lunedì 27 aprile 2020

"La fortuna di Raffaello fra '800 e '900", di Giuseppe Moscatt


Dante Gabriel Rossetti
1863 - Fotografia di Lewis Carroll
Giuseppe Moscatt
La fortuna di Raffaello fra '800 e '900

Il 15 giugno del 1520, con la bolla Ex urge Domine, papa Leone X condannava le tesi di Martin
Lutero. Si aprì così in modo definitivo la rottura fra il Papato ed il monaco riformatore, al punto che
il 10 di dicembre Lutero brucerà nella piazza di Wittemberg non solo la stessa bolla, ma anche i testi
della tradizione canonica. Tramonta così la prima parte dell'età moderna più spiccatamente umanista
e ci si avvia verso un periodo molto particolare, dove il moderno significò progressiva separazione
dell'uomo spirituale dall'uomo materiale, fino al trionfo delle scienze e della tecnica che avrà
nell'uomo capitalista il libero pensatore e l'unico protagonista della storia, il soggetto centrale delle arti visive. Fu il Rinascimento fondato, sulla persona umana e sulla sintesi fra arti e scienze, che Raffaello, nonché Michelangelo e Leonardo, ritroveranno nella chiesa universale proprio perché cristiana. Il '400 era stato il secolo delle riscoperte di Platone e Aristotele, dell'unitarismo intellettuale che andava da Cusano a Pico della Mirandola, fautori della necessità di trovare un intesa fra le differenti fedi religiose, insistendo l'allora classe intellettuale ed ecclesiale sulle affinità sostanziali non solo religiose (unico Dio, unico testo sacro), ma anche uniche realtà teoretiche e morali, nonché politiche e sociali. I concili di Basilea, Ferrara e Firenze (1431-1439) si erano espressi al riguardo nelle relazioni con la Chiesa ortodossa già da secoli scismatica; mentre la formazione degli stati nazionali - Spagna, Francia e Inghilterra – andava stabilizzandosi senza la successiva rottura fra le classi sociali. La “Scuola di Atena” di Raffaello, non a caso affrescava le pareti delle stanze vaticane della biblioteca e dello studio del Papa Giulio II e rappresentava il tentativo delle scuole di pensiero neoplatoniche di fornire un pensiero ecumenico frutto del dialogo non solo fra teologi e filosofi, ma anche fra matematici e fisici. La concezione dell'uomo Vitruviano di Leonardo, fra il 1509 e il 1511, trionfava nelle mani sapienti del maggiore pittore che stava in quell'epoca, Raffaello Sanzio. Il dialogo e la “democrazia” del sapere non durò a lungo: le scoperte geografiche quasi parallele, la tendenza della nuova classe imprenditoriale alla monopolizzazione; l'irriducibile sovranità dei singoli stati nazionali e lo spiccato temporalismo della Chiesa Romana di Papa Borgia, di Giulio della Rovere e di Leone Decimo dei Medici, fecero il resto. Quando la sera del venerdì santo dell'aprile del 1520, il trentasettenne Raffaello moriva di una sconosciuta malattia forse sessuale, l'illusione di un uomo più felice, portatore di una vita e di un'arte dorata perché naturale, venne meno.

