mercoledì 28 agosto 2024

Annibale V parte.

La religione cartaginese. I sacrifici umani veri o attribuiti dalla propaganda nemica. La prima guerra punica fino alla sconfitta di Attilio Regolo.

 

La religione

Nella religione ci sono gli stessi nomi che nelle altre religioni semitiche: El (Dio); Adon (signore); Ba’al (padrone);  Melek (re). Melqart era “il re della città” assimilato “al dio solare greco Eracle, onde il mito greco aveva trasformato l’eterno viaggio dall’orto all’occaso in un’avventurosa peregrinazione tra i barbari popoli occidentali” (p. 68).

Amilcare significa servo di Melqart (Abdl-Melqart.

Poi c’era Esmun, il dio della morte e resurrezione, come Attis: “un dio della natura dunque, che ne ripete nelle sue vicende la morte apparente o la sterilità invernale non meno dell’apparente risurrezione nel rigoglio della primavera; venerato soprattutto come datore di salute ai mortali, e però identificato costantemente col greco Asclepio, da lui per altri aspetti sì disforme” (p. 70).

 

La dea Tanit (assimilabile alla fenicia Astarte) entrò in Roma con il nome di Caelestis: il suo culto licenzioso scandalizzava Agostino vecchio: “c’erano spettacoli licenziosi e sacrileghi in onore della Grande Madre, virgo Caelestis o Berecinzia. Cantavano cose indecenti, non solo per la madre degli dèi, ma anche di uno dei senatori e persino per la madre degli istrioni (De civitate Dei [1], 2, 4).

E più avanti con l’adnominatio Carthago-sartago : “Veni Carthaginem, et circumstrepebat me undique sartāgo flagitiosorum amorum” (3, 1), andai a Cartagine e mi assordava da ogni parte la padella degli amori scandalosi. Cfr. Eliot, The waste land: “To Carthage then I came” (v. 307).

adnominatio  in greco è paronomasiva.

 

 Tanit costituiva una coppia ierogamica con Ba’al Hammon, la prima divinità maschile a Cartagine.

Hanno in comune con gli altri semiti l’isolamento etnico e la solidarietà di stirpe. L’isolamento etnico è la debolezza e la maledizione dei Semiti. “La debolezza: perché la separazione netta tra dominatori e dominati contribuì gagliardamente con la politica sfruttatrice a far  sì che nelle stesse regioni in cui fu incontrastato il suo predominio, in Spagna, in Sardegna, in Africa, Cartagine non riuscisse se non a preparare alleati ai suoi avversari per il giorno della invasione: quanto diversamente da Roma; la quale seppe far sì che dopo poche generazioni i nepoti di Vercingetorige si sentissero non meno Romani dei nepoti di Cesare” ( Gaetano  de Sanctis p. 63).

I Cartaginesi non conobbero “né le audacie della critica che insorge contro le tradizioni…né il bisogno di dare alla religione avita un contenuto nuovo” (p. 72).

 

I sacrifici umani

Lo stesso rito repugnante del sacrificio umano rimase in vigore in Cartagine fin nel IV secolo”. Mentre Agatocle, tiranno di Siracusa, era in Africa (310-307) “fu fatta un’immane ecatombe espiatoria di fanciulli, cinquecento si dice, tra cui duecento delle famiglie più ragguardevoli, deponendoli l’un dopo l’altro, per farli precipitare tra le fiamme, sulle braccia protese della statua colossale d’un nume assetato di sangue che i Greci chiamavano Crono (Diodoro[2], Biblioteca storica,  XX, 14).

Agatocle prese il potere a Siracusa nel 316. Portò la guerra in Africa nel 310. Tornò nel 307. Sottomise tutta la Sicilia tranne Agrigento. Morì nel 289.

