di Nerone.  Sono gli storiografi martiri.

 

 Pesaro 9 agosto 2024 ore 18, 01, giovanni ghiselli

p. s. Statistiche del blog

All time1607601

Today208

Yesterday279

This month3208

Last month11384

 



[1] Cfr. Tacito hist. 5, 4, 1: “concessa apud illos quae nobis incesta”, da loro sono permessi atti che per noi sono empi.

[2] Il mestiere di vivere, 22 gennaio 1938.

[3] Il valzer degli addii, p. 110.

[4]Non certo nel caso di Antigone e Aiace che comunque fondano l'identità sull'imitazione della figura paterna (n. d. r,).

[5]E. Fromm, La rivoluzione della speranza , p. 80.

[6]E. Fromm, L'arte d'amare , p. 61.

[7] S. Freud, Totem e tabù (del 1913), p. 33 e pp. 51-52.

[8]  Cfr. S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica,  terzo saggio, p. 408.

[9] Eneide, III, 57, maledetta fame dell’oro.

[10] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, terzo saggio, pp. 438-439.

[11] Di Abdera, fu allievo di Democrito e maestro di Pirrone di Elide.

[12] J. G. Droysen, op. cit. p. 303.

[13] Del 427 a. C., forse.

[14] M. Cacciari,  Geofilosofia dell'Europa., p. 22.

[15] Del 411 a. C.

[16] Forma poetica equivalente a kevkthtai.

 [17] Tragedia di Euripide rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.

[18] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.

[19] Cfr. Tacito e la  condanna dell'imperialismo dei Romani e delle loro guerre di rapina e sterminio attribuita a Calgaco, il capo dei Caledoni ribelli nell'Agricola :"Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant "  (30), rubare, massacrare, rapire con nome falso chiamano impero e dove fanno il deserto lo chiamano pace.

[20] Cfr. fhmiv. La gente non solo vive e mangia ma pure fa e interpreta la guerra seguendo il “si dice”. Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".

[21] Cfr. Erodoto, Storie, V, 92, z, 2; Tito Livio, Storie, I, 54.

[22] Nel 25 d. C.

[23] Scritti corsari , p. 113.

Nessun commento:

Posta un commento

Ifigenia LV, LVI, LVII.

Ifigenia LV. Civita di Bagnoregio.   Berlino est. Ifigenia e Cornelia.   Rimasi a Pesaro fino al 29 dicembre leggendo i miei autori, a...