sabato 31 agosto 2024

Annibale antefatto. La prima guerra punica vinta dai Romani. Sicilia e Sardegna diventano le prime province.


 

Comunque, con la sconfitta di Regolo, terminò la prima impresa libica dei Romani (p. 153). Essi sbarcheranno in Africa solo 50 anni dopo: i contadini italici per decenni non se la sentiranno più di combattere in quel paese lontano abitato da fiere e da selvaggi.

La fede di Italioti e Sicilioti nei confronti dei Romani vacillava. 

I nuovi consoli del 255 si impadroniscono di Cossyra (Pantelleria a sud ovest di Agrigento non lontana da Cartagine, a est di capo Ermèo) e vanno a recuperare i resti dell’esercito sconfitto. Le navi romane vinsero in uno scontro a capo Ermèo (capo Bon, est di Cartagine), poi procedettero fino a Clupĕa,  (sud di capo Ermèo) dove i superstiti dell’esercito di Regolo si erano fortificati. L’amor proprio romano si inventò una rivincita possibile: Eutropio (Breviarium ab urbe condita, IV sec.) scrive che allora l’Africa sarebbe stata sottomessa nisi quod tanta fames erat ut diutius exercitus expectare non posset.

Quindi ci fu un naufragio per l’imperizia dei comandanti romani (p. 156). Fu un grave infortunio: secondo Polibio si salvarono solo 80 di 364 navi da guerra (I, 37, 2) e i Romani perdettero la superiorità marittima guadagnata a Milazzo, Ecnomo e capo Ermeo.

Polibio in I, 37 commenta questo disastro (peripevteia). La causa, dice, va attribuita ai duci che erano stati avvisati dai piloti della pericolosità della rotta. Ma essi volevano conquistare alcune città sulla costa esterna della Sicilia.Vediamo un suggerimento correttivo applicato al naufragio che la flotta romana subì nel 255 nei pressi di capo Passero, durante la prima guerra punica.  Delle loro 364 navi solo 80 si salvarono.

Ebbene, gli insuccessi potranno esserci ancora poiché i Romani affrontano ogni cosa con violenza (crwvmenoi biva/, I, 37, 7) e  ritengono che nulla sia per loro impossibile. Da una parte essi hanno successo grazie a un simile slancio (dia; th;n toiauvthn oJrmhvn), ma a volte falliscono in modo evidente, soprattutto nelle imprese sul mare. Dunque i disastri potranno ripetersi finché questi vincitori di uomini non correggeranno tale audacia e violenza e{w~ a[n povte diorqwvswntai toiauvthn tovlman kai; bivan  (I, 37, 10) per cui credono di poter navigare e marciare in qualsiasi stagione.

Infatti è  arduo combattere contro le forze della natura.

Gli storiografi  sono educatori e perfino benefattori del genere umano

Gli insuccessi potranno esserci ancora finché non correggeranno tale audacia e violenza e{w~ a[n povte diorqwvswntai toiauvthn tovlman kai; bivan  (I, 37, 10) per cui credono che ogni circostanza debba essere loro favorevole. Ancora la storia come correzione.

Qui Polibio sembra considerare i Romani “da una certa distanza”.  

Momigliano  tuttavia (Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, p. 40) rimprovera Polibio di non avere tenuto a sufficienza tale distanza dai Romani. Invece seppe tenerla dai barbari, lui e il suo continuatore Posidonio.

Le Storie dopo Polibio  di Posidonio (andavano dal 143 al 70) non sono conservate, ma ve ne è traccia notevole nella benemerita Biblioteca  di Diodoro: e soprattutto nel proemio diodoreo sono sviluppati pensieri che sembrano risalire appunto al proemio posidoniano. Innanzi tutto l'idea stoica della storia universale come proiezione della fratellanza universale che collega in un nesso solidale-come membra di un unico corpo, secondo l'espressione senechiana-tutti gli esseri umani. La storia universale "riconduce ad un'unica compagine gli uomini, divisi tra loro nello spazio e nel tempo, ma partecipi di un'unica reciproca parentela" (Diodoro, I, 1, 3). Oltre che "strumento della provvidenza (uJpourgoi; th'" qeiva" pronoiva") ", perciò gli storici sono anche benefattori del genere umano: e la storiografia-prosegue Diodoro-oltre ad essere profh'ti" th'" ajlhqeiva" è anche "madrepatria della filosofia (mhtrovpoli" th'" filosofiva")" (I, 2, 2).