Machiavelli: “Agatocle siciliano, non solo di privata fortuna, ma di infima et abietta, divenne re di Siracusa. Costui, nato d’uno figulo[3], tenne sempre…vita scellerata: non di manco, accompagnò le sue scelleratezze con tanta virtù d’animo e di corpo che, voltosi alla milizia, per li gradi di quella, pervenne ad esser pretore di Siracusa” (8). Si accordò con Amilcare “il quale con gli eserciti militava in Sicilia, raunò una mattina el populo et il senato di Siracusa…et ad un cenno ordinato fece da’ sua soldati uccidere tutti li senatori e li più ricchi del populo”. Assalito dai Cartaginesi…assaltò l’Affrica, et in breve tempo liberò Siracusa dallo assedio, e condusse Cartaginesi in estrema necessità: e furono necessitati accordarsi con quello, esser contenti della possessione di Affrica et ad Agatocle lasciare la Sicilia….Non di manco, la sua efferata crudelità et inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia infra gli eccellentissimi celebrato”.

La virtù d’animo e di corpo è capacità senza morale tipica di Machiavelli.

 

 I sacrifici umani attribuiti ai Cartaginesi

Tertulliano nell’Apologeticum (197 d. C.) scrive: “infantes penes Africam Saturno immolabantur palam usque ad proconsulatum Tiberii” (9). Poi questo costume cadde in disuso: “Gli è che l’influsso irresistibile della civiltà greca aveva addolcito a grado a grado i costumi” (p. 73). E’ l’antica pratica semitica dell’uccisione del primogenito per il riscatto della stirpe (cfr. Abramo e Isacco in Genesi, 22).

 

La perfidia e l’infamia dei sacrifici umani verrà attribuita dai cristiani agli Ebrei: “Per i cristiani gli ebrei sono stati tradizionalmente i “perfidi”…”Caeca et obdurata Judaeorum perfidia”, così comincia una bolla di papa Clemente VIII del 1593. La perfidia è colpa più grave della “durities” ebraica, cioè della resistenza a convertirsi…In questo contesto segnato da una profonda ostilità cristiana l’accusa dell’infanticidio rituale trovò il terreno adatto…quanto alla realtà, il sangue che gli ebrei furono accusati di spargere dai corpi dei bambini cristiani, fu cavato agli ebrei, almeno da quelli che non trovarono nell’acqua del battesimo una protezione sufficiente”[4]. Prosperi ricorda “un celebre dipinto di Paolo Uccello conservato a Urbino” (1469), il Miracolo dell’ostia profanata dove appare una famiglia di ebrei arsi sul rogo per avere profanato un’ostia.  

 Curzio Rufo[5]   un giudizio negativo sui sacrifici umani della madre patria di Cartagine, quando racconta che i Tirii, assediati da Alessandro Magno nel 332 a. C.,  pensarono di ripristinare questo uso desueto: “ sacrum quoque, quod equidem dis minime cordi esse crediderim…ut ingenuus puer Saturno immolaretur”, addirittura un atto sacrificale, del quale io sono propenso a credere che non possa essere per niente gradito agli dèi… cioè di sacrificare a Saturno un fanciullo nato libero.

Un sacrilegium, verius quam sacrum (Historiae Alexandri Magni, 4, 3, 23) più che un sacrificio,  di cui si dice che venne praticato dai Cartaginesi usque ad excidium urbis suae  fino alla distruzione della città, avvenuta nel 146 a. C. Se non si fossero opposti gli anziani di Tiro “humanitatem dira superstitio vicisset”, una terribile superstizione avrebbe vinto il senso di umanità. 

