mercoledì 8 aprile 2020

Leopardi: "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani". Parte IV

Vitale da Bologna
Sant'Ambrogio in trono

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Sommario
Il vero antico è congeniale e necessario al progresso. Le novità presunte e infamate dai misoneisti sono antichità studiate e riportate alla luce. Si pensi alle opere di Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti.
Nel campo dei generi letterari si ponga mente al teatro inventato dai Greci e imitato a lungo dai Romani.
In seguito il teatro ha avuto molti detrattori cristiani per diversi secoli: da Tertulliano, ad Agostino, ai Puritani, a Papa Sisto VI come ce lo racconta Vittorio Alfieri, al curato di Yonville di Madame Bovary. Le critiche al teatro del resto partono già da Platone e nemmeno Leopardi ne è esente.

“Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi: da quello stato che non era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza molto peggiore e più dannosa di quella de’ fanciulli e degli uomini primitivi, dalla superstizione, dalla viltà codarda crudele e sanguinaria, dall’inerzia e timidità ambiziosa, intrigante e oppressiva, dalla tirannide all’orientale, inquieta e micidiale, dall’abuso eccessivo del duello, dalla feudalità del Baronaggio e dal vassallaggio, dal celibato volontario[1] o forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla mancanza d’ogni industria e deperimento e languore dell’agricoltura, dalla spopolazione, povertà, fame, peste, che seguivano ad ogni ramo per tali cagioni, dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre continue e mortali e devastazioni e incendi di città e di campagna tra Re e Baroni, Re e sudditi, Baroni e Baroni, Baroni e vassalli, città e città, fazioni e fazioni, e suddivisioni di partiti, famiglie e famiglie, dallo spirito non d’eroismo ma di cavalleria e d’assassineria”.
Leopardi procede con un lungo elenco di “costumi sfacciatamente infami” dal diritto affidato alla forza, “ai vizi scoperti, alle guerre di religione, intolleranza religiosa, inquisizione, veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, niun diritto delle genti, torture prove del fuoco, e cose tali”.
Un quadro davvero fosco.

Voglio commentarne alcuni aspetto: la tirannide
Nello Zibaldone Leopardi sostiene che la monarchia è il governo sia della società primitiva sia di quella "pienamente corrotta", mentre "una società capace di repubblica durevole, non può essere che leggermente o mezzanamente corrotta (come la moderna)". Così "apparentemente, si avvicinano i due estremi, di società primitiva, di cui non è proprio altro stato che la monarchia; e di società totalmente guasta, di cui non è propria che l'assoluta monarchia". Apparentemente, poiché la società primitiva non ammette la monarchia dispotica, in quella guasta "non può durar che una monarchia assoluta cioè dispotica"(3517).

Per quanto riguarda la “spopolazione e povertà”, Sant’Ambrogio (340 - 397) ha deplorato la rovina di una popolosa regione, che un tempo era ornata dalle fiorenti città di Bologna, Modena, Reggio, e Piacenza.
La Lettera all’amico Faustino del 387 vuole consolarlo della perdita della sorella scrivendo che muoiono anche le città. Hoc nobis comune non solum cum hominibus, sed etiam cum civitatibus terrisque ipsis est. Andando da Bologna a Piacenza a sinistra potevi commiserare Apenini inculta e sulla strada tot semirutarum urbium cadavera e la funerea parvenza di tanti villaggi. Dunque consòlati: tua sorella è passata a una vita migliore, cum illa in perpetuum prostrata ac diruta sint.
Verum hoc nobis commune non solum cum hominibus, sed etiam cum civitatibus terrisque ipsis est. Nempe de Bononiensi veniens urbe a tergo Claternam, ipsam Bononiam, Mutinam, Rhegium derelinquebas, in dextera erat Brixillum, a fronte occurrebat Placentia, veterem nobilitatem ipso adhuc nomine sonans, ad laevam Apenini inculta miseratus, et florentissimorum quondam populorum castella considerabas, atque affectu relegebas dolenti. Tot igitur semirutarum urbium cadavera, terrarumque sub eodem conspectu exposita funera non te admonet unius, sanctae licet et admirabilis feminae, decessionem consolabiliorem habendam; praesertim cum illa in perpetuum prostrata ac diruta sint: haec autem ad tempus quidem erepta nobis, meliorem illic vitam exigat?…

Leopardi procede con l’affermazione che “il vero antico è in gran parte quello appunto che essi combattono”. Cotali “essi” sono “quelli che piangono, condannano, biasimo, oppugnano , combattono la civiltà moderna e i lumi del secolo e i suoi progressi e quelli che fecero il simile ne’ passati secoli, quelli che richiamano o richiamarono l’antico, e se ne chiamano difensori e conservatori e lo prendono per la loro divisa, e gridano e s’indegnano contro le novità”.
Di fatto “non vì è cosa più propriamente antica di moltissime di quelle che essi chiamano novità e che impugnano come tali e se ne meravigliano gravemente come cose finora ignote al genere umano, e contrarie all’esperienza, e però perniciosissime”.

