Vitale da Bologna Sant'Ambrogio in trono |
Sommario
Il vero antico è congeniale e
necessario al progresso. Le novità presunte e infamate dai misoneisti sono
antichità studiate e riportate alla luce. Si pensi alle opere di Filippo
Brunelleschi e Leon Battista Alberti.
Nel campo dei generi letterari si
ponga mente al teatro inventato dai Greci e imitato a lungo dai Romani.
In seguito il teatro ha avuto molti
detrattori cristiani per diversi secoli: da Tertulliano, ad Agostino, ai
Puritani, a Papa Sisto VI come ce lo racconta Vittorio Alfieri, al curato di
Yonville di Madame Bovary. Le critiche al teatro del resto partono
già da Platone e nemmeno Leopardi ne è esente.
“Il grandissimo e incontrastabile
beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi è di averci liberato
da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’
tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi: da quello stato che non era né civile
né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza
molto peggiore e più dannosa di quella de’ fanciulli e degli uomini primitivi,
dalla superstizione, dalla viltà codarda crudele e sanguinaria, dall’inerzia e
timidità ambiziosa, intrigante e oppressiva, dalla tirannide all’orientale, inquieta e micidiale, dall’abuso
eccessivo del duello, dalla feudalità del Baronaggio e dal vassallaggio, dal
celibato volontario[1] o forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla mancanza
d’ogni industria e deperimento e languore dell’agricoltura, dalla spopolazione, povertà, fame, peste,
che seguivano ad ogni ramo per tali cagioni, dagli odii ereditarii e di
famiglia, dalle guerre continue e mortali e devastazioni e incendi di città e
di campagna tra Re e Baroni, Re e sudditi, Baroni e Baroni, Baroni e vassalli,
città e città, fazioni e fazioni, e suddivisioni di partiti, famiglie e
famiglie, dallo spirito non d’eroismo ma di cavalleria e d’assassineria”.
Leopardi procede con un lungo
elenco di “costumi sfacciatamente infami” dal diritto affidato alla forza, “ai
vizi scoperti, alle guerre di religione, intolleranza religiosa, inquisizione,
veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, niun diritto delle genti,
torture prove del fuoco, e cose tali”.
Un quadro davvero fosco.
Voglio commentarne alcuni aspetto: la
tirannide
Nello Zibaldone Leopardi
sostiene che la monarchia è il governo sia della società primitiva sia di
quella "pienamente corrotta", mentre "una società capace di
repubblica durevole, non può essere che leggermente o mezzanamente corrotta
(come la moderna)". Così "apparentemente, si avvicinano i due
estremi, di società primitiva, di cui non è proprio altro stato che la
monarchia; e di società totalmente guasta, di cui non è propria che l'assoluta
monarchia". Apparentemente, poiché la società primitiva non ammette la
monarchia dispotica, in quella guasta "non può durar che una monarchia
assoluta cioè dispotica"(3517).
Per quanto riguarda la
“spopolazione e povertà”, Sant’Ambrogio (340 - 397) ha deplorato la rovina di
una popolosa regione, che un tempo era ornata dalle fiorenti città di Bologna,
Modena, Reggio, e Piacenza.
La Lettera all’amico Faustino
del 387 vuole consolarlo della perdita della sorella scrivendo che muoiono
anche le città. Hoc nobis comune non solum cum hominibus, sed etiam cum
civitatibus terrisque ipsis est. Andando da Bologna a Piacenza a sinistra
potevi commiserare Apenini inculta e sulla strada tot
semirutarum urbium cadavera e la funerea parvenza di tanti villaggi.
Dunque consòlati: tua sorella è passata a una vita migliore, cum illa
in perpetuum prostrata ac diruta sint.
Verum hoc nobis commune non solum
cum hominibus, sed etiam cum civitatibus terrisque ipsis est. Nempe de
Bononiensi veniens urbe a tergo Claternam, ipsam Bononiam, Mutinam, Rhegium
derelinquebas, in dextera erat Brixillum, a fronte occurrebat Placentia,
veterem nobilitatem ipso adhuc nomine sonans, ad laevam Apenini inculta
miseratus, et florentissimorum quondam populorum castella considerabas, atque
affectu relegebas dolenti. Tot igitur semirutarum urbium cadavera, terrarumque
sub eodem conspectu exposita funera non te admonet unius, sanctae licet et
admirabilis feminae, decessionem consolabiliorem habendam; praesertim cum illa
in perpetuum prostrata ac diruta sint: haec autem ad tempus quidem erepta
nobis, meliorem illic vitam exigat?…
Leopardi procede con l’affermazione
che “il vero antico è in gran parte quello appunto che essi combattono”. Cotali
“essi” sono “quelli che piangono, condannano, biasimo, oppugnano , combattono
la civiltà moderna e i lumi del secolo e i suoi progressi e quelli che fecero
il simile ne’ passati secoli, quelli che richiamano o richiamarono l’antico, e
se ne chiamano difensori e conservatori e lo prendono per la loro divisa, e
gridano e s’indegnano contro le novità”.