Il resto del '500, del '600, fino alla Rivoluzione Francese del 1789, la versatilità artistica, sia che in pittura, o scultura, perse quello spirito umano che la rendeva soprannaturale. La specializzazione delle arti e la separazione delle scienze nasceva come è noto con il pensiero cartesiano. Manierismo, Rococò ed Arcadia si susseguiranno in contemporanea a guerre di religione e di successione dinastica che nascondevano lo sviluppo anarchico del capitalismo. Crebbero i muri fra cristiani e ideologie progressiste, con la pari frammentazione delle società italiane e tedesche, costrette a subire la prevalenza di potenze e classi dirigenti straniere, tanto che “Franza o Spagna purché se magna”, come diceva una massima popolare romana all'ombra del Papa Re. Di qui, nella storia dell'Arte la nascita di un termine che apparve idoneo nell'800 a dividere due epoche, il preraffaellismo e il postraffaellismo. Il primo storico che volle ribaltare lo stato di stallo che aveva bloccato l'anima spirituale delle Arti, accerchiata dal materialismo illuminista di Voltaire, fu un quasi sconosciuto monaco prussiano, Wachenroder che nel 1796 scrisse un libello che riaprì il discorso su Raffaello: “gli sfoghi del cuore di un monaco amante dell'arte”. Anima purissima di sognatore, si espresse per un'arte a lui negata non perché ne fosse privo e incapace, ma in quanto dono divino di grazia. L'arte era un sentimento misterioso perché derivata da Dio. La parola, figlia dell'osannata ragione, non era alcun prodotto di tale grazia, ma la pittura e la musica lo erano pienamente. E chi era l'artista mandato da Dio? Raffaello! Unico pittore della storia che dimenticava di essere solo un uomo e che invece esteticamente diventava uno strumento di Dio, che viveva in uno stato di beatitudine, che nella sua cella prega e dipinge, come pregava e lavorava il benedettino medievale, ma che però imitava la natura, riproducendo idee innate che vincolavano la mera esperienza dei sensi e che riproducevano la bellezza che Dio ha fissato nell'anima. Un Winckelmann in veste cristiana. Il viaggio a Norimberga nella casa di Dürer e le visite al Duomo gotico di Bamberga e alla chiesa cattolica di S. Martino, causarono il rilancio di Raffaello, delle sue Madonne anteriori al periodo romano sotto le vesti di Galatea. Unità di generi che lo rendono uno dei primi romantici. Ma siamo ormai alle soglie del '800 e qui ritroviamo una notevole traccia di Raffaello in un altro artista, oggi in esposizione alla Gemäldegalerie di Berlino, che sul modello di Dürer - incisore eccezionale contemporaneo proprio di Raffaello - riprodusse la breve vita del pittore urbinate. Si trattava di Johannes Riepenhausen, che insieme al fratello Franz, lavorò a Dresda e a Kassel nella bottega di un discepolo di Wackenroder, W. Tischbein. Poi nel 1807 scesero a Roma e si dedicarono a personaggi del medioevo e al Perugino, maestro di Raffaello. Anzi, Johannes, in linea con le regole del monaco di Jena, cominciarono ad incidere una serie di medaglioni sulla vita e le opere del Sanzio. Sopratutto, fecero da ufficiali di collegamento con la scuola dei Nazareni, un gruppo di artisti figurativi tedeschi romantici che si opposero al classicismo accademico, che dopo Winckelmann e Mengs, avevano respinto forme manieriste e scolastiche, mirando piuttosto ad una pittura fondata sul binomio patria e religione. Erano criteri che ritornavano ad un'età arcaica e al colore molto forte e altamente stilizzato. I loro modelli spaziavano sul '400 italiano, dal Beato Angelico a Luca Signorelli - che il von Platen qualche anno dopo narrò in una ballata ancora non tradotta in italiano - e il Perugino, per finire a Raffaello quando era ancora un seguace del pensiero filosofico di Marsilio Ficino. 
E di quel gruppo faceva parte Friedrich Overbeck, legato ai fratelli Riepenhausen, presso cui abitò a Roma e dove dipinse uno dei più famosi quadri dell'età moderna, “Italia e Germania”, (1828). Vissuto a Roma come ultimo esponente, Overbeck a sua volta diede impulso a una scuola analoga per la natura antiaccademica e alla rivalutazione della pittura del '400. Il loro maggiore autore, Antonio Bianchini, ribadì la riscoperta del primo Raffaello, prendendo spunto dalla ricerca di formule linguistiche autentiche che già a Firenze avevano avuto battesimo nel caffè letterario del Vieusseux. Nel 1842 - in coincidenza con lo sviluppo della Giovane Italia del Mazzini - venne pubblicato un altro libello, “il purismo nelle arti”, che da una parte si prodigò nel rivedere in positivo il Perugino e il suo alunno migliore Raffaello, ma che dall'alto gli rimproverarono l'adesione al classicismo, non concependo alcuna mediazione con le convenzioni neoclassiche che invece avevano portato alla mera imitazione e alla conseguenziale falsità del reale. Era un manifesto che precludeva in sostanza al realismo successivo di Ingres e Hayez. Apogeo di questo singolare movimento nazionalista fu una loro prima esposizione a Firenze nel 1861, dove il nascente stato italiano retto dalla borghesia liberale
appena giunta al governo, plaudeva a certe poetiche del Vero, che però favoriva il precedente
glorioso della nazione che era stata ad un passo dall'unificazione politica, ma dall'altro lato non
avevano avuto coraggio - o meglio avevano preferito una politica libero scambista - di avviare una
nuova società democratica. Come nella letteratura gli scapigliati avevano anticipato e non avevano
oltrepassato il limite della mera denunzia, così i puristi di Firenze si appiattirono nel mero
accademismo di regime. Ma un giovane artista italo - inglese Dante Gabriel Rossetti nel settembre
del 1848, in piena età vittoriana, costituì una confraternita di artisti sul modello della confraternita
tedesca a Roma. Il movimento inglese, altrettanto antiaccademico, alquanto riservato e legato
all'arte gotica, si dichiarò preraffaellita come quello dei puristi italiani e si legò ai valori borghesi
industriali e progressisti, benché fuori dal rigido teismo anglicano e piuttosto radicale e fautore del
decadentismo culturale, della parità dei sessi e alquanto liberale nei costumi, visto che fra i
fondatori vi fu anche Oscar Wilde. Scelsero quella etichetta per magnificare l'arte tardo medievale e
nel rivedere il Raffaello perugino e fiorentino, che fino al 1509 aveva idealizzato la natura e la
bellezza a danno della giustizia. Il loro bene era dato dall'unico valore ambito, la bellezza classica
ereditata dai tedeschi romantici. Amavano Dante Alighieri e i commenti del pittore gotico Füssli;
dipingevano a colori forti, come “The Valkyrie's Vigil” (di E. R. Hughes, 1906); “La Beatrice” di
Elizabeth Siddal (1864); “L'Ophelia” di J. E. Millais e tutta una seria di paesaggi dove
primeggiavano le ombre e i cimiteri. Aprirono la via alla pittura decadente di Klimt e al simbolismo
di Segantini. Inoltre Rossetti e W. Hunt e J. W.Waterhouse prediligevano i temi biblici e dell'età
dell'oro, quella mitica visione sensualista ben lontana dalla femminilità eterea della cultura
vittoriana e diedero impulso al mondo femminile scultorio, senza però dimenticare la dignità della
donna, di cui ne approfittò il nascente movimento delle suffragette. La precoce morte del Rossetti e
della sua E. Siddal; le feroci critiche del socialista Dickens e del conservatore W. Turner, già nel
1853 produssero la fine dell'associazione, dissoltasi per il prevalere dell'elemento umano
materialistico che proprio in Inghilterra di mezzo secolo imponeva attenzione ai fattori sociali che
avranno immediato riscontro nel verismo italiano con Verga e Capuana e in quello francese di Zola.