 

 

Il Senato comunque non si accasciò (p. 156). Fece costruire 220 navi che nell’estate del 254 volteggiavano nelle acque siciliane aggiunte alle 80 scampate al naufragio. Infine attaccarono Panormo, già allora la capitale della Sicilia punica: barutavth povli~ th'~ Karchdonivwn ejparciva~ (Polibio, I, 38, 7), la città di maggior peso nella zona controllata dai Cartaginesi. L’esercito assediante era comandato da Gneo Cornelio Scipione Asǐna. Era caduto prigioniero dei Cartaginesi a Lipari dove aveva perduto 17 navi.  Anche Panormo era divisa tra una Neapoli ed una Paleapoli. Vi abitavano dalle quaranta alle cinquantamila persone (p. 158). Entrambe le parti vennero conquistate dai Romani (254).

 I Cartaginesi non potevano impegnarsi in Sicilia poiché dovevano combattere in Africa Mauri e Nùmidi ribelli (p. 159). Amilcare li sconfisse riaffermando in Africa il dominio cartaginese. In Sicilia ai Punici rimanevano Drepanum, Lilybaeum, Selīnus, le Egadi, le Lipari. Il 254 era stato un anno buono per i Romani.

Nel 253 i Romani fecero degli sbarchi in Africa ma secondo Polibio non realizzarono oujde;n ajxiovlogon. Più che altro corseggiarono nelle Sirti, la minor ( golfo di Gabes, davanti alla Tunisia) e la maior (Golfo di Sirte, davanti alla Libia). Le navi si incagliarono nelle secche della Sirti minore presso l’isola di Gerba, quindi si ritirarono a Panormo (Polibio, I, 39, 5) (p. 161).

 Ma all’altezza di capo Palinuro (sud di Paestum) i Romani perdettero 150 navi per imperizia marinaresca. Allora i Romani riposero ogni speranza nelle forze terrestri. I Cartaginesi mandarono in Sicilia un esercito con elefanti, guidato da Asdrubale. Ma i due eserciti non si affrontavano.

 I Romani erano atterriti dagli elefanti (h\san katavfoboi tou;~ ejlevfanta~, Polibio, I, 39, 12) e schierandosi a battaglia nel territorio di Lilibeo e in quello di Selinunte, non osavano attaccare i Cartaginesi dediovte~ th;n tw'n ejlefavntwn e[fodon (13) temendo l’attacco degli elefanti. Nel 252 i Romani conquistarono solo Terme e Lipari (isole Eolie a nord di Tindari) tenendosi su luoghi montuosi e difficili da attraversare (14). Nel 250 si risolvettero ad affrontare di nuovo il mare per recuperare il predominio navale. Asdrubale attacca Panormo e i Romani lo lasciarono avanzare e devastare fino alla piana della Conca d’oro. Quindi il proconsole Metello riuscì a volgere gli elefanti contro i Cartaginesi bersagliandoli con le frecce. Rimasero sul campo 20 mila uomini e Asdrubale fu messo a morte.

Metello ebbe il trionfo: “centum et viginti captivos elephantos duxit ante currum (Seneca, De brevitate vitae,13). I Romani quindi assediarono Lilibeo (sud di Trapani) aiutati da Ierone II, sempre instancabile nel preparare l’asservimento della patria allo straniero (p. 167).

Nel 249 il console Claudio Pulcro volle attaccare la flotta di Trapani e venne sconfitto. La disfatta viene attribuita alla sua empietà (fece gettare in acqua i polli che non risposero col tripudium ossia gettandosi sul cibo così avidamente che i chicchi saltavano): a quel popolo uso a vincere pareva la sconfitta singolare e prodigiosa (p. 167).

