venerdì 2 agosto 2024

Alessandro a Gaugamela.


 

Poi c’è la marcia verso Gaugamela  (ottobre 331) dove  Dario con un milione di fanti e 40 mila cavalieri aspetta  Al. La regione era piatta. Parmenione voleva attaccare di notte ma Al. rispose che era turpe rubare la vittoria e che lui doveva vincere fanerw`~ kai; a[neu sofivsmato~ (3, 10, 2) alla luce del sole e senza sotterfugi.

 

L’eroe vuole apparire schietto, come Achille.

Platone, Socrate e Leopardi

 Nell'Ippia minore  il sofista eponimo del dialogo sostiene che mentre Achille è veritiero e semplice ("ajlhqhvv" te kai; aJplou'"", 365b) invece Odisseo è "poluvtropov" te kai; yeudhv"", versatile e menzognero.

Sono i luoghi comuni della letterarura successiva a Omero: l'Achille dell'Ifigenia in Aulide  di Euripide p. e. dichiara di avere imparato da Chirone ad avere i costumi semplici ("tou;" trovpou" aJplou'" e[cein", v. 927).

 

 Ippia del dialogo platonico ricava questa distinzione tra i due capi achei dal IX libro dell'Iliade  il canto dell’ambascerio dove Fenice Aiace e Odisseo vanno da Achille che, irato, non combatteva ma faceva l'aedo, ossia cantava glorie di eroi accompagnandosi con la cetra ( "fovrmiggi..a[eide kleva ajndrw'n", vv.186 e189).

Dopo l'accoglienza cordiale, il cibo e la bevanda, Odisseo parlò ("Aiace-nota Jaeger-personifica piuttosto l'azione, Odisseo la parola"[1]) scongiurando Achille di tornare in battaglia e promettendogli donne, mari e monti da parte di Agamennone. Ebbene Achille risponde che gli è odioso come le porte dell'Ade chi una cosa tiene nascosta e un'altra ne dice ( "Jv o{" c j e{teron me;n keuvqh/ ejni; fresivn, a[llo de; ei[ph/", v. 313).

Ippia  sostiene che non a caso Omero fa indirizzare queste parole a Odisseo.

 

Socrate risponde opponendosi a  questa opinione comune della schiettezza di Achille e affermando che il Pelide mente non meno di Odisseo, poiché ha detto all’Itacese che sarebbe partito, e invece ad Aiace che non si sarebbe mosso fino all’arrivo di Ettore davanti alla sua tenda.

Ippia sostiene che Achille non mente di proposito

  Socrate invece afferma che Achille ha mentito deliberatamente a Odisseo per superarlo anche nell’arte del raggiro e aggiunge che coloro i quali danneggiano, gli altri, e commettono ingiustizia e mentono e ingannano ed errano volontariamente (eJkovnte~) sono migliori di quelli che lo fanno involontariamente (a[konte~)

 Infatti chi fa del male volontariamente, se vuole fa del bene, chi lo fa involontariamente non sa fare altro. E’ molto peggio zoppicare per necessità che per gioco ossia avendo deciso di farlo. Chi fa del male senza volere può continuare a farlo.

 

Socrate nei dialoghi platonici dà sempre scacco matto ai sofisti.

Infatti Leopardi lo considera il più sofista di tutti.

E “Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de' fuchi e d'ogni ornamento ascitizio e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).

 

 

Arriano commenta finemente: qui non c’è solo l’orgoglio di Alessandro ma egli fece uso anche di un calcolo preciso: “kai; logismw`/ ajkribei` ejcrhvsato”. La notte infatti gli sembrava sfalerav, ingannevole e sfavorevole, a chi si è preparato  bene, poiché vi capitano molti fatti imprevedibili polla; ejk tou` paralovgou xumbavnta (3, 10, 3).

Il paralogo, in senso negativo, può ricevere incremento dal buio.

