nel '74 a Debrecen |
La storia di Päivi 1. Prologo
La soglia
dei trent’anni. La conversione definitiva allo studio e al pensiero
Nel 1974,
ottenuto il trasferimento a Bologna e concluso l’ultimo anno di insegnamento
nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta, tornai a Debrecen dove
la sera dell’Ismerkedési este[1] ebbi
un’esperienza erotica poco significativa con una tedesca ventiduenne, Cornelia,
una donna che cinque anni più tardi, nell’anno di Ifigenia, mi avrebbe detto
frasi belle[2], piene di educazione attiva, tanto che mi
avrebbero lasciato un segno più forte, profondo e positivo dell’insulsa,
precipitosa avventura di quell’estate già allora lontana. Le parole belle danno
luce al pensiero e alla vita.
Ma nel luglio del ‘74, due giorni dopo avere conosciuto Cornelia, una tedesca di Berlino est, pur carina e intelligente, conobbi una donna che mi piaceva di più: mi apparve subito di aspetto attraente, poi la considerai quale persona di grande formato mentale e con lei, per tutto il mese seguente, vissi un amore grande, tra i più significativi e denso di conseguenze in questa mia vita mortale, comunque funzionale al reperimento della mia identità di studioso ancora non definita bene.
Era già tempo: il 14 novembre seguente avrei compiuto trenta anni.
Era finnica pure lei: l’ultima della serie iperborea. Era la persona di cui avevo bisogno per iniziare un lungo periodo di studio serio e di pensieri miei. Chiacchiere ne avevo fatte abbastanza, fin troppe anzi, non senza bevute e mangiate, sebbene, almeno queste, smaltite con corse a piedi e scalate di montagne in bicicletta.
Ma nel luglio del ‘74, due giorni dopo avere conosciuto Cornelia, una tedesca di Berlino est, pur carina e intelligente, conobbi una donna che mi piaceva di più: mi apparve subito di aspetto attraente, poi la considerai quale persona di grande formato mentale e con lei, per tutto il mese seguente, vissi un amore grande, tra i più significativi e denso di conseguenze in questa mia vita mortale, comunque funzionale al reperimento della mia identità di studioso ancora non definita bene.
Era già tempo: il 14 novembre seguente avrei compiuto trenta anni.
Era finnica pure lei: l’ultima della serie iperborea. Era la persona di cui avevo bisogno per iniziare un lungo periodo di studio serio e di pensieri miei. Chiacchiere ne avevo fatte abbastanza, fin troppe anzi, non senza bevute e mangiate, sebbene, almeno queste, smaltite con corse a piedi e scalate di montagne in bicicletta.
Arrivato
all’età virile, sentivo l’esigenza di iniziare un’altra vita, più impegnativa,
più mia. L’estrema delle mie finniche, l’ultima tra queste donne arrivate
dall’ultima Tule[3],
da psicologa brava qual era, mi rese manifesto questo sentire latente. Se sono
diventato una persona desiderosa e capace di apprendere, se ora sono in grado
di insegnare qualcosa a chi mi ascolta e a voi che mi leggete, lo devo in buona
parte a quella donna . Oltre ai genitori che mi hanno dato la vita beninteso, e
a me stesso che ho saputo valorizzarla, agli studenti che mi ascoltavano con
attenzione e a voi che mi leggete.
L’estate del ’74 fu l’ultima in cui amai una finnica a Debrecen, dopo averla vista e riconosciuta come simile a me, o creduta tale, nel grande cortile d’onore dell’Università. Con questa storia concludo dunque la trilogia finlandese.
In
maniera capovolta rispetto alla terza tragedia dell’Orestea di
Eschilo però: nel finale ci sarà una metamorfosi negativa e l’Eumenide prima
benefica e buona diventerà poi un’Erinni ostile, feroce.
Anche con
questa giovane donna andavo a passeggiare nel bosco, tra le antiche querce
giganti che ombreggiano i prati fioriti e nella radura del piccolo lago varcato
dal ponticello di legno che lieto risuona; oppure ci recavamo nel centro della
città sul tram numero uno che gira senza fretta sopra i binari circolanti tra
l’università e la stazione, quindi tra la stazione e l’università, e passa in
mezzo alle ombre fitte della foresta, poi circola nel corso assolato davanti
all’Aranybika, dove ci fermavamo per bere una palinka all’albicocca, giallina,
oppure una birra densa e amara, o un bicchiere di aspro sangue di toro di Eger.
Talvolta non prendevamo il tram numero uno, l’unico tram, di colore giallo, ma
salivamo sulla nera Volkswagen scoperta e ci recavamo a Hortobágy attraverso
la puszta polverosa, o fangosa, dove le oche protendevano il collo
e giubilavano roche[4],
e i porci edaci, grufolavano, con qualsiasi tempo, mentre tenevano il grugno
ingordo sempre puntato a terra e i piccoli occhi cisposi rivolti a cercare in
qualsiasi cibo una qualche gioia, o una parziale consolazione della loro
immensa, caotica, mai sazia voracità. Tra loro c’era del resto un cucciolo
carino: un porcellotto grasso che cercava la madre alzando il grifo ancora
grazioso verso gli adulti che lo ignoravano.