Svetonio ricorda questo episodio nella Vita di Tiberio che discendeva per padre da Tiberio Nerone e per madre da Claudio Pulcro, entrambi figli di Appio Claudio Cieco: Claudius Pulcher apud Siciliam, non pascentibus in auspicando pullis ac per contemptum religionis mari demersis, quasi ut biberent quando esse nollent, proelium navale iniit (2).

 Spesso i Romani spiegavano le sconfitte con errori nella pratica cultuale che avevano turbato la pax deorum.

Nevio che combatté nella IGP e la raccontò nei saturni del Bellum Poenicum scrive di Claudio Pulcro: “Superbiter contemptim contĕrit legiones” (fr. 32 Traglia), con alterigia e disprezzo calpesta le legioni.

 Il console si rifugiò a Lilibeo. Fu l’unica grande sconfitta navale dei Romani. Aderbale, il vincitore, aveva liberato Lilibeo dall’assedio marittimo.   L’odio popolare si sfogò conto i Claudi e la loro superbia. Polibio scrive che Pulcro venne condannato a una grave ammenda e corse seri pericoli (I, 52, 3), p. 170

Pulcro dovette nominare un dittatore al posto suo e designò un suo cliente e scrivano: Glicia sortis ultimae homo (Livio periocha 19). Voleva essere uno schiaffo alla nobiltà come quello di Appio Claudio cieco, suo padre, censore nel 312,  che aveva nominato edile curule lo scrivano Gneo Flavio. Sua sentenza: fabrum esse suae quemque fortunae. Favorì i liberti e nel 280 si oppose alla pace con Pirro. I Claudii volevano andare contro i pregiudizi (Cfr. più avanti Claudia Quinta, poi Clodio e Clodia di Catullo). La nobiltà reagì cassando la nomina e sostituendo Glicia.

 Il popolo non voleva la ricostruzione della flotta per sfiducia nei comandanti (p. 175). I Cartaginesi non ne approfittarono: non facevano sacrifici se non ne vedevano la necessità immediata “bramosi di salvaguadare la loro prosperità” p. 176.

Nel 248 Ierone rinnovò il trattato di alleanza con i Romani rinunciando a una politica autonoma: Siracusa avrebbe avuto gli stessi nemici dei Romani i quali in cambio gli rimisero il tributo annuo.

Il regno di Siracusa era trasformato in “un protettorato romano” (p. 177).

Ierone faceva retto giudizio della proporzione tra la potenza romana e quella punica. Quindi Amilcare Barca (da baraq, lampo), il padre di Annibale, compie sbarchi in Calabria e occupa il monte Pellegrino di Palermo. La guerra però poteva decidersi soltanto per mare (p. 180).

Polibio dice che Romani e Cartaginesi si battevano come due pugili eccellenti dalle forze equilibrate (I, 57). Per costruire una nuova flotta l’erario dovette ricorrere a prestiti di privati: 200 navi e 60 mila marinai. In realtà fu un prestito forzoso, ma i sacrifici dei trierarchi ateniesi alla fine della guerra del Peloponneso furono molto più gravi.