Paolo Rumiz in un articolo del quotidiano “la Repubblica”[6] riporta l’opinione di Piero Bartoloni “governatore ombra di Sulkì” ( nome fenicio e cartaginese di San Antioco, a ovest di capo Teulada, in Sardegna).  Nega i sacrifici dei bambini: “Saliamo verso il “Tofet” , il cimitero dei bambini. In posti così i Cartaginesi seppellivano i loro morti prematuri, dolcemente, in pentole da cucina in terracotta, con accanto giocattoli e piccoli doni. Il mondo punico è disseminato di queste necropoli infantili, riservate a chi non aveva passato ancora il rito dell’iniziazione. Ebbene, su questi teneri monumenti alla pietà s’è consumato uno dei più sporchi imbrogli della storiografia. I cartaginesi, si disse, sacrificavano i loro primogeniti, li sgozzavano da bambini, e li gettavano nel fuoco per ingraziarsi il dio Molok…La damnatio memoriae dei Romani  contro il “perfido” Annibale e la sua gente, la diffidenza latina contro i levantini “imbroglioni” , il pregiudizio cattolico contro i pagani. Perfino l’accusa dei sacrifici rituali di bambini, mossa contro gli ebrei, e poi trasferita pari pari sui loro cugini naviganti. “Era, ovviamente, una balla colossale. Non ci volle molto a capirlo. Allora la mortalità era altissima, sette bambini su dieci morivano nel primo anno di vita; se avessero sacrificato i sopravvissuti, l’intero popolo fenicio si sarebbe estinto”.

Diverso è il parere di Piergiorgio Odifreddi: “In ogni caso dal Levitico [7] risulta chiaramente che il culto prevedeva sacrifici non solo animali, ma anche umani:

Quanto uno avrà consacrato al Signore con voto di sterminio, fra le cose che gli appartengono: persona, animale o pezzo di terra del suo patrimonio, non potrà essere né venduto né riscattato; ogni cosa votata allo sterminio è cosa santissima, riservata al Signore. Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte[8].

In Salambò di Flaubert Amilcare vuole sottrarre il bambino al sacrificio umano per Moloch.

I mercenari stanno assediando Cartagine e “Uomini vestiti di nero si presentarono nelle case.. arrivavano i servitori di Moloch e prendevano i bambini…”Barca! Veniamo per la cosa che sai…tuo figlio!”

Amilcare lega Annibale, lo imbavaglia e lo nasconde sotto il letto della sorella e ordina a un servo di sostituirlo con il figliolo di uno schiavo: “Ascolta bene!” disse “vai a prendere fra gli schiavi un maschietto fra gli otto e i nove anni con i capelli neri e la fronte bombata! Portalo qui! Sbrigati!” (pp. 225-226).

Dopo avere consegnato il falso Annibale a tre uomini vestiti di nero, e avere simulato disperazione, “Amilcare, tornato infine da Salambò, sciolse i lacci di Annibale. Il bambino, esasperato, gli morse a sangue una mano. Egli lo allontanò con una carezza. Salambò cercò di spaventarlo raccontandogli di Lamia, un’orchessa di Cirene, perché stesse buono. “E dov’è?” chiese il bambino.  Gli raccontarono che sarebbero venuti i briganti per metterlo in prigione. Lui ribatté: “Vengano pure. Io li ucciderò!”. Amilcare gli disse allora la tremenda verità. Ma lui si infuriò contro il padre, sostenendo che poteva annientare tutto il popolo, dato che era lui il padrone di Cartagine. Alla fine, sfinito dalla tensione e dalla collera, cadde in un sonno agitato. Parlava in sogno…mentre il piccolo braccio restava teso in un gesto imperioso” (p. 228). Amilcare poi porta Annibale addormentato in un luogo sicuro:    il bambino si svegliò davanti alla statua di Alete, nel sotterraneo delle pietre preziose. Sorrideva-come l’altro-in braccio al padre, nel chiarore che li attorniava…Nessuno, adesso, poteva vederlo; non c’era più niente da temere; allora si sfogò. Come una madre che ritrovi il primogenito perduto, si gettò sul figlio; se lo stringeva al petto, rideva e piangeva insieme, se lo chiamava con i più dolci nomi, lo copriva di baci. Il piccolo Annibale, spaventato da quell’affetto travolgente, ora taceva” (pp. 228-229).

Sacrifici umani in Salambò.

Le braccia di bronzo (della statua di Moloch) si muovevano più veloci. Non si fermavano più. Ogni volta che vi posavano un bambino , i sacerdoti di Moloch stendevano su di lui una mano per gravarlo delle colpe del popolo, gridando: “Non sono esseri umani , ma buoi!” e la folla intorno ripeteva : “Buoi! Buoi!” I devoti gridavano: “Signore! Mangia!”…Le vittime scomparivano di colpo appena sull’orlo dell’apertura come una goccia d’acqua su una piastra rovente, e una fumata bianca saliva nella gran luce scarlatta” (p. 235).