Faccio un esempio di vero antico che in certi periodi è stato infamato da diversi detrattori.
Il teatro con gli spettacoli drammatici che ci sono derivati dai Greci del V e del IV secolo a. C. ha avuto feroci oppositori armati di ignoranza e di superstizione. Ne dò alcuni esempi
Contro il teatro.
In Madame Bovary 81856)il curato di Yonville critica il lenocinio dei teatri, da un punto di vista, autorizzato da "tutti i Santi Padri".
"So anch'io" obiettò il curato, "che esistono buone opere, buoni autori, tuttavia, non fosse altro, tante persone di sesso diverso riunite in un locale seducente, ornato di pompe mondane, e poi tutti quei travestimenti pagani, tutto quel belletto, tutti quei candelabri, tutte quelle voci effemminate, tutto insomma deve ingenerare alla fin fine un certo libertinaggio dello spirito e suggerirti pensieri disdicevoli, tentazioni impure. Almeno questa è l'opinione di tutti i Santi Padri. Infine…se la chiesa ha condannato gli spettacoli, significa che aveva la sua ragione di farlo: occorre sottometterci ai suoi decreti" [2]
Allora risaliamo indietro:
Tertulliano (160 ca - 220ca d. C) nel De spectaculis (del 200 circa d. C.) predica contro teatri e circhi in quanto tutta la messinscena degli spettacoli trae la sua essenza ex idolatria (IV, 3) dall'idolatria. Già nel precedente Apologeticum (197 d. C.) il teologo afferma che i sensi puri dei cristiani non hanno nulla in comune con la follia del circo né con l'impudicizia del teatro (cum impudicitia theatri ) né con la crudeltà dell'arena (cum atrocitate arenae) né con la vanità del portico (38). 
Sant'Agostino nelle Confessiones [3] definisce miserabilis insania la passione per il teatro, una follia da lui stesso provata quando lo trascinavano gli spettacoli teatrali "plena imaginibus miseriarum mearum et fomitibus ignis mei" (III, 2), piene di immagini delle mie miserie e di esche del mio fuoco.
Nel De civitate Dei [4] Agostino sostiene che i ludi scenici, introdotti a Roma [5] per placare la pestilenza dei corpi, importarono dall'Etruria la pestilenza nei costumi. Infatti il pontefice, per sedare la pestilenza delle anime, proibiva addirittura la costruzione del teatro (I, 32).
Insomma il teatro, che tratta spesso della peste [6] è esso stesso latore di peste.
Del resto già Platone aveva biasimato gli spettacoli troppo frequenti e confusionari che hanno insediato al posto dell’aristocrazia una cattiva teatrocrazia ajnti; ajristokrativva" qeatrokrativa ti" ponhrav[7].
Ancora una volta il cristianesimo appare "un platonismo per il popolo"[8].

Questa linea platonico - cristiana di avversione per i teatri si riscontra fra i puritani del Seicento: il Lord Protector Cromwell (1599 - 1658) fece chiudere i teatri durante la sua tirannide e, per quanto riguarda la presenza di tale ostilità nel Nuovo Mondo, sentiamo La lettera scarlatta di Hawthorne, pubblicata nel 1850 ma ambientata nella Boston puritana del XVII secolo: "inutilmente si sarebbe immaginato di vedere quel popolo abbandonarsi ai divertimenti popolari che erano in uso in Inghilterra sotto la regina Elisabetta o sotto re Giacomo. Niente spettacoli teatrali, né musiche di sonatori ambulanti, né canzoni di menestrelli, né trucchi di giocolieri, né lazzi di saltimbanchi. Il fondo del carattere di questa gente - s'è detto - era triste, e tutti questi professionisti dell'allegria sarebbero stati scacciati non soltanto dalla legge, ma dal sentimento popolare che conta assai più della legge" [9] Sulla protagonista del romanzo una donna bella e fine, marchiata e messa al bando da questa gente tetra, torneremo più avanti.