 Dopo cinque anni di combattimenti inconcludenti con Amilcare Barca, nel 242 la flotta salpò al comando di Lutazio Catulo ed entrò nel porto di Trapani. Il 10 marzo del 241 i Cartaginesi vennero sconfitti alle Egadi. Lutazio fece in modo di combattere contro Annone e di evitare l’audacia di Amilcare  (th;n   jAmivlkou tovlman, h|~ oujde;n h\n tovte foberwvtaton, Polibio, I, 60, 8) di cui nulla era allora più temibile . Amilcare chiese la pace. Lutazio volle la Sicilia e i prigionieri. Dopo 23 anni  nel 241 la guerra ebbe termine. Il popolo tuttavia non ratificò il trattato di pace: voleva un nuovo sbarco in Africa per vendicare i legionari di Regolo le cui ossa biancheggiavano nei piani libici (p. 185). Il Senato fece includere le isole comprese tra la Sicilia e l’Italia: Eolie, Lipari, Egadi. Erano morti da 300 a 250 mila cittadini ma la vittoria aveva creato un contenuto nuovo di fede in sé. Un’altra conseguenza negativa era il deperire dell’agricoltura italica per la morte di sani e robusti lavoratori e per l’assenza di quelli tenuti lontani dalle guerre. Attilio Regolo p. e. scriveva da Cartagine che non poteva occuparsi del suo podere: rus quod senatui publice curari dum abesset Regulus placuit (Seneca ad Helv., 12, 5). D’altra parte questi legionari contadini abituandosi a vivere di rapine, invece che dissodando il terreno, si corrompevano moralmente. Intanto la famiglia si indebitava e il soldato quando tornava, doveva vendere la terra. L’oro esatto dal vinto imbelle o carpito al cadavere del nemico veniva consumato nello sperpero (p. 190). Si arricchivano i commercianti che compravano a ribasso dal contadino derrate (prodotti di largo consumo) e terre, e gli usurai che prestavano denaro. Gli appalti delle forniture militari arricchivano chi aveva capitali da rischiare. Il capitalismo progrediva e la classe agricola si proletarizzava. Spariva la robusta classe dei contadini italici dalla quale si reclutavano gli eserciti romani. In Italia la terra dei socii era esente dal tributo ritenuto segno di sudditanza. Però si esigeva un tributo di sangue non discaro a popolazioni prodi e ricompensato dal bottino delle vittorie. Non  vollero i Siciliani nell’esercito romano, a parte i Mamertini che dovettero contribuire con una bireme. La Sicilia doveva mandare la decima dei prodotti agricoli: 300 mila medimni di frumento che faceva scendere il prezzo del frumento italico. Inoltre molti proprietari terrieri siciliani dovevano pagare un fitto (locatio ; loco= do in affitto) allo Stato. Su altri terreni lo Stato ebbe la scriptura (imposta sul pascolo). A Panormo e Lilibeo vennero imposti portoria, dazi portuali, tassa di circolazione.

In Sicilia e Sardegna si mandarono due pretori forniti di imperio. Erano assistiti per l’amministrazione da un questore. In seguito si affermerà la consuetudine di mandare proconsoli e propretori, ossia consoli e pretori che avessero concluso il loro mandato.

Vennero chiamate province secondo Festo (III sec. d. C. fece un riassunto del De verborum significatu di Verrio Flacco, dell’età di Augusto) quod populus Romanus eas provicit idest ante vicit, ma è un’etimologia infondata.

Provincia in origine era il campo di competenza di un magistrato, da ora diviene il paese fuori dall’Italia sottoposto a un comando. Era un comando forte poiché esercitato senza il freno della collegialità e perché riuniva in una sola persona l’impero civile e quello militare. Inoltre era libero dalla intercessione (intercessio, opposizione, veto, con coercitio, punizione) tribunizia e dalla provocazione (provocatio, unicum praesidium libertatis, ossia il diritto di appello al popolo) le due guarentigie maggiori che si avevano in Roma contro gli abusi dei magistrati.

Quella del proconsole era un’autorità illimitata, dannosa per i sottoposti e corruttrice per quelli che la esercitavano. Il grano proveniente dalle province costituì un danno per l’agricoltura italica. Le società dei pubblicani che appaltavano scriptura e portorium, acquistando potere, danneggiavano la classe agricola (p. 196).

Locatio= appalto= contratto con il quale una parte assume, dietro un compenso in denaro, l’onere  di un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio.

 

Momnsen: il governo cartaginese era debole e rilassato: non si muoveva se non c’era un lucro immediato  o non era costretto da necessità estrema. Amilcare Barca, dato che non c’era amor di patria, seppe ispirare amore per la propria persona. Nelle navi servivano molti Greci poiché il contadino italico era nemico dell’acqua. Catone diceva di essere pentito per essere andato in barca in vita sua quando poteva andare a piedi.

 

Pesaro 31 agosto 2024 ore 10, 40 giovanni ghiselli

 

p. s.

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