domenica 4 agosto 2024

L’incendio di Persepoli voluto da Alessandro ubriaco aizzato dalla puttana Taide et ipsa temulenta.


 

 Quindi  Al entra nella regione degli Ussi il cui satrapo era Medates, haud sane temporum homo (5, 3, 4), uomo non di quei tempi, non opportunista. Inattuale dunque.

Voleva infatti provarle tutte per mantenere la fedeltà: “ultima pro fide experiri decreverat”.

Alessandro lo sconfisse, e Sisisgambi lo salvò con la sua intercessione poiché il vincitore ascoltava la regina: “A victore Darēo plura mater non impetrasset” (5, 3, 15), se a vincere fosse stato dario, la madre non avrebbe ottenuto di più.

Olimpiade aveva abituato il figlio a dare retta alla madre.

 

 Al. trova difficoltà nel passare le porte di Susa, a sud est della città,, un passo per giungere a Persepoli . Arriano le chiama porte persiane (3, 18, 2).

 I Macedoni, bersagliati dall’alto venivano massacrati ferarum ritu, veluti in fovĕa deprehensi (5, 3, 19) come belve prese in una fossa.

Tunc haesitabat deprehensa felicitas (22), la buona stella, messa alle strette, vacillava. Al. dovette tornare indietro da quelle gole. Poi per superstizione si diede a consultare gli indovini (5, 4, 1).

Al. sentiva il dovere solenne di seppellire i suoi morti: non c’era per tradizione un rito altrettanto solenne: “tam solemne munus quam humandi suos” (3).

Anche questa è un’attitudine eroica e tragica (cfr. l’ Antigone e Odisseo nell’Aiace di Sofocle. Teseo nelle Supplici di Euripide),

Al. ancora una volta coglie al volo l'occasione che "è calva di dietro"[1].

 Viene guidato attraverso un passaggio da un prigioniero, che era stato pastore. L’uomo era di origine licia e ad Al. tornò in mente una profezia oracolare: che un Lycius (5, 4, 11) l’avrebbe guidato in Persia (cfr. Plutarco, 37 Luvkio" e[stai kaqhgemwvn). I soldati sprofondavano in buche di neve. La salvezza del re e dei suoi in effetti dipendeva da quel prigioniero licio (5 4 19). La notte fu terrificante , poi tandem expectata lux omnia quae terribiliora nox fecerat, minuit (5, 4, 26) la sospirata luce porta salvezza.

 

Cfr. Titan dubius dell’Oedipus (v. 1). "La luce è la più rallegrante delle cose: è divenuta simbolo di tutto ciò ch'è buono e salutare. In tutte le religioni indica la eterna salvezza, mentre l'oscurità indica dannazione"[2]. Ovidio mette in rilievo che durante l'epoca del Caos l'aria mancava di luce e le cose non avevano aspetto stabile:"lucis egens aër: nulli sua forma manebat " (I, v. 17). Anche qui c'è il motivo della confusione.

 

 Al. trovò della resistenza da parte dei Persiani: “ignaviam quoque-necessitas acuit; et saepe desperatio-spei causa est” (5, 4, 31), spesso la necessità stimola anche l’ignavia e la disperazione è causa di speranza. Ancora la forza della necessitas e l’ossimoro antinomico.

Al. era rapido: “nullam virtutem regis iustius magis quam celeritatem laudaverim” (5, 5, 3).

Forse sentiva di avere poco tempo, come Achille  piè veloce (povda~ wjkuv~, Iliade, 1, 58).

Plutarco ci dice perché Al. non partecipò a quelle olimpiche sebbene fosse podwvkh~ (Vita, 4, 10) e amasse le gare.

 

Pindaro dice che  “ la gloria/di Pelope da lontano brilla negli stadi degli agoni/Olimpici dove gareggia velocità di piedi/e vertici ardimentosi di forza;/e il vincitore per il resto della vita/ha una dolce serenità” (Olimpica I, vv. 93-98)

 

Alessandro dunque ai cortigiani che gli domandavano se volesse correre nello stadio di Olimpia rispose: "ei[ gebasilei'~ e[mellon e{xein ajntagwnistav~ (4, 10),  sì, se dovessi avere come avversari altri re.

 

Pindaro, celebrando la vittoria di Ferenico, il cavallo di Gerone di Siracusa, alle Olimpiadi del 476 , sentenzia: chi è grande in un campo chi in un altro: ma/la cima più alta si solleva/ per i re ( Olimpica I , vv.vv. 112-114)

 

 

 

I prigionieri Greci malconci, torturati dai Persiani.

Captivi Graeci

 Al. Attraversò il fiume persiano Arasse e gli vennero incontro 4000 captivi Graeci malconci:“miserabile agmeninvisitata simulacra non homines videbantur”, sembravano fantasmi mai visti. “nec quicquam in illis praeter vocem poterat agnosci” (5, 5, 7).

Curzio indulge al patetico. Ci sono pianti vari, quindi parla Euctemon Cymaeus: dice che loro sono tanto malridotti da fare schifo: “nemo fideliter dilĭgit quem fastīdit” (5, 5, 12) nessuno ama sinceramente uno per cui prova ripugnanza; nam et calamitas querula est et superba felicitasquid mirum est fortunatos semper parem quaerere? Insomma similes cum similibus. Dunque cerchiamo un luogo dove nasconderci: “Obsĕcro vos, olim vitā defuncti, quaeramus locum in quo haec semēsa obruāmus , (13) poter seppellire queste membra rosicchiate. I figli lasciati in Grecia non riconosceranno questi ergastuli detrimenta (5, 5), danneggiati avanzi di galera.

