martedì 21 aprile 2020

La storia di Päivi. Capitolo 13. La delicatezza

La delicatezza

Ricordo un altro episodio.
Päivi ed io eravamo seduti a un tavolo sulla terrazza della casetta[1] di fianco allo stadio. Alcuni ballavano, altri scherzavano, altri, come Danilo, seguitavano a bere.
Accanto a noi c’era Bruno con il quale facevo una discussione animata, quasi polemica, in italiano, pronunciato per giunta da me con la cantilena pesarese che allunga le vocali, apocopato alla romana dall’amico dell’Urbe. L’argomento non era importante, tanto che non lo ricordo. A ciascuno di noi due importava solo prevalere sull’altro. Con insensatezza giovanile.
A Päivi traducevo l’essenziale, ma la mia compagna rimaneva comunque esclusa dalla discussione concitata.
A un tratto venne a parlarle in finlandese e invitarla a ballare, il suo insegnante di ungherese, un uomo di qualche valore, mi aveva detto lei stessa, poiché la motivava a studiare una lingua che era sì imparentata con la sua, ma era altrettanto inutilizzabile fuori dai confini delle loro terre.
Bello, per fortuna, il professore ungherese non era. Ma nemmeno tanto brutto da fare schifo a una donna.
Päivi mi chiese il permesso di seguirlo. Io ovviamente glielo diedi.
Come potevo non darglielo? Dimmelo tu lettore, come potevo?
I due ballarono a distanza rispettosa invero, dico rispettosa nei miei confronti, quindi sedettero a un tavolo non lontano e ben visibile dal nostro.
Ogni tanto lanciavo un’occhiata obliqua verso di loro, prima con curiosità, poi con una certa apprensione: mi sembrava che parlassero volentieri e non senza una certa intesa. Quasi come noi due la prima sera, povero me!
Di Päivi mi fidavo, poiché non mi dava l’idea dell’adultera: dopo tutto era la mia prima finnica di quattro che non commetteva adulterio facendo l’amore con me. Un valore che scarseggiava già allora, e forse da sempre nel mondo. La fedeltà dico.
Lei dunque non era tra le pregiudicate, seppur cristescamente perdonate quali infedeli, eppure la situazione che si stava creando, dal mio punto di vista non era simpatica: in fondo la compagna che amavo aveva lasciato il nostro tavolo dove stavamo uno accanto all’altra per andare a sedersi altrove, con uno che non le dispiaceva e quasi sicuramente le faceva la corte. Del resto non potevo chiederle di tornare seduta dove io e Bruno discutevamo in italiano e con una certa foga.
Päivi però si accorse che la sua assenza mi metteva in ansia, mi faceva soffrire, e dopo pochi minuti tornò. Disse che preferiva guardarmi mentre parlavo nella mia lingua, anche se non traducevo, piuttosto che dialogare nella sua con qualsiasi altra persona. Questa delicatezza, “poi che il sospecciar fu tutto spento”1, mi motivò a fare del mio meglio per evitarle dispiaceri o apprensioni.
Io amo la delicatezza2. Ora più che mai c’è grande carenza di questa virtù, e mi manca.

Ricordo un’altra una sera di agosto, intorno al 10.
Päivi e io stavamo cenando con tanti altri nella mensa dell’Università di Debrecen. A in certo momento passò una voce che divenne presto un grido di giubilo: Nixon resigned!. Ci fu un applauso scrosciante da parte di tutti noi: Europei, Sovietici, Vietnamiti e altri Asiatici.
Io e Päivi ci alzammo come tutti gli altri. Ci abbracciammo, ci baciammo, e abbracciammo anche altri vicini a noi, ragazze e ragazzi di allora. Avevamo le lacrime agli occhi. Lacrime di gioia. E’ stata una delle sere belle di mia vita mortale. Il successivo abortimento della nostra bambina, le stragi di stato, l’egoismo, il capitalismo incontrollato e il conseguente virus globale con tutti gli altri orrori compresi nei 46 anni seguenti non potranno mai annientare la gioia di quella sera e di quel mese dell’estate del 1974 anche se già in autunno vidi la fine delle mie gioie


[1] Cfr. Dante, Inferno X, 57.

2"e[gw de; fivlhmmajbrosuvnan" Fa parte di un frammento di Saffo (58 Voigt) trasmesso dal Papiro di Ossirinco 1787

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