martedì 13 agosto 2024

Il professore apprendista. Poi il sogno di un colloquio con Sofocle.


 

Poco prima di compiere 31 anni, nell’ottobre del 1975, ricevetti la cattedra di latino e greco nel liceo classico Rambaldi di Imola. Ne fui contento perché avevo studiato al liceo classico, poi lettere classiche all’Università con l’intento di insegnare queste materie.

Ma ne ero anche spaventato perché provenivo da anni di lontananza dalle lingue e letterature antiche. In cinque anni di insegnamento nella scuola media e un altro in un istituto professionale femminile avevo dimenticato molto, se non proprio tutto. Avevo superato un esame di abilitazione e un concorso, è vero, ma non è con queste prove che si impara a insegnare bene discipline trascurate per anni. Alle medie ero stato un buon educatore di bambini, credo, ma avevo impartito un’educazione generica, dato che per quanto riguarda i testi studiati da adolescente nel liceo Mamiani di Pesaro poi nei primi anni universitari a Bologna, li avevo dimenticati abbeverandomi  a lungo nell’oblioso fiume Lete.

Quando mi presentai per iniziare il nuovo lavoro, la paura di non essere in grado di farlo decentemente aumentò: dovevo preparare i ragazzi dell’ultimo anno alla maturità il cui pezzo forte all’orale allora era la tragedia greca e il collega dell’anno precedente aveva adottato l’Edipo re di Sofocle.

Ebbene, da studente liceale io avevo portato all’esame finale le Troiane di Euripide e per i due esami universitari di greco sostenuti un paio di anni più tardi  avevo dovuto preparare tutta l’Odissea di Omero e sette tragedie tutte di Euripide.

Di Sofocle dunque avevo  una  conoscenza minima, insufficiente, soltanto manualistica: vita e opere lette nel manuale appunto. Oltretutto questo poeta aveva una fama di reazionario che lo metteva quasi all’indice negli anni Settanta.

Mi diedi da fare, cioè impiegavo diverse ore al giorno per tradurre i primi versi della tragedia in programma e ripassare i tecnicismi della lingua greca, però, non avendo una visione d’insieme non solo dell’opera sofoclea ma nemmeno dell’Edipo re, ero appena in grado di fare una traduzione parola per parola e un commento grammaticale, sintattico e metrico ai trimetri giambici greci. Le ragazze e ragazzi che avevano undici anni meno di me, e ci si dava del tu con fare amichevole, mi dissero con garbo che la traduzione dei versi l’avevano già nel libro adottato e i paradigmi verbali li trovavano nel vocabolario. La grammatica potevano rivedersela da soli. Da me avrebbero voluto un commento estetico, storico, filosofico. Un discorso critico che desse una visione d’insieme della tragedia greca e di Sofocle. Non ero in grado di dare tale sinossi siccome mancava anche a me.

“Ditemi voi cosa devo studiare e imparare”, chiesi con la dovuta  umiltà .

La nascita della tragedia di Nietzsche-, risposero-hai fatto studi universitari e puoi capirla; per noi è troppo densa e difficile”

All’università Nietzsche non mi era stato nemmeno nominato, e al liceo  era bandito quale filosofo del nazismo.

Corsi a comprare quell’opera giovanile del  filosofo grecista: mi affascinava,  ma ne capivo poco anche io. Non sapevo come fare. Ero tentato di rinunciare e retrocedere, però, conoscendo invece discretamente Omero, uno dei due soli autori letti all’Università,  ripetei il motto protrettico, esortativo, di Achille a se stesso:  ouj lhvxw”, non cederò e rammentai pure il desiderio che aveva Odisseo di  imparare a ogni costo, anche  a rischio della vita.

Una di quelle prime sere, eravamo nell’ottobre del 1975, andando a letto, tornai a pregare gli eroi e gli dèi della Grecia: “venite a trovarmi, aiutatemi ancora”.

 

Quella notte venne ad aiutarmi Sofocle, poi si aggiunse anche Euripide.

Il poeta di Colono morto già novantenne si presentò mentre dormivo: aveva l’aspetto di un bel vecchio, educato e gentile. Si presentò dicendomi di essere il poeta che dovevo imparare a conoscere e aggiunse che non aveva sbagliato Aristofane a presentarlo come  oJ d j eu[kolo" me;n e[nqavd j, eu[kolo" d j ejkei'", quello di buon carattere qua come là  (Rane, v.82). Buono da vivo e da morto dunque. Perciò non dovevo temerlo . Pensai  che presentando ai giovani un autore bravo e un uomo buono, magari avrei potuto bonificare anche le loro menti, e la mia.