Nella csárda gli zigani dai volti gialli come limoni suonavano le danze ungheresi di Brahms con i violini striduli e con i cembali precipitosi, facendomi ricordare le tante estati passate in Ungheria, tutta la scala dei vent’anni prossima oramai a terminare, non senza avermi elevato di altrettanti gradini da quando la prima volta, occhialuto, malvestito, sporco, grasso e vorace come i maiali più immondi, ero arrivato nel corso ventoso e polveroso di Debrecen sul calar della notte[5]. Era il 15 luglio del 1966.
Quella sera, a ventuno anni e otto mesi, ebbe inizio la mia vita cosciente.
Il sole era tramontato da poco. Avevo paura dell’oscurità in un paese sconosciuto e remoto di cui non conoscevo l’idioma agglutinante. Ma invece di cadere nel buio, come la vita di Oblomov[6], la mia, da quel tramonto, ricevette l’impulso per un rinascimento personale, una resurrezione che sarebbe diventata completa grazie all’incontro con questa donna pensosa e intelligente. Anche buona mi sembrò per tutto quel mese.
Giunto sul limitare della trentina inquietante[7], ero contento di avere onorato l’impegno preso quella sera lontana del luglio del ’66, quando avevo giurato a me stesso che, da ributtante quale ero, sarei arrivato a piacere alle donne, a molte donne. Stavo per scrivere "a tutte", ma ci ho ripensato, siccome sarebbe ybris, poi sarebbe falso, poiché a diverse invece, purtroppo, non sono piaciuto. Peggio per loro del resto.
Nella csárda gli zigani dai volti gialli come limoni suonavano le danze ungheresi di Brahms con i violini striduli e con i cembali precipitosi, facendomi ricordare le tante estati passate in Ungheria, tutta la scala dei vent’anni prossima oramai a terminare, non senza avermi elevato di altrettanti gradini da quando la prima volta, occhialuto, malvestito, sporco, grasso e vorace come i maiali più immondi, ero arrivato nel corso ventoso e polveroso di Debrecen sul calar della notte[5]. Era il 15 luglio del 1966.
Quella sera, a ventuno anni e otto mesi, ebbe inizio la mia vita cosciente.
Il sole era tramontato da poco. Avevo paura dell’oscurità in un paese sconosciuto e remoto di cui non conoscevo l’idioma agglutinante. Ma invece di cadere nel buio, come la vita di Oblomov[6], la mia, da quel tramonto, ricevette l’impulso per un rinascimento personale, una resurrezione che sarebbe diventata completa grazie all’incontro con questa donna pensosa e intelligente. Anche buona mi sembrò per tutto quel mese.
Giunto sul limitare della trentina inquietante[7], ero contento di avere onorato l’impegno preso quella sera lontana del luglio del ’66, quando avevo giurato a me stesso che, da ributtante quale ero, sarei arrivato a piacere alle donne, a molte donne. Stavo per scrivere "a tutte", ma ci ho ripensato, siccome sarebbe ybris, poi sarebbe falso, poiché a diverse invece, purtroppo, non sono piaciuto. Peggio per loro del resto.
Caivrete gunai'keς, tanti
saluti donne! Vi ho mancato. Pazienza. Pure voi avete mancato me.
Nel 1974 sentivo già che riuscire gradito a diverse femmine umane non bastava, non poteva essere il punto di arrivo: dovevo fare dell’altro: mettermi in condizione di dare qualcosa di buono e concreto ai miei studenti, al mio prossimo, e a quelli meno vicini. Lo sentivo e capivo ascoltando quella giovane donna che sapeva pensare e sapeva parlare come si deve. Si chiamava Päivi Era bello e utile conversare con lei, era bello assai e parecchio piacevole fare l’amore in uno dei due collegi universitari: nella mia solita camera dell’edificio numero due, oppure in quella di Päivi che, secondo la tradizione dei finnici, abitava nel primo,e aveva la finestra bassa sul prato scaldato dai raggi del sole, o bagnato dalla rugiada notturna le cui gocce, illuminate dal chiarore lunare, sembravano perle.
Päivi aveva ventiquattro anni e si era da poco laureata in psicologia a Yväskylä. Päivi significa "luce", e, dato che i nomi sono davvero presagi, questa ultima finlandese amata, ha gettato un fascio del suo faro sul cammino che dovevo affrontare al ritorno in Italia, la strada impervia dello studio serio, impegnativo e proficuo. Dovevo attraversare il sapere per giungere alla sapienza che “esalta i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. Chi la ama, ama la vita. Il Signore ama coloro che la amano. Chi confida in lei la otterrà in eredità. Dapprima lo condurrà per luoghi tortuosi, gli incuterà timore e paura, lo tormenterà con la sua disciplina finché possa fidarsi, ma poi lo ricondurrà sulla retta via."[8].
