venerdì 10 aprile 2020

La storia di Päivi. Capitolo 3. L’approccio riuscito


Elsa1759, Madame Chauchat
Presi un bicchiere, ci versai della birra chiara, poi mi appoggiai con la schiena al muro di sostegno della scalea per cui si scende nel megaron e di lì si risale, vincitori o sconfitti. Quindi diedi inizio alla prova guardandola intensamente e tentando di mostrarle, attraverso gli occhi, i miei contenuti interiori dai quali, immaginavo, non dovevano divergere troppo i suoi, se non mi ingannavo nel valutarne lo stile che, a vedersi, era abbastanza simile al mio, anche se, forse, più al mio di adesso, dopo il processo di identificazione con lei, che a quello di allora.
Sebbene la ragazza rossa e pensosa non mi sembrasse il tipo che si guarda intorno per farsi guardare e per mostrarsi disponibile, non escludevo che mi notasse e si incuriosisse di me a prima vista, poiché quella finnica era pur sempre una femmina giovane e non accompagnata da un maschio ed era priva di anelli quali ceppi alle dita e all’amore; era dunque probabilmente libera e magari pure desiderosa di innamorarsi. Al pari di me. Io del resto mi sentivo, e forse anche ero, nella migliore tra le mie forme possibili: i trent’anni, del resto non ancora compiuti , non mi avevano incanutito, né spelacchiato, né ingrassato, come altri della mia età, anzi, avevano dato al mio viso molto abbronzato e un poco segnato da rughe, leggeri solchi seminati dal Sole, il dio che nutre la vita, un’espressione consapevole che potenziava la forza attrattiva dell’insieme.
In quel pomeriggio di luglio dunque nutrivo una certa fiducia nella buona riuscita del mio intento, un poco ricordando i successi[1] del ’71[2] e del ’72[3] in circostanza analoghe, e ancora di più perché avevo qualcosa di preciso da dire, da chiedere e offrire, a una donna dotata e ricca di anima, quale pareva quella creatura dai capelli lunghi, dall’aria intelligente, vestita di velluto purpureo. Allora non sapevo che la porpora può essere sinistramente ominosa e annunciare la morte vicina[4].
Non lo immaginavo neppure, e aspettavo agognando il momento opportuno, l’occasione che mi venisse offerta di avvicinarmi alla meta e gettarmi sul campo fiorente del suo seno, del suo ombelico che identificavo già con quello del mondo.

“Dio, come mi piace! - pensai ancora una volta - Dio, fai che possa piacere a lei. Se mi dai quella donna, e se è come appare, ti prometto che d’ora in avanti farò di tutto per evitare qualsiasi commercio con femmine stolte. “Tu sei piena di spirito” pensavo poi, rivolgendo lo sguardo a quell’ideale mio incarnato in tale femmina umana .
E cercavo di farle scoprire l’anima mia, mediterranea, ma ugualmente non ordinaria, lanciando occhiate piene di pathos intelligente.
Lei però, con mio smacco, non mi contraccambiava, forse nemmeno mi aveva visto. Parlava con un’altra, finnica probabilmente, senza guardarsi intorno come fanno gli eterni cercatori di amore.
“Stai a vedere che è incinta anche questa - pensai - non sarebbe comunque un ostacolo insormontabile. Io l’amo. Non cederò. La grande difficoltà scoraggia il fanciullo o l’uomo imbelle. Tu, gianni, non sei né l’uno né l’altro. Commisura le possibilità di successo alle tue forze e alla necessità dell’amore. E all’esperienza che ti ritrovi. Non contare i tuoi anni, ma le non poche donne che hai conosciuto meravigliosamente”.
Vero è che le due conoscenze più belle erano state precocemente interrotte e tale probabilmente sarebbe stata anche questa, ma non era il momento di lasciarsi frenare da tali pensieri.
Me ne sentivo già innamorato, ne andavo pazzo, poiché il suo stile serio e naturale la distingueva da tutti, e accresceva ogni momento la prima impressione che quell’immagine potesse contenere un’interiorità ricca e rara, e fosse proprio l’antitesi dell’istriona nevrotica, sempre bramosa di spalancare il suo insopportabile vuoto, gesticolando, sbraitando, dando ordini con fiero cipiglio, o fingendo di struggersi in lacrime.
Ogni minuto che passava, mentre nel pomeriggio dell’estate dalla luce già meno alta si allungavano rapidamente tutte le ombre, la necessità dalle mani d’acciaio mi spingeva, con forza sempre maggiore, a entrare in contatto con quella che mi appariva il mio stesso ideale di donna, anzi di essere umano.
“Tu sei nobile e seria - recitavo e pregavo - tu sicuramente leggi, impari e capisci, creatura. Tu parli di rado con voce soave. Non c’è in te alcuna traccia di posa, di civetteria, di menzogna. Io ho bisogno di te.
Cerca di capire anche questo. Noi due dobbiamo parlare: vedrai che, ispirato da te, riuscirò a dirti qualche cosa di interessante, di bello e degno della tua nobiltà”.