Cfr. Ifigenia in Tauride di Euripide: Ifigenia biasima l’uso dei sacrifici umani.

Se qualcuno dei mortali tocca con le mani del sangue o anche un parto (loceiva~) o un morto, la dea Artemide lo tiene lontano dagli altari, ritenendolo contaminato (musarovn, 383), aujth; de; qusivai~ h{detai brotoktovnoi~  ma lei gode dei sacrifici che uccidono gli uomini (384).

Non è possibile che Leto, la compagna di Zeus abbia partorito tanta stupidità (tosauvthn ajmaqivan, 387).

Giudico non credibili (a[pista krivnw) anche i conviti di Tantalo[9] agli dèi, che questi abbiano goduto del pasto del figlio, e ritengo che la gente di qui, essendo loro assassini di uomini, attribuiscano alla dea la loro malvagità (to; fau`lon, 390).

Infatti credo che nessuno tra i numi sia cattivo ( oujdevna ga;r oi\mai daimovnwn ei\nai kakovn, 392).

Cfr. Pindaro: "è naturale per l'uomo dire degli dèi cose belle, minore è la colpa" meivwn ga;r aijtiva, leggiamo nell'Olimpica I , vv. 35-36).

 Quindi nell’ Olimpica IX afferma “diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38).

 Le montagne della sapienza vera, essendo scoscese (sofivai menv-aijpeinaiv, 107-108), comprendono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle.

 


 

Pure in guerra i Cartaginesi erano spietati, o almeno avevano fama di spietatezza, anche se, invero, “Annibale si dimostrò in massima più umano e generoso de’ suoi avversari, e più, può dirsi, di quasi tutti i generali antichi di qualsiasi nazione”[10] .

Un’arte cartaginese secondo G. De Sanctis non ci fu: “troppo ai mercanti punici difettò sempre arditezza e ingenuità di ispirazione. Non difettò peraltro un certo senso del bello, per cui si compiacquero delle opere d’arte greche acquistate o predate” (p. 75). Anche la letteratura, della quale Latini e Greci non fanno menzione, doveva essere rozza e non originale “vivacchiante soprattutto di traduzioni o d’imitazioni greche…Tanta sterilità d’arte e di pensiero, tanta, può dirsi, viltà spirituale nella vita teoretica, accompagnata com’era a un’ardita e generosa solerzia nella vita pratica, non noceva alla prosperità economica” (p. 76). Cartagine divenne la più ricca e popolosa città dell’Occidente. “Ma quando cadde Cartagine perì con essa tutta l’anima cartaginese: non sopravvisse come sopravvive in noi, eterna, l’anima di Atene e di Roma” (p. 80) .

 

T. Mommsen, Storia di Roma (1854-1856). Trad. it Dall’Oglio, Milano.

Ai Cartaginesi mancava “l’istinto della vita politica” (vol. III, p. 10). La mancanza del sentimento politico con il viziosissimo amore di stirpe, caratterizzava i Fenici. A Cartagine prevaleva l’economia del denaro su quella del suolo. Le due deficienze fondamentali: un esercito nazionale e una salda simmachia.

 

G. De Sanctis cap. II. La conquista della supremazia marittima.

Pirro (278-75) aveva cercato di “ridurre l’isola ad unità politica” (p. 89). Invano. I Greci non erano mai riusciti a cacciare i Fenici dalla Sicilia. Agrigento, Finziade e Camarina si sottrassero all’egemonia siracusana alleandosi con i Cartaginesi.

 

“La boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell’identico stato d’intrico aromatico nel quale la avevano trovata i Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest’America dell’antichità” (Il Gattopardo, p. 69)…Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘là’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso” (p. 121).

 

Intanto i Mamertini, malfattori campani stabilitisi a Messina molestavano i Cartaginesi e i Siracusani (Polibio, 1, 8, 1). Nel 275 i Siracusani diedero il potere a Gerone II.