“Spiegami in che cosa consiste la bontà di carattere in  generale, e la tua in particolare”, lo pregai.

Bontà è favorire la vita. Bontà suprema è quella divina- rispose- Oggi nel mondo la bontà scarseggia o latita siccome tramontano gli dèi. Un declino iniziato già ai tempi miei. So che tu dovrai spiegare il mio Edipo re. Ti consiglio di iniziare mettendo in evidenza le quintessenze di questa tragedia attraverso le parole chiave. Fai bene a tradurle letteralmente. Parti da questa denuncia del coro “: “e[rrei de; ta; qei`a” (Edipo re, 910), va in malora il divino.

Il sacrilego Euripide porta la sofistica, il relativismo e il razionalismo sulla scena e corrompe il popolo ateniese come dice bene il personaggio Eschilo nelle Rane di Aristofane. Io mi oppongo con la mia opera al dilagare dell’empietà. Grazie agli dèi il pubblico e i giudici preferiscono me agli altri due. Ho la prospettiva di un popolo colto che mi ascolta e crede in me più che agli esosi, empi sofisti.

Ti faccio un esempio di empietà di due personaggi della tragedia da me confutati. Nell’Edipo re Giocasta bestemmia gli oracoli i cui vati sono profeti della divinità

La bestemmia contro il numinoso che, nelle mie tragedie, come nella Storia di Erodoto, aleggia sulla terra assumendo varie forme, viene proclamata e autorizzata dall’incestuosa regina di Tebe Giocasta che impreca" O vaticini degli dei, dove siete?- w\ qew'n manteuvmata,-i{n j ejstev" (946-947)

Le  fa eco il figlio-marito, il complice Edipo con questa tirata blasfema:" Ahi, perché dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli uccelli/ che schiamazzano in alto? (...) Gli oracoli che c'erano, li ha presi/ Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla"(vv.964- 966 e 971-972).

Versi cruciali  del dramma sono anche questi detti da Edipo in una scena precedente:"arrivato io ejgw; molwvn,/ Edipo, che non sapevo nulla, la feci cessare e[pausav nin/ azzecandoci con l'intelligenza e senza avere imparato nulla dagli uccelli gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp j oijwnw'n maqwvn 396-398-". L’empietà: “ Edipo si vanta di avere sconfitto la Sfinge avvalendosi soltanto della propria intelligenza.

tale affermazione di autonomia della povera mente umana, per me, che sono  tradizionalista e pio, è u{bri", dismisura, prepotenza, cecità intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa(v.877) del castigo e della rovina. Precipitando si azzoppa siccome la tirannide è una potere claudicante.

Il coro nel secondo stasimo reagisce con parole di condanna e conclude:

“Non andrò più all'intangibile/ ombelico della terra a pregare,/ né al tempio di Abae,/ né a Olimpia, /se queste parole indicate a dito/ non andranno bene a tutti i mortali.

Ma, o potente, se davvero è retta la tua fama,/Zeus signore del tutto, non sfugga questo a te/e al tuo potere sempre immortale.

Infatti già estirpano/gli antichi vaticini di Laio consunti/e in nessun luogo Apollo/risplende per gli onori/e tramontano gli dei" (vv. 897--910).

Se parti da questi versi giovane professore apprendista, entri subito nel nucleo della tragedia e lascerai nei ragazzi un’impressione buona, un’impronta di educazione estetica ed etica”.

Hai ragione sono solo un tirocinante ma in fondo ogni uomo buono lo è per tutta la vita, anzi per sempre, quindi lo sei anche tu” gli dissi

Poi feci presente al vecchio poeta e gentiluomo che questa sua religiosità poteva venire tacciata dai giovani di superstizione, addirittura di clericalismo bigotto e reazionario.

Mi rispose che le sue parole stavano sempre dalla parte della vita e se erano retrograde fuggivano proprio da ogni mivasma, contagio mortale come quello portato da Edipo a Tebe.

Quindi mi disse che aveva favorito la vita anche condannando la  guerra, perfino il dio della guerra, Ares, poiché la sia eujsevbeia era sempre stata favorevole alla vita. Tale pietà sarebbe piaciuta senz’altro a ragazze e ragazzi. Dovevo evitare di presentare il Sofocle imbalsamato da certa filologia deretana. Non sapevo ancora nulla del pamphlet Afterphilologie di Erwin Rohde in difesa di Nietzsche  ma Sofocle conosceva quanto era ignoto al semplice apprendista. Avevo molto da imparare.

Lo pregai di segnalarmi i suoi versi di condanna della guerra.

 

Pesaro 13 agosto 2024 ore 17, 53. giovanni ghiselli

p. s.

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