 

Nella battaglia al centro dello schieramento persiano c’era Dario con i mhlofovroi, guardie reali e i mercenari greci opposti alla falange macedone wJ~ movnoi dh; ajntivrropoi (7), come gli unici capaci di controbilanciarla. Al. aveva 7000 cavalieri e 40 mila fanti. Dario fuggì quando il Macedone con i suoi si scagliò sul centro persiano h{ te favlagx hJ Makedonikh; puknh; kai; tai`~ sarivssai~ pefrikui`a (3, 14, 3) la falange macedone fitta e irta di sarisse. Dario fuggì verso la Media pensando che A. sarebbe sceso in Babilonia, e non si ingannò.

 

Curzio

Al. volle riempire la “sua” città, Alessandria d’Egitto, facendovi trasferire genti vicine (4, 8, 5). I Samaritani in Palestina bruciarono vivo Andromaco che Al. aveva lasciato a governare la Siria 4, 8, 9.

Sistemate altre faccende Alessandro consacrò un cratere d’oro e trenta pàtere a Ercole Tirio, poi diede l’ordine di marciare verso l’Eufrate 4, 8, 16.

 

Prima di Gaugamela (331)

  Intanto Dario concentra le milizie delle regioni più lontane dell’impero in Mesopotamia, a Babilonia, 4, 9, 2.

C’erano Battriani, Sciti, Indiani.  

Dario fece preparare duecento falcatae quadrigae, carri armati di falci (IV, 9, 4) ingens, ut crediderat, hostium terror. Dario giunse ad Arbela vicum ignobilem nobilem sua clade facturus (4, 9, 9). Oggi si chiama Arbil ed è la capitale del Kurdistan iraqeno. Era una equitabilis et vasta planities (4, 9, 10).

 Al. attraversa il Tigri che in persiano significa sagitta (4, 9, 16) e prende il nome dalla sua forte corrente. Ci furono difficoltà nell’attraversamento del fiume: “ Deleri potuit exercitus, si quis vincere ausus esset, ma la perpetua fortuna regis avertit inde hostem” (4, 9, 22) la costante fortuna del re distolse il nemico dall’attaccarlo. Così al Granico.

 

La superstitio.

Passato il Tigri, Al. si fermò due giorni. La luna deficiens prima fere vigilia (tra le 18  e le 21)  poi sanguinis colore suffuso, lumen omne foedavit  versatosi un colore di sangue, rese sconcia tutta la luce e provocò formido tra le truppe (4, 10, 2 ).

Dis invitis in ultimas terras trahi se querebantur ( 4, 10, 3).  I soldati si lamentavano anche molto realisticamente e razionalmente invero: “in unius hominis iactationem tot milium sanguinem impendi” (4, 10, 3) per la vanagloria di un solo uomo si spendeva il sangue di tante migliaia.

Uno che rinnegava il padre, la patria e caelum vanis cogitationibus petere, mirava al cielo con vane fantasie.

Cfr. di nuovo Ode I 3[2] di Orazio :"nil mortalibus ardui est;/caelum ipsum petimus stultitiā".

 

  Al. allora senza scomporsi, ad omnia interritus (4, 10, 4) poiché l’eroe non ha paura,  chiamò  i vati egiziani i quali pur conoscendo le vere cause dell’eclissi, dissero che questa era un brutto segno per i Persiani. Dunque :" Nulla res multitudinem efficacius regit quam superstitio: aliōqui impotens, saeva, mutabilis, ubi vana religione capta est, melius vatibus quam ducibus suis paret "(Historiae Alexandri Magni , IV, 10, 7), nessuna cosa meglio della superstizione governa la moltitudine: altrimenti sfrenata, crudele, volubile, quando è afferrata da una vana religione, obbedisce più facilmente agli indovini che ai suoi capi.

 

Cfr. Crizia, Polibio e Machiavelli.

La religio come instrumentum regni

Polibio sostiene che la deisidaimoniva (6, 56, 7), la superstizione, se altrove può essere oggetto di biasimo, a Roma tiene insieme lo Stato:" kaiv moi dokei' to; para; toi'" a[lloi" ajnqrwvpoi" ojneidizovmenon tou'to sunevcein ta;    JRwmaivwn pravgmata”.

