giovedì 29 agosto 2024

La settimana bianca a Moena Quarta parte.


Argomenti del capitolo . Il caffé senza zucchero alla Malga Panna. La telefonata del rabberciamento. Le sciate precipitose del Laurino. Le due gommebucate. Il gioco delle bocce. La passeggiata lungo il rio San

Pellegrino. Il fortino austriaco negli anni Cinquanta. Il secondo

Tramonto osservato dal tinello  della casa di via Damiano Chiesa. La zia Giulia, con graitudine

 

Chiesi venti gettoni e un caffé all'enorme ragazza addetta alla

mescita della Malga Panna. Mi domandò come potessi bere quel

liquido amaro senza addolcirlo. "Perché mi piace assai signorina, e

non voglio alterarne il sapore", risposi, e pensai che pure la mia

compagna, se mi piaceva davvero, dovevo sorbirla com'era.

Poi aggiunsi:"Provi anche lei. Dopo un paio di volte si accorgerà

che senza zucchero è buono". Da quando la vidi la prima volta, ho

sperato di educare quella fanciulla ciclopica inducendola a

dimagrire. Mi fece un sorriso mesto e scosse la testa. Non so se

volesse negare la gradevolezza del caffé amaro, o mettere in

dubbio che sarebbe dimagrita bevendolo senza addolcirlo.

Mi mossi per telefonare. Rispose Ifigenia. Dissi:"Ciao, sono

gianni, come stai? Se vieni qua volentieri, mi fai piacere".

"Sei sicuro?  te lo chiedo perché tu lì in mezzo ai monti diventi

strano".

"Sì è vero, ma devi capire: qui passo tutto il tempo da solo, e a

lungo andare sto male. Venendo, mi porterai un grande conforto".

"Va bene. Arrivo domani sera alla stazione di Trento alle nove e

diciotto. Parto dopo una lezione di Giommi all'Antoniano", disse,

poi tacque. Allora io, ostentando entusiasmo, feci:" Ho tanta

voglia di vederti, averti vicina, abbracciarti!". Speravo che

rispondesse:"Anche io". Invece disse: "D'accordo: alle 21 e 18.

Ciao".


 

 

 

Tornai all’albergo La Campagnola che ero depresso. Avevo fatto un grosso sbaglio

aggredendola per le sue amiche considerate complici di   intrighi dannosi.

"D'altra parte-pensavo- non sono del tutto cretino né tanto portato

a commettere errori: quando voglio, li evito. Se non lo faccio,

significa che intendo utilizzarli per correggere o cancellare una

situazione malsana. Domani vedremo".

Dopo questo pensiero mi

riconciliai con me stesso e mi

addormentai.

La mattina del sei marzo andai a sciare sulle piste del Laurino. Salivo con un

bidone, adagio, tra le gelide ombre di un bosco, poi scendevo a

precipizio per un pendio scosceso e poco innevato. La pista, ripida

al pari di un

tetto aguzzo, è sovrastata dalla Roda di Vael, una

roccia sottile e appuntita come una guglia. Più volte mi buttai giù

per la dirupata discesa invocando Ifigenia: se vacillavo perché

mi aiutasse a non cadere, se scendevo veloce, perché mi infondesse

la forza e il coraggio di continuare. Sul mezzogiorno, quando il

sole sembrò sbaragliare le nubi con le quali lottava dalla mattina,

mi fermai  sotto la rupe, tanto affilata e luminosa da sembrare una

spada. Volevo abbronzarmi mentre mangiavo un panino. Presto

però la  calda luce fu soverchiata dal vento e dalle nuvole; allora

mi mossi per tornare a Moena. Mentre entravo in paese, forai uno

pneumatico dell'automobile che dovetti lasciare a un gommista

poiché era bucata anche la ruota di scorta. Aspettando che la

Volkswagen avesse le gomme aggiustate, andai al bar Maria per

vedere il gioco delle bocce, come facevo spesso quando ero

bambino. Vidi e riconobbi alcune persone di trent'anni prima.

Erano invecchiati, ma recitavano la stessa parte, dicendo parole e

facendo gesti simili a quelli di allora. Dopo avere lanciato, o

lasciato cadere di mano la boccia, la seguivano, la sgridavano, la

incoraggiavano, come si fa con una creatura. Notevole tra tutti era

Micelotto che gridava e si agitava in una farsa seguita dal pubblico

con grande piacere. "L'è bela, l'è bela", diceva spesso della propria

giocata, consapevole e soddisfatto di essere bravo.

Lo osservavo con attenzione e simpatia. "Quanti anni può avere?"

mi chiesi. "Allora era un ragazzo. Adesso una cinquantina. Però

gli piace sempre farsi guardare". Bocciava e recitava bene del

resto. La sua parte migliore nel mondo doveva essere quella: fare

vedere e sentire come sia bello giocare alle bocce. Certo è meglio

 

 

 

che giocare con le persone. Ciascuno di noi, quando fa

qualche cosa con passione e attitudine, dopo molto esercizio sa

farla bene e vuole darlo a vedere. Micelotto accarezzava ognuna di

quelle sue creature rotonde, la faceva uscire dalla mano, e la seguiva

incoraggiandola come un padre amoroso: se gli sembrava corta,

accennava il gesto di  spingerla; se lunga, di  trattenerla e

dissuaderla dal proseguire. Era un attore anche lui. Aveva un

repertorio limitato ma lo eseguiva con amore e con arte. Quando

piazzava un tiro ottimo, e gli riusciva spesso, lo ricompensavano

gli applausi del pubblico e un sorso di vino.