Teocrito nel XVI idillio   JIevrwn h]  Cavrite~ diede espressione al sentimento nazionale greco: i Fenici tremano a occidente, gli abitatori dell’estremo lembo della Libia, mentre Ierone si arma, ed è uguale agli antichi eroi (protevroi~ i[so~ hJrwvessi, v. 80) ed augura la fuga dalla Sicilia degli invasori stranieri. E’ un canto di questua: Teocrito sollecita protezione.

 “Ierone Siracusano..di privato diventò principe di Siracusa: né ancora lui ebbe altro dalla fortuna che la occasione…E fu di tanta virtù…Costui spense la milizia vecchia, ordinò della nuova…e come ebbe amicizie e soldati che fussino sua, possé in su tale fondamento edificare ogni edificio” ( Machiavelli, Il principe, 6)

Gerone iniziò la lotta contro i Mamertini. Riuscì a sconfiggere questi malandrini italici che infestavano la Sicilia con le loro scelleratezze. Nel 265 li sconfisse a Milazzo e li chiuse dentro Messina.

 

I Siracusani proclamarono Gerone re, e i Mamertini chiamarono in aiuto i Cartaginesi che mandarono un presidio guidato da Annone.

Però poi i Mamertini, per paura dei Cartaginesi, chiamarono i Romani. Significava partecipare al bottino delle loro imprese sempre vittoriose . Questi avevano scrupoli morali ad allearsi con una massa di banditi pieni di malafede e di slealtà, ma temevano che i Cartaginesi facessero della Sicilia un ponte di passaggio per l’Italia.

Siamo nel 264: la guerra era inevitabile data la diversità di culture. Non era possibile la coesistenza che c’era in Oriente tra Egitto, Siria e Macedonia. Il console Appio mosse verso Messina. I Cartaginesi provarono a minacciare dicendo che i Romani non avrebbero più potuto lavarsi le mani nel mare. I Romani risposero che, come sempre, avrebbero imparato dai nemici. Nel 264 Appio Claudio prende Messina. Il comandante del presidio, Annone, fu crocifisso: l’oligarchia dei mercanti era durissima con i militari. A Cartagine non c’era un ceto medio che combatteva per la libertà ma un governo di capitalisti che guardava con diffidenza ai militari.

Cfr. Il conte di Carmagnola del Manzoni.

I comandanti romani erano di classe senatoriale e avevano l’appoggio del senato; i comandanti cartaginesi avevano sempre ragione di temere l’oligarchia dei mercanti, qualunque via seguissero.

Mi viene in mente il padre di Desdemona nell’Otello di Shakespeare..

 Dopo che i Romani furono entrati in Messina (264) i Siracusani e i Cartaginesi, sbigottiti, si allearono e assediarono la città sullo stretto. Appio li sconfisse e attaccò i Siracusani. I Romani avevano vigore e chiarezza di propositi e sapevano trarre profitto da tutte le situazioni e dalle debolezze dei nemici. Roma li colpisce e li divide. I Romani odiavano i Greci per un sentimento di inferiorità culturale. Giovenale: “non possum ferre Quirites,/Graecam urbem-quamvis quota portio faecis Achaei? (3, 60-61). “Natio comoeda est. Rides: maiore cachinno/concutitur; flet , si lacrimas conspexit amici,/nec dolet…si dixeris ‘aestuo’, sudat (100 ss.).

 I Siracusani non avevano l’energia del 413 e cedettero ai Romani. Ierone si alleò con loro contro i Cartaginesi: aveva capito che avevano maggiori probabilità di vittoria (Polibio, I, 16).

Ora comincia la lotta per Agrigento che cadde nel 262: i Romani fecero schiavi 25 mila persone.

Polibio afferma che Agrigento si distingue diafevrei da gran parte delle altre città kata; th;n ojcurovthta, kai; mavlista kata; to; kavllo~ kai; th;n kataskeuhvn (9, 27, 1), per la forza e soprattutto per la bellezza del sito e degli edifici.