 

Del resto “Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri…Io chiamo Stato il luogo dove si trovano tutti i bevitori di veleno, buoni e cattivi”[3]. 

 

E' la ragione già svelata da Crizia, sofista e tiranno sanguinario, (460-403 a. C.).

 Il dramma satiresco Sisifo  contiene la teoria razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un'invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi poiché le leggi non bastano a inceppare i malvagi quando agiscono di nascosto:"mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio ("ti dei'ma") anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente ("lavqra/")[4].

 

 Seneca  nelle Naturales quaestiones (opera della vecchiaia) ribadisce questo concetto:"ad coercendos imperitorum animos sapientissimi viri iudicaverunt inevitabilem metum ut aliquid supra nos timeremus. Utile erat, in tanta audacia scelerum, esse aliquid adversus quod nemo sibi satis potens videretur " (II, 42, 3), per tenere a freno gli animi degli ignoranti degli uomini sapientissimi giudicarono inevitabile la paura perché temessimo qualche cosa sopra di noi. Era utile in così grande audacia di delitti che ci fosse qualche cosa contro la quale nessuno si credesse abbastanza potente.

 

Nella Tebaide di Stazio (45 ca-96 d. C.) Anfiarao annuncia cattivi presagi e Capaneo, il bestemmiatore, replica:"quid inertiă pectora terres?/primus in orbe deos fecit timor " (III, 660-661), perché terrorizzi i petti senza energia? per prima la paura impose gli dèi al mondo.

 

Un argomento che in epoca moderna  viene ripreso da Machiavelli. Il capitolo undicesimo del primo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio  (1517) verte sulla religione dei Romani: tra questi il re Numa "trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa del tutto necessaria a volere mantenere una civiltà e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare (...)

E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, ad animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata o a Romolo o a Numa credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione con difficultà si può introdurre quella...E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate". Quindi Machiavelli tra i legislatori che "ricorrono a Dio"  nomina  Licurgo e Solone. Infine tira le somme:"Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse.

Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".

 

Dunque i responsi degli Egiziani, fatti circolare (edita in vulgus, 4, 10, 7) risollevarono gli animi.  

C'è  un metodo  nella follia della superstizione se considerata dalla prospettiva di chi la diffonde.

 

 La truppa si convinse e Al. pensò di approfittare del loro entusiasmo e mosse il campo. Mille sbandati persiani furono presi per un esercito: “ubi explorari vera non possunt, falsa per metum augentur” (4, 10, 10). Quando non si può verificare il reale, il timore ingrandisce il falso. Ecco un’altra funzione, questa negativa, del metus.

Parmenione sconsigliò Alessandro di leggere una proposta di Dario ai soldati greci: avrebbero potuto uccidere Al. per denaro: nihil nefas esse avaritiae. (4, 10, 17). Il nefas, la legge naturale e divina, cede al denaro anche in gente superstiziosa. Al. si fidava dei Greci ma diede retta a Parmenione.

 Statira, la moglie di Dario muore (4, 10, 19) e Al. che l’aveva rispettata, la piange.

 Dario all’eunuco che portava la brutta notizia disse: “ cave miseri hominis auribus parcas: didici esse infelix, et saepe calamitatis solacium est nosse sortem suam” (4, 10, 26), non risparmiare le orecchie di un pover’uomo. Dario comincia a configurarsi come “l’eroe del dolore”.

 

Il destino può essere presofferto .

Il doloroso grido "io ho presofferto tutto" sarà ricorrente nella letteratura europea: nell'Eneide   il pio eroe risponde così alla Sibilla che gli ha preconizzato disgrazie:"non ulla laborum,/o virgo, nova mi facies inopinăve surgit;/omnia praecepi atque animo mecum ante peregi "(VI, 103-105), nessun aspetto delle fatiche, vergine, mi si presenta nuovo o inaspettato: io ho presofferto tutto e ho compiuto in anticipo dentro di me con la mente.

Anche il Tiresia di T. S: Eliot ha presofferto tutto :"and I Tiresias have foresuffered all ", ed io Tiresia ho presofferto tutto (The waste land , v. 243).