Mentre pregavo l’idolo mio, osservavo la ragazza reale, volendo significarle la mia profondità interiore e il bisogno che avevo dell’amore, dell’amore di lei.
Ma nonostante i grandi sforzi espressivi, non progredivo: dopo cinque minuti di quella scena, fin troppi, mi accorsi che non potevo colpire il bersaglio soltanto guardandola, seppure intensamente e con occhi pieni di intelligenza e luminosi di pathos, poiché lei non mi prestava attenzione; forse nemmeno si era accorta di me. Capii che dovevo andare a parlarle. Dovevo andarci, anche se non mi aveva notato, né guardato, dovevo, poiché la splendidissima rossa vestita di color di fiamma viva, con gli occhiali da vista e l’aria pensosa, ispirata forse da Dio, poteva essere proprio colei che mi avrebbe spinto alle cose egregie che dovevo a me stesso, ai miei studenti, e a voi lettori cari[5]. 
Le arrivai vicino, la guardai a più riprese, aspettai che mi desse un’occhiata, e quando, come Dio volle, lo fece, le rivolsi la parola, in inglese ovviamente, con calma, a bassa voce, affinché comprendesse subito che ero diverso dal coro della gente fangosa, gracidante nella palude dei più, e che non mi presentavo per scherzo, cercando solo un’avventura amorosa con una straniera nordica e pure orientale, presumibilmente più libera in cose erotiche di un’italiana ancora inceppata da divieti e superstizioni, ma volevo una relazione profonda proprio con lei, lei sola, identificata con la felicità, ossia con il destino buono che doveva essere il mio.