I Cartaginesi conservavano il Nord ovest  e confidavano nella loro superiorità marittima. Le ciurme della flotta romana furono formate in massima parte con i socii navales.

 Polibio scrive che prima i Romani usarono le navi di Napoletani, Locresi e Tarantini, poi catturarono una nave cartaginese e la usarono come modello per costruire tutta la flotta (1, 20, 15).

 Imparavano dal nemico. Le ciurme venivano allenate sulla terra ferma (1, 21). Costruirono 100 quinqueremi e 20 triremi. Lo scontro avvenne a Mylae nel 260 sotto il comando di Caio Duilio: “You who were with me in the ships at Milae!” (T. S. Eliot, The waste land, v. 70: l’eterno presente della storia).

I Romani avevano munito le proprie navi di corvi per artigliare le navi nemiche e favorire l’arrembaggio. I Cartaginesi vennero battuti poiché affrontarono la battaglia katafronou'nte~ th'~ ajpeiriva~ tw'n   JRwmaivwn (1, 23) disprezzando l’inesperienza dei Romani che trasformarono la battaglia navale in un combattimento di fanteria. Caio Duilio celebrò il primo trionfo navale della storia romana ed ebbe dedicata una colonna ornata con i rostri delle navi catturate: “columna rostrata quae est Duilio in foro posita” (Quintiliano, 1, 7, 12) dove si trova la scrittura arcaica con la lettera d adiectam ultimam.

Duilio ebbe l’onore di essere accompagnato a casa per tutta la vita da un flautista (tibīcen) e da un tedoforo. I Romani avevano capito il metodo, e, siccome miravano allo scopo, si diedero a potenziare la flotta. La lotta in Sicilia non era finita, ma l’anno seguente (259) L. Cornelio Scipione, nonno dell’Africano, si spinse in Corsica e in Sardegna per abituare i contadini italici alle spedizioni transmarine prefigurando quello sbarco in Africa che avrebbe concluso la lotta. In Corsica Scipione  conquistò Aleria senza difficoltà, poi mosse contro Olbia, fortezza punica sulla costa settentrionale della Sardegna. Ma non concluse l’assedio per l’arrivo di Annibale, il vinto di Milazzo, non il Nostro chiaramente. Comunque Scipione, ebbe un trionfo a buon mercato e dedicò un tempio alle tempeste che non lo avevano sommerso con le navi (p. 129).

Nel 257 i Romani abbandonarono la Sardegna e ripresero la guerra in Sicilia con Attilio Regolo che ottenne un successo a Tyndaris (ovest di Messina) e il trionfo. Vengono costruite due flotte poderose: Polibio parla di 330 navi romane e 350 cartaginesi. I Romani vollero tentare lo sforzo supremo per acquistare la supremazia marittima. Nel 256 ci fu uno scontro di 700 navi a capo Ecnomo (tra Agrigento e Gela) Vi parteciparono non meno di 100 mila uomini.

Il comandante vittorioso era M. Attilio Regolo In 4 anni i Romani erano diventati padroni del mare. I Cartaginesi non potevano sfruttare più di così sudditi libici e alleati libiofenici, né  la città poteva sopravvivere alla perdita dei mercati.

Polibio (I, 63) commenta il successo  dei Romani nella IGP affermando che vinsero non per fortuna ma per la capacità di attuare i disegni concepiti e di trovare i mezzi corrispondenti ai fini. I Romani avevano tenacia e non si lasciavano disanimare dai disastri (p. 142). Nel 255 Attilio Regolo sconfigge i Cartaginesi in Africa (Adys) e conquista Tunisi (I, 30) che offriva una buona base per attaccare Cartagine. Quindi offrì la pace a condizioni che disgustarono i Cartaginesi per la loro durezza. Regolo pensava di essere sul punto di conquistare la città che veniva attaccata anche dai Numidi. Il console temeva inoltre che il collega che gli sarebbe succeduto si sarebbe preso l’onore dell’impresa se lui non si fosse affrettato (I, 31). I Cartaginesi non potevano cedere Panormo e Lilibeo.