 

 L’ateniese Teeteto aveva altro parere[3]: nessun pio valuterà i suoi cari dall’aspetto del corpo, soprattutto se menomati non per natura ma dalla crudeltà del nemico: “neminem pium-habitu corporis-suos aestimaturum, utĭque saevitiā hostis, non naturā calamitosos” (5, 5, 17). E’ degno di ogni male chi si vergogna delle disgrazie accidentali: “dignum esse omni malo qui erubesceret fortuīto;  tristem enim de mortalitate ferre sententiam et desperare misericordiam, quia ipse alteri denegaturus sit. (17), meritava ogni male chi si vergognava delle disgrazie accidentali; infatti dava un giudizio di squallore sulla natura umana e non sperava nella pietà poiché egli stesso l’avrebbe negata ad altri. Torniamo in patria: “alium domi esse coeli haustum, alium lucis aspectum” (5, 5, 19), diverso è il respiro del cielo, diversa la visione della luce. Niente è più caro della patria.

 

Ma la maggioranza era con Eutèmone. Ceteros consuetudo, naturā potentior, vicit (5, 5, 21), le abitudini acquisite, più forti della natura, li vinse. Sicché rimasero là.  Al. poi li gratificò con 3000 denari.

 

Diodoro afferma che questi disgraziati erano dei Greci che in passato i re di Persia aveva deportato dalla loro terra. Essi andarono incontro ad Al. con rami da supplici. Molti di loro erano vecchi e tutti mutilati alle estremità, chi alle mani, chi ai piedi, chi alle orecchie, chi al naso (17, 69).

Giustino racconta che questi mutilati preferirono restare in Persia per non arrecare ai genitori non tanto la gioia quanto la detestazione visibile della loro sconciatura  (XI, 14, 12).

 

Il sacco di Persepoli (primavera 330, a sud est di Susa) avviene con furor  e scempio di statue e di vite umane: “Neque avaritia solum sed etiam crudelitas in capta urbe grassata est” (5, 6, 6)  si scatenò non solo l’avidità  ma anche la crudeltà.

Segue un’incursione in zone innevate della Perside (fine inverno 331). Particolarmente selvaggia e bellicosa la popolazione dei Mardi che scavano grotte nelle montagne:  perfino le donne sono bellicose; “comae promĭnent hirtae, vestis super genua est, fundā vinciunt frontem: hoc et ornamentum capitis et telum est” (5, 6, 18), le chiome si spargono incolte, la veste sopra le ginocchia, con una fionda cingono la fronte, ornamento del capo e arma.  Sed hanc quoque gentem  idem fortunae impetus domuit (19). 

Al. sciupò le sue qualità che erano: “in subeundis periculis costantiam” la determinazione nell’affrontare i pericoli, in rebus moliendis efficiendisque velocitatem, la rapidità nel progettare ed eseguire le imprese, in deditos fidem, la lealtà verso chi si era arreso, in captivos clementiam, la clemenza verso i prigionieri, la temperantia nei piaceri permessi e abituali.

Egli rovinò tutto questo con l’intollerabile passione del vino: “haud tolerabili vini cupiditate” (Curzio Rufo 5, 7, 1). Passava giorni interi in banchetti con puttane. Tra queste Taide di cui Plutarco ci dice che fu amante (eJtaivra) di Tolomeo il futuro re (Vita, 38, 2).

Quindi il sacerdote delfico afferma che i Macedoni furono lieti di incendiare la reggia di Persepoli poiché secondo loro significava che pimpravnai ta; basivleia fosse l’azione di chi non voleva restare tra i barbari ma tornare a casa (38, 7).

Il contrario che bruciare le navi.

 L’incendio della reggia e poi della città di Persepoli  avvenne dietro istigazione di Taide la puttana ubriaca pure lei: et ipsa temulenta (5, 7, 2).

Ella disse che Al. si sarebbe assicurato la riconoscenza dei Greci.  Tuttavia “Pudebat Macedonas tam praeclaram urbem a commissabundo rege deletam esse” (5, 7, 10). Da un re crapulone. Al. stesso se ne pentì.

Diodoro racconta che l’etera guidava l’impresa. Fu lei la prima a scagliare la fiaccola. E fu Taide, di origine ateniese, a vendicare per scherzo l’empietà del gesto di Serse, il Gran Re dei Persiani, contro l’acropoli degli Ateniesi (17, 72). Taide era una delle paelices adsuetae vivere cum armato con la truppa licentius quam decebat.

 

Quindi Al si mise a inseguire Dario che ormai era arrivato a Ecbatana, capitale della Media. Aveva con sé 30 mila soldati tra i quali 4 mila greci che gli rimasero fedeli fino all’ultimo (5, 8, 3).

 

Cfr. viceversa la malafede dei Greci. Lisandro  concluse la guerra del Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti stimavano che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento, e raccomandava sempre:" o{pou ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6). La perfidia plus quam punica[4] di Annibale e quella italica di Machiavelli hanno avuto dei maestri negli Elleni.

 

Nel XVIII capitolo di Il Principe Machiavelli ricorda  "come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi". E ne deduce:"Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et uno mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è durabile. Sendo dunque uno principe necessitato sapere usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere".

 

 

 

Dario parla elogiando la fides e la constantia dei soldati rimastigli (5, 8, 9) e  definisce se stesso documentum, la prova quam versabilis fortuna sit, (5, 8, 15) di quanto sia mutevole la fortuna che potrà cambiare ancora. La Fortuna è la protagonista di questa storia romanzata.

 

Pesaro 4 agosto 2024 ore 11, 50 giovanni ghiselli

 

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[1] C. Marlowe, L'ebreo di Malta, V, 2.

[2]A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione , p. 274.

[3] Che in Diodoro non c’è.

[4] Tito Livio, XXI, 4.

 

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