E tuttavia il filo rosso preraffaellita non rimase sepolto dal fango del reale. La reazione culturale
mitteleuropea al positivismo realista ebbe un conato ragguardevole nel primo novecento da parte di
Rudolf Steiner e nell'ottima biografia di Hermann Grimm, che sfatarono con documenti alla mano
la presunta identificazione di Raffaello col classicissimo conservatore. Grimm per primo distinse le
due fasi della breve vita dell'Urbinate e ne individuò nella prima parte perugina e fiorentina tutti
i motivi di un Raffaello diviso da un tormento interiore che appare tutto nella stanza di Eliodoro,
fino a uscire nelle figure piene di dubbi amletici della scuola di Atene, senza contare le contorsioni e
i vuoti linguistici del Vasari che stranamente aveva taciuto sulle modalità della morte, avvenuta a
suo dire proprio lo stesso giorno del compleanno. Steiner scrisse nel suo testamento spirituale nel
1924 che l'opera di Grimm era stata una misurazione della sua grandezza con riga e compasso,
priva di quella spiritualità interiore. Quello studio – mai peraltro completato - apparve a Steiner
insufficiente nel trovare la mediazione fra mondo classico e mondo moderno. Invece lo Steiner
rivedeva un Raffaello sceso dal piedistallo del mito e divenuto piuttosto l'uomo moderno che si
rivolge al reale senza dimenticare l'ideale, il dito alzato di Platone e la mano tesa di Aristotele al
centro della scuola di Atene. Posizione eclettica che riscattava l'ironia dissacrante di Picasso che
nel 1919, dopo un viaggio in Italia, aveva avuto modo di rivedere ironicamente la Farnesina e gli
angioletti usati e abusati dai manieristi barocchi del '600. La sicurezza delle fonti sulla vita di
Raffaello, peraltro sarà messa in luce nel quattrocentesimo anno dalla morte e non si escluse che fra
lo “sposalizio della Vergine”, primo grande affresco “preraffaelita e la “trasfigurazione” ultima
opera del 1519, Raffaello subì una sorta di crescita intellettuale e non certo un “lavaggio del
cervello”, una revisione conservatrice che ne farebbe un pallido difensore dell'accademismo piccolo
borghese. Del resto, la corrente più anarchica di metà '900, il Surrealismo, non mancherà di
rendergli omaggio nella carriera artistica di un Salvatore Dalì che nel 1920, dopo avere dichiarato
con la sua nota supponenza che “forse sarò disprezzato e incompreso anche dopo morto, ma sarò un
genio e che il surrealismo sono io!”; affermò pure che“il nuovo Raffaello sono io!”; tanto da
realizzare quindi il proprio autoritratto col collo di Raffaello stesso. Intemperanza che testimonia
però l'idea di irriducibilità dell'arte di Raffaello, della sua trasversalità e presenza nei nuovi
movimenti culturali succedutosi nel corso dei secoli. E nel '900 un autore che ne comprese il valore
interculturale fu un incisore tedesco erede di Dürer, Max Klinger che non per caso oggi è presente
alla Pinacoteca Moderna di Monaco. Max Klinger, maestro avvenirista che fin dal 1877 sviluppava
i suoi disegni con penna ad inchiostro di china, rompeva con l'accademia di Berlino e si rifugiava a
Oslo dove aprì una scuola che anticipò nello stile di pittura la rappresentazione del sogno. Nella
serie di stampe “un guanto”, apriva una porta da dove transiteranno prima Munch, suo alunno
preferito, poi van Gogh fino ad arrivare all'espressionismo tedesco e al surrealismo dello stesso
Dalì. Figlie dello spiritualismo di inizio secolo, le dieci incisioni di Oslo ruotano attorno a una tema
onirico come un oggetto perduto e poi ritrovato, lungo un percorso che va dalla passeggiata con
l'amata e con i desideri repressi che emergono lungo la strada, passando dalla paura alla nostalgia,
finché un uccello rubò il guanto e provocò l'abbandono della donna amata. Desiderio
simbolicamente alternato alla perdita dell'amore e causa del tormento del pittore che vede il mondo
con occhi diversi accecato dai suoi stati d'animo. Freud, qualche anno dopo ne farà il suo manifesto
nell'esame psicologico dell'opera di Klinger. Ma non mancò anche di rilevare come in quei disegni
emergesse un disegno razionale volto a dare una dimensione reale a un sogno sperato ma non
realizzato. 