Fu chiamato un comandante mercenario greco, Santippo spartano, uomo abituato alla dura disciplina di Sparta, e fece schierare l’esercito in luoghi piani con gli elefanti i quali schiacciarono i Romani (255). La cavalleria punica fece il resto.

Secondo Valerio Massimo, Santippo fu fatto annegare durante il viaggio di ritorno dalla bieca ingratitudine dei Cartaginesi. Polibio invece racconta che, dopo la vittoria, Santippo partì con decisione intelligente poiché le azioni illustri suscitano invidie e calunnie (I, 36). Polibio riflette sulla sconfitta di Regolo che morirà a Cartagine. Intanto apparve chiaramente che   si deve diffidare della sorte, soprattutto in caso di successo: kai; ga;r to; diapistei'n th/' tuvch/ kai; mavlista kata; ta;~ eujpragiva~ ((I, 35).

Una considerazione che farà Annibale, parlando con Scipione prima di Zama.

Attilio non aveva concesso pietà né indulgenza e non ne ottenne. Ha ragione Euripide scrivendo “e{n sofo;n bouvleuma ta;~ polla;~ cei'ra~ nika'/” (Antiope, fr. 223 Nauck).

Polibio afferma che ha voluto fornire il favore di una correzione ai lettori (cavrindiorqwvsew~). Infatti ci sono due modi di cambiamento in meglio per tutti gli uomini: duei'n ga;r o[ntwn trovpwn pa'sin ajnqrwvpoi~ th'~ ejpi; to; bevltion metaqevsew~ (I, 35, 7): attraverso le sventure proprie (dia; tw'n ijdivwn sumptwmavtwn) e attraverso quelle altrui (kai; tou' dia; tw'n ajllotrivwn): ebbene il mutamento attraverso le proprie disgrazie risulta  più evidente: “ ejnargevsteron  me;n ei\nai sumbavinei to;n dia; tw'n oijkeivwn peripeteiw'n”;  quello attraverso i rovesci altrui meno dannoso: “ajblabevsteron  de; to;n dia; tw'n ajllotrivwn”.

Polibio[11] nel Proemio delle sue Storie afferma che per gli uomini non c'è nessuna correzione (diovrqwsi") più disponibile che la conoscenza dei fatti passati (th'" tw'n progegenhmevnwn pravxewn ejpisthvmh" , 1, 1).

Pesaro 28 agosto 2024 ore 19, 06 giovanni ghiselli

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[1] In 22 libri composti fra il 413 e il 426 d. C.

[2] Forse è tempo di chiarire chi sia Diodoro Siculo già più volte nominato: nato in Sicilia e vissuto a lungo a Roma, fu autore di una storia universale, composta tra il 60 e il 30 a. C., intitolata Biblioteca ,che in 40 libri comprendeva la storia dalle origini del mondo a Giulio Cesare avvalendosi di autori precedenti tra i quali Timeo, Eforo e Polibio. Di questa compilazione ci sono arrivati i primi cinque libri e frammenti degli altri.

[3] Giustino patre figulo natus (Storie filippiche, 22), un vasaio.

[4] Adriano Prosperi, “Il Sole-24 ore” Domenica 9 settembre 2007, p. 43.

[5] Autore del I sec. d. C. Sotto il regno di Claudio scrisse Historiae Alexandri Magni in dieci libri. Ne sono andati perduti i primi due.

[6] 30 luglio 2007, p. 27

[7] XXVII, 28-29.

[8] P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) , p. 39.

[9] Cfr. Pindaro, Olimpica I, 35-53.

[10] G. De Sanctis , Storia dei Romani, vol III parte prima, p. 73.

[11] 200 ca-118 ca a. C.  Scrisse Storie che trattavano il periodo compreso tra il 264 e il 146 a. C.  Ci sono arrivati i primi 5 integrali; degli altri possediamo epitomi e frammenti, anche consistenti (in particolare quelli dei libri VI-XVIII).

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