Arriviamo ai tempi moderni vicini a Leopardi e sentiamo Vittorio Alfieri (1749 - 1803). Leggiamo alcune parole del Capitolo decimo dell’epoca quarta della Vita scritta da esso (tra il 1790 e il 1803)
 L’autore era arrivato a umiliarsi10 davanti a Pio VI, papa Braschi, con l’offerta di dedicargli il Saul. Il papa non accettò. Riprendiamo dunque da questo rifiuto: “Il papa se ne scusò, dicendo che egli non poteva accettar dedica di cose teatrali quali ch’elle si fossero; né io altra cosa replicai su ciò”.
Leopardi stesso è stato ingiustamente critico verso il genere drammatico e il teatro. Concludo citando il maestro del quale però non mi sento allievo per quanto riguarda questa graduatoria dei generi
Il Recanatese dunque sostiene che il genere drammaticorispetto alla poesia lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua (…) Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235 - 4236).
Ancora: “Essa è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. Suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. Ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. Dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (Zibaldone, 4357). 


1 Non vedo come il celibato volontario possa fare parte della barbarie dalla quale il Rinascimento ci ha liberati. Per giunta Leopardi nello Zibaldone considera naturale il matrimonio monogamico solo il periodo necessario alla prima crescita dei figli:"Giacchè la necessità del concubitu prohibere vago, non prova nulla in favore della società, perché anche gli uccelli si fabbricano il talamo espressamente e convivono con legge di matrimonio finché bisogna all'educaz. sufficiente dei prodotti di quel matrimonio, e nulla più; e non per questo hanno società. Né la detta necessità, riguardo all'uomo, si estende più oltre di questo naturalmente, ma artifizialmente, e a posteriori, cioè posta la società, la quale necessita la perpetuità dei matrimoni, e la distinzione delle famiglie e delle possidenze" ( 250). La citazione latina è tratta dall' Ars Poetica di Orazio. Questa contestualizzata dice:"Fuit haec sapientia quondam,/ publica privatis secernere, sacra profanis,/concubitu prohibere vago, dare iura maritis,/oppida moliri, leges incidere ligno" (vv. 396 - 399), un tempo la sapienza fu questa: separare la proprietà privata dalla pubblica, il sacro dal profano, impedire gli accoppiamenti sregolati, imporre i doveri ai coniugi, fondare città, incidere le leggi nel legno. Ars poetica è' il titolo che Quintiliano diede all' Epistola ai Pisoni composta intorno al 15 a. C.
2 G. Flaubert, Madame Bovary, p. 177.
3 In 13 libri composti fra il 397 e il 401 d. C.
4 In 22 libri composti fra il 413 e il 426 d. C.
5 Nel 364 a. C. secondo il racconto di Tito Livio (VII, 2 - 3)
6 Si pensi, per esempio all’ Edipo re di Sofocle e all’Oedipus di Seneca.
Leggi, 701a
8 Nietzsche, Di là dal bene e dal male, p. 26.
9 N. Hawthorne, La lettera scarlatta, p. 180.
10 https://www.blogger.com/post - dit.g?blogID=1896106114472000863&postID=3643959638653454909&from=pencil - Vediamo dunque una debolezza dell’ “Allobrogo feroce” (Leopardi, Ad Angelo Mai, v 155) “Ma qui mi convien confessare, ch’io provai due ben distinte, ed ambe meritate, mortificazioni: l’una del rifiuto ch’io m’era andato accattare spontaneamente; l’altra di essermi pur visto costretto in quel punto a stimare me medesimo di gran lunga minore del papa, poiché io avea pur avuto la viltà, o debolezza, o doppiezza (che una di queste tre fu per certo, se non tutte tre, la motrice del mio operare in quel punto) di voler tributare come segno di ossequio e di stima una mia opera ad un individuo ch’io teneva per assai minore di me in linea di vero merito (Vita, IV, 10, anno 1783). Però poi l’autore drammatico aggiunge che la ragione sola e verissima che l’aveva indotto a prostituire così il coturno alla tiara, ossia l’arte tragica al potere papale, fu un’altra, cioè l’amore per la contessa d’Albany, che aveva conosciuto a Firenze anni prima e con la quale aveva una relazione seria. Si tratta del grande amore, quello degno di Vittorio Alfieri il quale dopo tre amori indegni, finiti male, con grossi dolori, e dopo non poche frequentazioni di donnacce con malattie annesse, incontrò una donna della sua levatura e del suo stampo
11 La poesia drammatica

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