Di fatto “non vì è cosa più
propriamente antica di moltissime di quelle che essi chiamano novità e che
impugnano come tali e se ne meravigliano gravemente come cose finora ignote al
genere umano, e contrarie all’esperienza, e però perniciosissime”.
Faccio un esempio di vero antico
che in certi periodi è stato infamato da diversi detrattori.
Il teatro con gli spettacoli
drammatici che ci sono derivati dai Greci del V e del IV secolo a. C. ha avuto
feroci oppositori armati di ignoranza e di superstizione. Ne dò alcuni esempi
Contro il teatro.
In Madame Bovary 81856)il
curato di Yonville critica il lenocinio dei teatri, da un punto di vista,
autorizzato da "tutti i Santi Padri".
"So anch'io" obiettò il
curato, "che esistono buone opere, buoni autori, tuttavia, non fosse
altro, tante persone di sesso diverso riunite in un locale seducente, ornato di
pompe mondane, e poi tutti quei travestimenti pagani, tutto quel belletto,
tutti quei candelabri, tutte quelle voci effemminate, tutto insomma deve ingenerare alla fin fine
un certo libertinaggio dello spirito e suggerirti pensieri
disdicevoli, tentazioni impure. Almeno questa è l'opinione di tutti i Santi
Padri. Infine…se la chiesa ha condannato gli spettacoli, significa che aveva la
sua ragione di farlo: occorre sottometterci ai suoi decreti" [2]
Allora risaliamo indietro:
Tertulliano (160 ca - 220ca d. C) nel De spectaculis (del
200 circa d. C.) predica contro teatri e circhi in quanto tutta la messinscena
degli spettacoli trae la sua essenza ex idolatria (IV, 3)
dall'idolatria. Già nel precedente Apologeticum (197 d. C.) il
teologo afferma che i sensi puri dei cristiani non hanno nulla in comune con la
follia del circo né con l'impudicizia del teatro (cum impudicitia
theatri ) né con la crudeltà dell'arena (cum atrocitate arenae)
né con la vanità del portico (38).
Sant'Agostino nelle Confessiones [3] definisce miserabilis insania la
passione per il teatro, una follia da lui stesso provata quando lo trascinavano
gli spettacoli teatrali "plena imaginibus miseriarum mearum et
fomitibus ignis mei" (III, 2), piene di immagini delle mie miserie e
di esche del mio fuoco.
Nel De civitate Dei [4]
Agostino sostiene che i ludi scenici, introdotti a Roma [5] per placare la
pestilenza dei corpi, importarono dall'Etruria la pestilenza nei costumi.
Infatti il pontefice, per sedare la pestilenza delle anime, proibiva
addirittura la costruzione del teatro (I, 32).
Insomma il teatro, che tratta
spesso della peste [6] è esso stesso latore di peste.
Del resto
già Platone aveva biasimato gli spettacoli troppo frequenti e
confusionari che hanno insediato al posto dell’aristocrazia una cattiva teatrocrazia ajnti; ajristokrativva" qeatrokrativa
ti" ponhrav[7].
Ancora una volta il cristianesimo
appare "un platonismo per il popolo"[8].
Questa linea platonico - cristiana
di avversione per i teatri si riscontra fra i puritani del Seicento: il Lord
Protector Cromwell (1599 - 1658) fece chiudere i teatri durante la sua
tirannide e, per quanto riguarda la presenza di tale ostilità nel Nuovo Mondo,
sentiamo La lettera scarlatta di Hawthorne, pubblicata nel 1850 ma ambientata nella Boston puritana
del XVII secolo: "inutilmente si sarebbe immaginato di vedere quel popolo
abbandonarsi ai divertimenti popolari che erano in uso in Inghilterra sotto la
regina Elisabetta o sotto re Giacomo. Niente spettacoli teatrali, né musiche di sonatori ambulanti, né
canzoni di menestrelli, né trucchi di giocolieri, né lazzi di saltimbanchi. Il
fondo del carattere di questa gente - s'è detto - era triste, e tutti questi
professionisti dell'allegria sarebbero stati scacciati non soltanto dalla
legge, ma dal sentimento popolare che conta assai più della legge" [9]
Sulla protagonista del romanzo una donna bella e fine, marchiata e messa al
bando da questa gente tetra, torneremo più avanti.