 

Dario prima provò gelosia, poi, convinto che Al. l’aveva rispettata, pregò gli dèi di non dare all’Asia, se lui stesso perdeva, altro re “quam iste tam iustus hostis, tam misericors victor” (4, 10, 34). E’ la guerra cavalleresca.

 Dario, victus continentiā  hostis (4, 11, 1), vinto dalla moderazione del nemico, per la terza volta gli offre la pace, molto denaro, la figlia in sposa e di nuovo l’impero fino all’Eufrate. Parmenione  consiglia di accettare, ma Alessandro cui ingrata oratio fuit risponde: “Et ego pecuniam quam gloriam mallem, si Parmenio essem” (4, 11, 14).  Io sono Al. e non mi preoccupo della povertà de paupertate securus sum  : “et me non mercatorem memini esse, sed regem”.  

 

Mercante è un’offesa.

Odisseo si offende quando Eurialo, il più bello dei Feaci dopo il principe Laodamante, lo aggredisce dicendo che non gli sembra un uomo capace nelle gare, ma un mercante attento ai guadagni rapaci[5].  I Medici di Firenze considerati solo banchieri, mercanti e gente gottosa, dagli altri signori italiani, nobili come i Visconti, o guerrieri come gli Sforza e Federico da Montefeltro, Federico urbinate, si sorzarobo con Lorenzo di promuovere la cultura a Firenze e riuscirono a insediare sul trono papale  un figlio di Lorenzo e uno di Giuliano.    

 

 Nihil quidem habeo venale, sed fortunam meam utĭque non vendo, non ho niente da vendere e in ogni caso non vendo il mio destino (4, 11, 15).

 

L’onore- la timhv- è il compenso più alto che l’eroe si aspetta in cambio dell' ajrethv dimostrata obbedendo agli obblighi del suo rango e della sua identità, impegnativi fino al sacrificio: nell’Iliade Achille si rifiuta di combattere quando constata che l'uomo codardo e il valoroso sono tenuti nello stesso onore:" ejn de; ijh'/ timh'/ hjme;n kako;" hjde; kai; ejsqlov""[6]. La meritocrazia è stata negata da Agamennone.

Sua madre infatti implora Zeus di onorargli il figlio:"tivmhsovn moi uiJovn"[7], onora mio figlio-prega-, poiché è di vita più breve degli altri, e il signore di genti Agamennone lo disonorò ("hjtivmhsen"[8]) : gli ha preso il suo dono e lo tiene.

 L'Aiace di Sofocle si uccide poiché non sopporta di vivere a[timo" ( Aiace, v. 427 e v. 440), senza onore.

Ho menzionato più volte l’Iliade anche perché era il libro più amato da Al. : la riteneva th'~ polemikh'~ ajreth'~ ejfovdion, (Plutarco, Vita di Alessamdro, 8, 2). un viatico di virtù bellica, e la teneva con il pugnale sotto il cuscino, come ricorda Onesicrito (FGr  H134 F38).

 

 

Dopo la presa di Gaza, quando gli fu portata una cassetta considerata un pezzo pregiatissimo appartenuto a Dario, Al.  disse che vi avrebbe messo una cosa preziosissima, ossia l’Iliade. In effetti sembra che Omero gli sia stato compagno di spedizione non ozioso né inutile. In Egitto gli apparve in sogno Omero che menzionando Faro con due versi dell’Odissea (4, 354-355) lo indusse a fondare Alessandria adattandola a quel luogo. Disse che Omero era meraviglioso e anche sofwvtato~ ajrcitevktwn (Vita, 26, 7). 

Ma in questo percorso vanno ricordati  anche i tragici, soprattutto Euripide, in rapporto ad Al.: infatti Plutarco seguita raccontando che quando il conquistatore dell’Oriente si trovava nelle regioni interne dell’Asia, si fece mandare i libri di storia di Filisto[9], i ditirambi di Telesto e Filosseno e parecchie fra le tragedie (tragw/diw'n sugcnav~) di Euripide, di Sofocle e di Eschilo (8, 3). 