Dissi: “Senti, scusa, io non ti conosco, ma ti trovo interessante”.
“Proprio me?” domandò con straordinaria, elegante modestia.
L’abito letterario mi fece pensare alla Chauchat di Thomas Mann.
“Sì , appunto, proprio te, e mi piacerebbe se tu volessi parlare con me. Mi chiamo Gianni”.
Mi osservò senza sdegno né compiacimento. Era rimasta seria e sembrava incuriosita.
Infatti mi chiese: “Per quale ragione vuoi parlare con me?”.
“Perché in te c’è qualcosa di bello, di fine, di molto attraente. Penso che non conoscerti sarebbe un’occasione perduta. Per me di sicuro e forse anche per te. Considera che questo momento cruciale potrebbe non tornare più se mi mandi via. Per me sarebbe una perdita grande. Hai un bello stile. Come ti chiami e da dove vieni?”
Il mio destino che, come il suo d’altra parte, conteneva il nostro vicendevole amore, mi fece dire tali parole comuni, banali, con l’aria della sicurezza e la forza della persuasione.
Päivi mi osservò di nuovo per un momento, poi, da par sua, cioè senza posare né gesticolare, molto semplicemente e direttamente, rispose: “ Tu credi davvero che in me ci sia qualche cosa di buono? Forse ti sbagli. Comunque mi chiamo Päivi. Sono finlandese. D’accordo, parliamo, se vuoi. Anche tu non sembri ordinario. Forse quello speciale tra noi due sei proprio tu”. Pensai che potesse parlare con un velo di ironia. Decisi di non tenerne conto.
“Quello che ho di speciale me lo suggerisci tu. E’ per la volontà di parlare con te e di piacerti che cerco di tirare fuori il meglio di me.”
“ In effetti hai un modo di proporti che non mi dispiace. Sei un uomo per lo meno educato. Di che cosa vuoi parlare con me?”
“Di molte cose allegre e di alcune serie. Dalla festa della nostra conoscenza alla tragedia greca se vuoi. Ma prima di me e di te”.
“Sei greco? L’aria mediterranea ce l’hai. La conosco e non mi dispiace. Mio fratello è fidanzato con una greca”.
“No, non sono greco, sono italiano. Però ci hai quasi preso. A parte che amo la cultura greca e ne sono stato formato, i Greci quando ci vedono, dicono ‘ italiano una razza, una faccia’. Sono italiano di Pesaro sulla costa adriatica, ma ho studiato greco antico e latino all’Università di Bologna, e da quest’anno li insegnerò in un liceo di quella città. Può interessarti?”
 “ Come no? I Greci classici, entrano nei miei studi e nei miei interessi, soprattutto Sofocle in particolare. Freud gli è debitore. Anche a Empedocle deve non poco. Certo che possiamo parlare. Non da eruditi pedanti, spero”.
“No di certo. Non sono il tipo della talpa filologica stigmatizzata da Nietzsche [6]. Studio parecchio ma faccio anche dello sport e qualche volta scendo per strada a tamburellare ditirambi oppure indago me stesso per diventare quello che sono: apollineo e dionisiaco.
Guardarti, starti vicino mi vivacizza, realizza e mi riempie di gioia”.
 “ Va bene - fece lei allora - Aspetta solo un momento: mi scuso con gli altri finnici, prendo un bicchiere di birra, poi ci sediamo insieme da qualche parte, dove vuoi tu”.
“Ce l’ho fatta - pensai, quasi lacrimando di gioia - ce l’ho fatta Dio, grazie a te e alla mamma mia santa. Il sole fra tre ore tramonta, poi il cielo sereno si arrossa, torma azzurro, si annera. Poi si schiarisce al biancheggiar della luna. La terra è in mezzo alle stelle, e sulla terra ci siamo noi due, insieme. E’ questa la femmina umana, la Salvatrice, la Redentrice dovuta alla mia umanità. Con lei, nel suo prato fiorito, voglio celebrare un’orgia santa".

gianni ghiselli



[1] Cfr. quanto dice Giuliano Augusto quando si prepara ad attaccare Costanzo e parla ai soldati: quid agi oporteat bonis successibus instruendi (Ammiano Marcellino, Storie, 21, 5, 6).
[2] Cfr. la storia di Helena presente nel blog.
[3] Questa è la storia di Kaisa .
[4] Nel V dell’Iliade purpurea è la morte che prese il troiano Ipsenore colpito da Euripilo: “e[llabe porfuvreo~ qavnato~ kai; moi'ra krataihv” (v. 839, lo prese la morte purpurea e la moira possente. Questo verso viene ripetuto da Giuliano quando, il 6 novembre del 354 viene nominato Cesare dal cugino Costanzo. In quella circontanza risplendeva nel fulgore della porpora imperiale ( imperatorii muricis fulgore), i soldati lo avevano acclamato battendo gli scudi sul ginocchio, e, salito sul cocchio imperiale, procedeva verso la reggia.
[5] Oggi il “caro” si lesina, anche nel saluto epistolare, per diffidenza, grettezza, avarizia. Io l’ho sempre usato, come segno di cortesia almeno, spesso pure di affetto, e se chi lo riceve si spaventa o addirittura si offende, peggio per lui.
[6] Per i filologi come talpe cfr. la lettera di Nietzsche a Erwin Rohde, del 20 novembre 1868: “Quella brulicante genia di filologi dei giorni nostri, quell’affaccendarsi da talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferente verso i veri, urgenti problemi della vita”.

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