Processo estetico che vide anche presente proprio nel Raffaello dei Palazzi Vaticani e
negli affreschi dell'attuale Sala della Segnatura. La sua scuola psicologica dell'arte, partendo da un
saggio non secondario - un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci (1910) - ha ricostruito lo stretto
legame fra vita e ricordo di un'infanzia non certo felice e che non pochi artisti sublimano in quadri
pieni di malinconie e speranze di migliori esistenze. Di qui, la scelta di rileggere opere molto note
alla luce di una domanda di maggiore autenticità dell'esistere realisticamente intrisa dalle proprie
aspirazioni, idealizzando momenti di convivenza familiare come vorrebbe che si fossero svolti, non
per come veramente avvenuti. Il rapporto fra Vero e Bene, fra Bellezza e Giustizia che Raffaello
aveva mirabilmente descritto nelle stanze vaticane; viene trasferito dalla psiche del pittore a livello
di sogno, dove appunto la mediazione culturale dei saperi e dei valori religiosi assume contorni reali
di speranze. Oppure, gli illustri filosofi ivi raffigurati esprimerebbero il bisogno dell'autore di
sostituire il conflitto reale alla pace virtuale. Interpretazione che da ultimo ha visto come originale
fautore il filosofo Giovanni Reale che ha dato alla “Scuola di Atene” un significato di famiglia
umana - e di società universale - che discute e dialoga sotto lo stesso tetto pur di opinioni diverse,
magari contrapposte per ragioni di per sé valide, tutte rivolte però all'obiettivo finale della pace,
cioè quel vero, quel bene e quella bellezza, che Raffaello ci ha indicato per sempre nei suoi
immortali dipinti.

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