" Caro, simpatico Micelotto, mi piacevi quando ero un bambino e

tu un giovane uomo, quasi un ragazzo ancora, un pò rincagnato a

dire il vero, ma dallo sguardo vivace, e mi piaci adesso, dopo che

sono passati trent'anni intorno a noi, come le nuvole sopra la valle

di Fassa”.

Tornai dal gommista: l'automobile non era pronta.

Per far passare il tempo necessario, mi incamminai verso

 Someda, sopra il rio San Pellegrino. Dall'altra parte del torrente

che scorre nel fondo della convalle stretta come una gola, c'è “La

Campagnola”

e la strada del passo San Pellegrino che porta a Belluno. Da

bambino, appena la zia Giulia mi dava il permesso, camminavo per di

là, in direzione del valico. Prima passavo davanti a una cisterna

d'acqua che rumoreggiava. Fantasticavo che fosse un deposito di

armi degli Austriaci, i nemici della mia

patria, come mi

insegnavano i maestri dell’epoca posfascista , invece di parlarmi di Mozart, di

Musil, di Freud, o almeno dell'ottima amministrazione asburgica

nel Lombardo-Veneto. Giravo con un ramo in mano,

impugnandolo come un fucile, che tuttavia non bastava per

conquistare l'armeria sorvegliata da una decina di quegli odiosi

soldati in divisa bianca; allora pensavo di farla saltare con delle

mine. Ma poi ci ripensavo, poiché ammazzare in maniera così

vigliacca, sebbene coloro fossero tanto crudeli, mi ripugnava.

Allora proseguivo finché vedevo la fortezza nemica sorgere sulla

strada di fronte. Decidevo di minarla mentre era sguarnita del

presidio, uscito per vessare il paese italiano.

Però dovevo superare il vuoto compreso tra le due pareti della

stretta convalle. Scendevo a precipizio per un burrone ripido e

tetro, tutto ombreggiato da fitti rami di abeti. Arrivato in fondo,

 

 

 

guadavo il torrente saltando sui sassi emergenti dall'acqua gelida e

cupa nel pomeriggio inoltrato di fine agosto, quindi risalivo su per

l'altro pendio, altrettanto scosceso ma soleggiato poiché volto a

occidente e privo di alberi. Però c'era l'erba alta, dove potevano

stare nascosti in agguato serpenti e scorpioni. Tutto questo mi

faceva paura, mi emozionava, salvandomi dalla noia della gran

solitudine, mi spronava a ribellarmi alle zie che mi volevano

 sottomesso a qualsiasi forma di autorità.

Quando arrivavo in alto, osservavo la valle di Fassa. Facevo

attenzione all'ombra del Sas da Ciamp che sovrasta la malga

Panna: appena aveva oscurato il prato di Sorte e la chiesa con il

cimitero, dovevo tornare di corsa, poiché la zia voleva vedermi

prima del tramonto, sennò telefonava al soccorso alpino che

rintracciava i bambini dispersi-diceva- e li salvava dalla morte per freddo

o per lupi, ma li picchiava anche, e con mano pesante. Ero stato

avvertito. Andavo comunque di fretta fino al fortino austriaco per

farlo saltare in aria e liberare intanto i Moenesi.

Quando lo vidi da vicino la prima volta, rimasi deluso: invece di

mitragliatrici e cannoni, nel prato antistante c'erano pacifici arnesi

da contadino, tanto sterco di mucca, e un cartello con la scritta

"Proprietà privata ". Ad ogni buon conto io lo minavo e fuggivo a

gambe levate finché la strada era piana. Poi ripercorrevo le due

pareti della

convalle:

una scivolando sull'erba, l'altra

inerpicandomi tra

le ombre del bosco e della sera,

non senza paura.

Quando arrivavo alla Campagnola, la zia Giulia diceva:

"Dove sei stato per conciarti in quella maniera? Quando ti metterai

tranquillo come i bambini normali? Oramai le vacanze sono finite!

Non sei ancora sazio di correre, scalmanarti, azzardare? Non sei

mai stato prudente!". Non aveva avuto figlioli e vedeva in me la sua discendenza umana e professionale. Quando insegnavo nel Veneto mi pagava l’affitto, poi mi comprò la casa a Bologna. Dovevo dedicarmi tutto alla scuola come aveva fatto lei. Credo di non averla delusa: aveva investito su di me senza sbagliare. Ma torniamo ai miei dieci anni.

Per fortuna la zia non aspettava che rispondessi, ma continuava a

rimproverarmi per un pezzo; sicché non dovevo dirle la verità, né

una bugia. Quando si era placata, tornavamo a casa, in via

Damiano Chiesa 11. In agosto, alle sette di sera, dalle finestre del

tinello, se non c'erano nuvole, si vedeva ancora un poco di luce

solare sulle rocce più alte. Era fredda e leggera, come se vi  fosse

stata dipinta, o cosparsa, quale polvere rosa. Più a lungo che

altrove resisteva sulla cima del Sassolungo, in fondo al Catinaccio.

 

 

 

Osservare gli ultimi raggi raccolti dalle vette infreddolite, era

come fruire di un secondo tramonto.

La luce trascolorante tardava a scomparire tutta, e mentre

assumeva le tonalità più delicate, sembrava intenerire le aspre

pietraie dove i palpiti estremi del dì indugiavano come bambini

che non vogliono andare a dormire, o come vecchi renitenti a

morire.

Tali ricordi rimuginavo il 16 marzo del 1981 mentre camminavo

sopra il rio San Pellegrino, dalla parte illuminata.

 

Pesaro 29 agosto 2024 ore 11, 56 giovanni ghiselli

 

p. s.

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