Nel 1974 sentivo già che riuscire gradito a diverse femmine umane non bastava, non poteva essere il punto di arrivo: dovevo fare dell’altro: mettermi in condizione di dare qualcosa di buono e concreto ai miei studenti, al mio prossimo, e a quelli meno vicini. Lo sentivo e capivo ascoltando quella giovane donna che sapeva pensare e sapeva parlare come si deve. Si chiamava Päivi Era bello e utile conversare con lei, era bello assai e parecchio piacevole fare l’amore in uno dei due collegi universitari: nella mia solita camera dell’edificio numero due, oppure in quella di Päivi che, secondo la tradizione dei finnici, abitava nel primo,e aveva la finestra bassa sul prato scaldato dai raggi del sole, o bagnato dalla rugiada notturna le cui gocce, illuminate dal chiarore lunare, sembravano perle.
Päivi aveva ventiquattro anni e si era da poco laureata in psicologia a Yväskylä. Päivi significa "luce", e, dato che i nomi sono davvero presagi, questa ultima finlandese amata, ha gettato un fascio del suo faro sul cammino che dovevo affrontare al ritorno in Italia, la strada impervia dello studio serio, impegnativo e proficuo. Dovevo attraversare il sapere per giungere alla sapienza che “esalta i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. Chi la ama, ama la vita. Il Signore ama coloro che la amano. Chi confida in lei la otterrà in eredità. Dapprima lo condurrà per luoghi tortuosi, gli incuterà timore e paura, lo tormenterà con la sua disciplina finché possa fidarsi, ma poi lo ricondurrà sulla retta via."[8].
La
disciplina che dovevo impormi poi è diventata una necessità voluta e piacevole.
Fino a
Päivi, con i libri avevo avuto un rapporto di sottomissione, senza simpatia, se
avevo dovuto studiarli a memoria per degli esami da sostenere davanti a
inquisitori spesso privi di visione d’insieme della materia, non poche volte
cooptati e sussunti per vari motivi estranei alle capacità e a meriti veri;
oppure con gli autori avevo avuto relazioni simpatiche ma prive di metodo,
perciò di una via che procedesse verso una meta. Avevo avuto il trasferimento
dalle medie alle superiori per l’autunno seguente.
Dovevo
sottomettermi a lunghi orari di studio, ma dopo Päivi l’avrei anche voluto con
forza, per trarre dalle letture quanto poteva servire a migliorare me stesso, a
potenziare la natura mia e dei discepoli miei. Lo studio se non potenzia la
natura non è cultura. Questo mi ha insegnato Päivi, la luminosa, la Fedra,
durante quel mese, passato il quale del resto diventerà una Medea, quando il
parto travagliava le viscere9 sue
ed entrambi i nostri cervelli, come vedremo nell’esito tragico della vicenda.
Resta comunque il fatto che l’ultima delle Finniche mie con la sua intelligenza
seppe chiarirmi il caos da dove pullulavano ancora angosce deformi, antichi
dolori, desideri cattivi, soffocati ma sempre malignamente attivi, bramosi di
ostacolare il mio progresso verso la felicità. Dopo le belle esperienze con
Elena e Kaisa ero regredito a relazioni ordinarie e volevo purificarmi,
diventare quello che sono davvero, trovare il coraggio di apprezzare e
valorizzare la mia estraneità dalle mode dal “si deve pensare, dire e fare
così”. Nell’insegnamento non dovevo fare quello che avevano fatto a me. Päivi
autorizzò queste mie aspirazioni e mi avviò su questa strada indicandomi un metodo
appunto.
giovanni
ghiselli 8 aprile
[6] Riporto qui in nota alcune
parole di Oblomov all’amico Stolz: "Sai, Andrej, nella mia vita nessun
fuoco né divoratore né purificatore ha mai divampato. Essa non è stata, come
quella degli altri, simile al mattino che a poco a poco si colora e s’accende,
poi si muta nel giorno che ferve, arde e palpita nel meriggio luminoso e poi,
sempre più pallido e quieto, naturalmente e gradatamente, si spegne nella sera.
No, la mia vita è cominciata con il tramonto. E’ strano, ma è così! Dal primo
momento che ho avuto coscienza di me, ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato
a spegnermi scrivendo gli incartamenti dell’ufficio; ho continuato, poi,
conoscendo nei libri quelle verità di cui non avrei saputo che fare nella vita;
mi sono spento con gli amici, ascoltando i loro discorsi, i loro pettegolezzi,
le loro malignità, il loro malvagio e freddo chiacchierare, la loro vuotaggine;
contemplando quel loro tipo d’amicizia alimentato da incontri senza scopo,
senza cordialità; mi sono spento e ho consumato le mie forze con Mina, per cui
spendevo più di metà delle mie rendite, illudendomi di amarla; mi sono spento nel
tetro e fiacco passeggiare lungo il viale Nevski, tra le pellicce d’orso e i
baveri di castoro, nelle serate, nei giorni di ricevimento, in cui venivo
lietamente accolto come fidanzato discreto; mi sono spento consumando in
sciocchezze la vita e l’intelligenza" I. Gončarov, Oblomov, p.
240.
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