 

Giustino gli fa dire che il mondo non poteva essere guidato da due soli, né la terra accogliere due supremi regni (XI, 12, 15).

 

Dimensione eroica, e “che cosa è aristocratico”.

Se volessi restituire i prigionieri, lo farei gratis. Agli ambasciatori dice: se rispetto i prigionieri non è per amicizia verso Dario: “Bellum cum captivis et feminis gerere non soleo: armatus sit oportet quem oderim” (4, 11, 17). Dario poi non è iustus hostis ma percussor veneficus  (4, 11, 18) un sicario avvelenatore. La figlia che mi offre in moglie, avrebbe dovuto sposare Mazeo, uno dei suoi servi.

 

Gaugamela, il cammello  e la gratitudine.

Plutarco afferma che il toponimo Gaugamela significa oi\ko~ kamhvlou , casa del cammello, poiché Dario I era sfuggito a dei nemici a dorso di un cammello che poi aveva lasciato lì assegnando per il suo mantenimento la rendita di alcuni villaggi (Vita, 31, 7). Per gratitudine

 

Infatti nella Ciropedia di Senofonte  leggiamo che un motivo serio di punizione e disonore per i Persiani è l'ingratitudine (ajcaristiva):"kai; o}n a]n gnw'si dunavmenon me;n cavrin ajpodidovnai, mh; ajpodidovnta dev, kolavzousi kai; tou'ton ijscurw'". Oi[ontai ga;r tou;" ajcarivstou" kai; peri; qeou;"  a]n mavlista ajmelw'" e[cein kai; peri; goneva" kai; patrivda kai; fivlou""(I, 2, 7), e quello di cui sanno che potendo contraccambiare un favore, non lo contraccambia, lo puniscono severamente. Credono infatti che gli ingrati trascurino completamente gli dei, i genitori, la patria e gli amici. "Come cosa caratteristica dei Persiani-osserva Jaeger-  Senofonte rileva che l'ingratitudine è severamente punita in questo tribunale, in quanto essa appare come origine dell'impudenza e pertanto di ogni malvagità"[10]. 

 

Battaglia di Gaugamela ottobre 331.

 

Schieramento dell’immenso esercito persiano. Dario preferiva combattere in campo aperto in patentibus campis (4, 12, 5). Era un esercito enorme e variopinto e i Macedoni si presero paura. Il fulgore del cielo era internĭtens  scintillante, tempore estivo [11] (4, 12, 14).

Dava l’immagine di un fuoco, come se le fiamme brillassero dal campo di Dario. Se Mazeo avesse attaccato in quel momento avrebbe vinto. Al. fece riposare l’esercito. Tandem, compŏtes sui, pariter arma et animos recepēre (4, 12, 17), finalmente, padroni di sé, recuperarono le armi e il coraggio.  

Parmenione e Poliperconte consigliano un attacco notturno anche perché i Macedoni non vedessero le terrificanti sembianze degli Sciti e dei Battriani, grandi, grossi e pieni di capelli e peli, ma Al. lo considera latruncolorum et furum sollertiaquippe illorum votum unicum est fallere (4, 13, 8), un’astuzia da ladruncoli e da ladri il cui unico desiderio è ingannare : malo me fortunae paeniteat, quam victoriae pudeat (4, 13, 9) preferisco rammaricarmi della mia fortuna che vergognarmi della vittoria. L’uomo valente è leale e non inganna.  Però Al. era inquieto e stentò ad addormentarsi. Finalmente cadde in un sonno profondo gravatum animi anxietate, corpus altior somnus oppressit (4, 13, 17). La mattina non si svegliava e Parmenione dovette scuoterlo: “Ubi est vigor ille animi tui? Nempe excitare vigiles soles” (4, 13, 21) di solito invero sei tu ad allertare le sentinelle. Al. ora è calmo: Dario, accettando la battaglia, votum meum implevit (4, 13, 24).

 

Discorso di Alessandro.

