Il giorno seguente, , primo gennaio 1979 l’ultimo di questio viaggio, andammo a Orvieto. Fu una giornata buia e tanto fredda che i passeri intirizziti erano imasti senza voce. Anche io ero tormentato dal gelo nonostante fossi imbacuccato come un eschimese.
Mi sono sentito vivo e commosso solo in una circostanza che dunque è l’unica degna di essere raccontata. Ero nel duomo gotico distaccato dai compagni di viaggio- Avevo litigato con Silvano la sera prima parlando di Bruno, l’amico comune morto ante diem.
Nel duomo avevo osservato con attenzione gli affreschi del Signorelli. Mi aveva colpito la soda, viva e loquace carnalità dei corpi umani passionalmente nudi e scattanti.
Stavo tornando dalla cappella di San Brizio alla navata per ricongiungermi ai comites quando mi accorsi che in una nicchia c’era una statua di donna nuda simile a Ifigenia. Era una figura raggiante di luce così sensuale e calda che mi domandai come fosse finita in quel tempio cristiano pur già connotato alquanto paganamente dai corpi svestiti, robusti e belli della cappella. Ma quella donna aveva qualcosa di fortemente erotico, eccitante e familiare al tempo stesso. Ne rimasi affascinato e volli fermarmi più a lungo di quanto mi consentisse il frettoloso procedere dei compagni di viaggio. Andai a scusarmi: li avrei raggiunti nel bar dove erano diretti. Così mi diedi a fissare la donna di pietra. Il marmo nitido e liscio aveva la soda perfezione delle membra tornite della mia giovane amante: il seno, il ventre, le cosce diffondevano palpiti caldi di luce nell’aria scura e gelata della chiesa cristiana appena schiarita da lampade impolverate e dal tremore delle fiammelle di incerte candele mocciose. La donna nuda adunava nella sua figura le scintille baluginanti nel buio del grande tempio e riverberandole ne moltiplicava la forza. In quell’immagine riconoscevo l’ei[dwlon di Ifigenia, il suo simulacro che un giorno avrei immortalato in un modo o in un altro. Questo promisi. Avevo premura di tornare a Bologna, in camera mia, nel grande letto con lei che aveva trasformato il cupo ambiente assediato dal buio di novembre in un paradiso ridente, caldo, luminoso e fiorito. Sentivo l’amore, il desiderio e il bisogno di lei, come sento la nostalgia della terra fiorita quando le stecchite piante segnano di nere trame il cielo nuvoloso e desolato degli inverni padani, come soffrivo per la lontananza della madre mia quando ero bambino e dovevo passare l’estate nella solitudine fredda di Moena, dove tutte le notti abbracciavo il cuscino e piangevo invocandola, e tutte le mattine correvo incontro al postino chiedendogli con la mia voce di bimbo dolente se c’era una cartolina per me con su scritto: “Saluti e baci. La tua mamma”. Ogni volta però rimanevo deluso amareggiato, e con il pensiero correvo al giorno seguente. La sera al tramonto già precoce in agosto perché l’occidente era occupato dal Sass da Ciamp, pregavo il sole di correre a precipizio nel cielo a costo di provocare una catastrofe, una conflagrazione di rocce, foreste e stelle, purché arrivasse tosto il giorno felice in cui sarei tornato dalla mamma, bella, bruna e profumata più delle piccole fragole rosse e dei lamponi che raccoglievo trepido al margine dei boschi durante le mie passeggiate solitarie e pericolose a quanto mi sentivo dire.
La zia Giulia diceva che se mi fossi perso avrebbe chiamato il soccorso alpino che salvava i dispersi minacciati dagli orsi o caduti nei burroni, ma poi li picchiava per il disturbo arrecato dalla stupidità di tali incoscienti.
E mi guardava severa. “Facciamo finta di niente- pensavo- le passerà”.
p. s.
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