Arriviamo ai tempi moderni vicini a
Leopardi e sentiamo Vittorio Alfieri (1749 - 1803). Leggiamo alcune parole del Capitolo decimo dell’epoca
quarta della Vita scritta da esso (tra il 1790 e il 1803)
L’autore
era arrivato a umiliarsi10 davanti a Pio VI, papa Braschi, con l’offerta di
dedicargli il Saul. Il papa non accettò. Riprendiamo dunque da
questo rifiuto: “Il papa se ne scusò, dicendo che egli non poteva
accettar dedica di cose teatrali quali ch’elle si fossero; né io altra cosa
replicai su ciò”.
Leopardi stesso è stato
ingiustamente critico verso il genere drammatico e il teatro. Concludo citando
il maestro del quale però non mi sento allievo per quanto riguarda questa
graduatoria dei generi
Il Recanatese dunque sostiene
che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella epica,
“è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è
un'ispirazione, ma un'invenzione;
figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per
volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua (…) Il dramma non è
proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e
dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in
somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno
della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a
procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo.
Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e
pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera
nepote"(Zibaldone, 4235 - 4236).
Ancora: “Essa è cosa prosaica: i
versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è
spinto a poetare dall’intimo sentim. Suo proprio, non dagli altrui. Il fingere
di avere una passione, un caratt. Ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è
cosa alienis. Dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta,
tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di
vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto
più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno
drammatico” (Zibaldone, 4357).
1
Non vedo come il celibato volontario possa fare parte della barbarie dalla
quale il Rinascimento ci ha liberati. Per giunta Leopardi nello Zibaldone considera
naturale il matrimonio monogamico solo il periodo necessario alla prima
crescita dei figli:"Giacchè la necessità del concubitu prohibere
vago, non prova nulla in favore della società, perché anche gli uccelli si
fabbricano il talamo espressamente e convivono con legge di matrimonio finché
bisogna all'educaz. sufficiente dei prodotti di quel matrimonio, e nulla più; e
non per questo hanno società. Né la detta necessità, riguardo all'uomo, si
estende più oltre di questo naturalmente, ma artifizialmente, e a
posteriori, cioè posta la società, la quale necessita la perpetuità dei matrimoni,
e la distinzione delle famiglie e delle possidenze" ( 250). La citazione
latina è tratta dall' Ars Poetica di Orazio. Questa
contestualizzata dice:"Fuit haec sapientia quondam,/ publica privatis
secernere, sacra profanis,/concubitu prohibere vago, dare iura maritis,/oppida
moliri, leges incidere ligno" (vv. 396 - 399), un tempo la sapienza fu
questa: separare la proprietà privata dalla pubblica, il sacro dal profano,
impedire gli accoppiamenti sregolati, imporre i doveri ai coniugi, fondare
città, incidere le leggi nel legno. Ars poetica è' il titolo che
Quintiliano diede all' Epistola ai Pisoni composta intorno al
15 a. C.
2 G.
Flaubert, Madame Bovary, p. 177.
3
In 13 libri composti fra il 397 e il 401 d. C.
4
In 22 libri composti fra il 413 e il 426 d. C.
5
Nel 364 a. C. secondo il racconto di Tito Livio (VII, 2 - 3)
6 Si
pensi, per esempio all’ Edipo re di Sofocle e all’Oedipus di
Seneca.
7 Leggi,
701a
8 Nietzsche,
Di là dal bene e dal male, p. 26.
9 N.
Hawthorne, La lettera scarlatta, p. 180.
10 https://www.blogger.com/post - dit.g?blogID=1896106114472000863&postID=3643959638653454909&from=pencil - Vediamo
dunque una debolezza dell’ “Allobrogo feroce” (Leopardi, Ad Angelo Mai,
v 155) “Ma qui mi convien confessare, ch’io provai due ben distinte, ed
ambe meritate, mortificazioni: l’una del rifiuto ch’io m’era andato accattare
spontaneamente; l’altra di essermi pur visto costretto in quel punto a stimare
me medesimo di gran lunga minore del papa, poiché io avea pur avuto la viltà, o
debolezza, o doppiezza (che una di queste tre fu per certo, se non tutte tre,
la motrice del mio operare in quel punto) di voler tributare come segno di ossequio
e di stima una mia opera ad un individuo ch’io teneva per assai minore di me in
linea di vero merito (Vita, IV, 10, anno 1783). Però poi l’autore
drammatico aggiunge che la ragione sola e verissima che l’aveva indotto a
prostituire così il coturno alla tiara, ossia l’arte tragica al potere papale,
fu un’altra, cioè l’amore per la contessa d’Albany, che aveva conosciuto a
Firenze anni prima e con la quale aveva una relazione seria. Si tratta del
grande amore, quello degno di Vittorio Alfieri il quale dopo tre amori indegni,
finiti male, con grossi dolori, e dopo non poche frequentazioni di donnacce con
malattie annesse, incontrò una donna della sua levatura e del suo stampo
11
La poesia drammatica
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