Di solito Al. non indossava la corazza ma quel giorno se la mise. Aveva nel volto impavido l’aspettativa della vittoria. Lo schiamazzo dei due eserciti impediva l’udito ma Al. cercava di farsi vedere e arringò i più vicini. Ricordava i successi. Hoc unum superesse discrīmen (4, 14, 1), rimaneva solo questa prova.  Questi popoli sono ignobili per il fatto stesso che sono sconosciuti: numquam ignorari viros fortes  (4, 14, 4), i valorosi non restano mai sconosciuti. Quello persiano è un agmen inconditum (4, 14, 5) una moltitudine disordinata, disomogenea.

 

La lotta dell’ordine contro il caos è il tema di tutta la cultura greca arcaica e classica: non solo di quella letteraria, ma pure dell'arte figurativa: le sculture del maestro di Olimpia con la lotta tra Centauri e Lapiti del frontone occidentale del tempio di Zeus;

 le metope  del Partenone con centauromachia, amazzonomachia, gigantomachia, ora in gran parte nel British Museum  di Londra;

la gigantomachia del fregio dell'altare di Pergamo[12] che ora si trova a Berlino, esprimono la stessa idea . Infatti "non esiste…una vita nobile ed elevata senza la conoscenza dei diavoli e dei demoni e senza la continua battaglia contro di essi"[13], contro "giganti e titani, miticamente, gli eterni nemici della cultura"[14].

“Ciò che trionfò sull’Oriente fu, in ultima analisi, non già il Greco, ma la civiltà ellenica…Gli elementi di questa civiltà- o, più esattamente, ciò che portava di essenziale alla vita individuale e collettiva-erano il razionalismo e l’autonomia democratica[15].

 

 

E’ una folla, continua A., e  non di combattenti: illinc plures stare, hinc plures dimicaturos. Al. avrebbe combattuto davanti alle prime file: se ante prima signa dimicaturum (4, 14, 6. Ho le cicatrici come garanzia delle mie parole e decorazioni del mio corpo: “spondēre pro se tot cicatrices, totĭdem corporis decŏra”,  e sono l’unico a non prendere parte del bottino.

Sponsor garante di Alessandro è ogni sua cicatrice che gli promette la vittoria.

 

 Cfr il console Mario il quale nel Bellum Iugurthinum dice che non può ostentare i ritratti degli antenati ma trofèi di guerra “praeterea cicatrices advorso corpore” (84).

Le ferite spesso parlano: non sempre sono " dumb mouths "[16] , bocche mute, come quelle di Cesare assassinato.

"Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste "intensità sconvolgenti siano una sorta di messaggio: sono "cicatrici", ferite, che segnano la nostra vita"[17].

 

Pesaro 2 agosto 2024 ore 11, 41

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 Bravissima la coppia di tenniste Errani -Paolini, l’esperta non tanto lontana dai 40 anni e l’apprendista ancora sotto i trenta. Un gioiello e un gioiellino. Femmine molto brave, incantevoli. Fanno onore alle donne.

 

 

 

 



[1]Padeia  1, p. 69.

[2] In sistema asclepiadeo IV.

[3] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Del nuovo idolo.

 [4] Sono parole di un frammento  (25 D. K.) del dramma satiresco, una quarantina di versi tramandati da Sesto Empirico, filosofo scettico della seconda metà del II secolo d. C.

[5]Odissea , VIII, 159 e sgg.

[6]Iliade , IX, 319

[7]Iliade , I, 505

[8]Iliade  , I, 507

[9] Storico di Siracusa, vissuto tra il V e il IV secolo. Scrisse una Storia della Sicilia che non ci è arrivata.  Imitava Tucidide, tanto che Cicerone lo definì “pusillus paene Thucydides” (Ad Quintum fratrem, II, 11, 4), quasi un piccolo Tucidide.

[10]Jaeger, op. cit., p. 285.

[11] Sebbene fosse il primo ottobre del 331.

[12] 180-160 a. C.

[13] H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 293.

[14] J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore , p. 144.

[15] J. G. Droysen, op. cit., p. 300.

[16] Shakespeare, Giulio Cesare , III, 2.

[17] J. Hillman, Il piacere di pensare , p. 66.

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