Elsa1759, Madame Chauchat |
Presi un
bicchiere, ci versai della birra chiara, poi mi appoggiai con la schiena al
muro di sostegno della scalea per cui si scende nel megaron e di lì si risale,
vincitori o sconfitti. Quindi diedi inizio alla prova guardandola intensamente
e tentando di mostrarle, attraverso gli occhi, i miei contenuti interiori dai
quali, immaginavo, non dovevano divergere troppo i suoi, se non mi ingannavo
nel valutarne lo stile che, a vedersi, era abbastanza simile al mio, anche se,
forse, più al mio di adesso, dopo il processo di identificazione con lei, che a
quello di allora.
Sebbene la
ragazza rossa e pensosa non mi sembrasse il tipo che si guarda intorno per
farsi guardare e per mostrarsi disponibile, non escludevo che mi notasse e si
incuriosisse di me a prima vista, poiché quella finnica era pur sempre una
femmina giovane e non accompagnata da un maschio ed era priva di anelli quali
ceppi alle dita e all’amore; era dunque probabilmente libera e magari pure
desiderosa di innamorarsi. Al pari di me. Io del resto mi sentivo, e forse
anche ero, nella migliore tra le mie forme possibili: i trent’anni, del resto
non ancora compiuti , non mi avevano incanutito, né spelacchiato, né
ingrassato, come altri della mia età, anzi, avevano dato al mio viso molto
abbronzato e un poco segnato da rughe, leggeri solchi seminati dal Sole, il dio
che nutre la vita, un’espressione consapevole che potenziava la forza
attrattiva dell’insieme.
In quel
pomeriggio di luglio dunque nutrivo una certa fiducia nella buona riuscita del
mio intento, un poco ricordando i successi[1] del
’71[2] e
del ’72[3] in
circostanza analoghe, e ancora di più perché avevo qualcosa di preciso da dire,
da chiedere e offrire, a una donna dotata e ricca di anima, quale pareva quella
creatura dai capelli lunghi, dall’aria intelligente, vestita di velluto
purpureo. Allora non sapevo che la porpora può essere sinistramente ominosa e
annunciare la morte vicina[4].
Non lo
immaginavo neppure, e aspettavo agognando il momento opportuno, l’occasione che
mi venisse offerta di avvicinarmi alla meta e gettarmi sul campo fiorente del
suo seno, del suo ombelico che identificavo già con quello del mondo.
“Dio, come
mi piace! - pensai ancora una volta - Dio, fai che possa piacere a lei. Se mi
dai quella donna, e se è come appare, ti prometto che d’ora in avanti farò di
tutto per evitare qualsiasi commercio con femmine stolte. “Tu sei piena di
spirito” pensavo poi, rivolgendo lo sguardo a quell’ideale mio incarnato in
tale femmina umana .
E cercavo di
farle scoprire l’anima mia, mediterranea, ma ugualmente non ordinaria,
lanciando occhiate piene di pathos intelligente.
Lei però,
con mio smacco, non mi contraccambiava, forse nemmeno mi aveva visto. Parlava
con un’altra, finnica probabilmente, senza guardarsi intorno come fanno gli
eterni cercatori di amore.
“Stai a
vedere che è incinta anche questa - pensai - non sarebbe comunque un ostacolo
insormontabile. Io l’amo. Non cederò. La grande difficoltà scoraggia il
fanciullo o l’uomo imbelle. Tu, gianni, non sei né l’uno né l’altro. Commisura
le possibilità di successo alle tue forze e alla necessità dell’amore. E
all’esperienza che ti ritrovi. Non contare i tuoi anni, ma le non poche donne
che hai conosciuto meravigliosamente”.
Vero è che
le due conoscenze più belle erano state precocemente interrotte e tale
probabilmente sarebbe stata anche questa, ma non era il momento di lasciarsi
frenare da tali pensieri.
Me ne
sentivo già innamorato, ne andavo pazzo, poiché il suo stile serio e naturale
la distingueva da tutti, e accresceva ogni momento la prima impressione che
quell’immagine potesse contenere un’interiorità ricca e rara, e fosse proprio
l’antitesi dell’istriona nevrotica, sempre bramosa di spalancare il suo
insopportabile vuoto, gesticolando, sbraitando, dando ordini con fiero
cipiglio, o fingendo di struggersi in lacrime.
Ogni minuto
che passava, mentre nel pomeriggio dell’estate dalla luce già meno alta si
allungavano rapidamente tutte le ombre, la necessità dalle mani d’acciaio mi
spingeva, con forza sempre maggiore, a entrare in contatto con quella che mi
appariva il mio stesso ideale di donna, anzi di essere umano.
“Tu sei
nobile e seria - recitavo e pregavo - tu sicuramente leggi, impari e capisci,
creatura. Tu parli di rado con voce soave. Non c’è in te alcuna traccia di
posa, di civetteria, di menzogna. Io ho bisogno di te.
Cerca di
capire anche questo. Noi due dobbiamo parlare: vedrai che, ispirato da te,
riuscirò a dirti qualche cosa di interessante, di bello e degno della tua
nobiltà”.
Mentre
pregavo l’idolo mio, osservavo la ragazza reale, volendo significarle la mia
profondità interiore e il bisogno che avevo dell’amore, dell’amore di lei.
Ma
nonostante i grandi sforzi espressivi, non progredivo: dopo cinque minuti di
quella scena, fin troppi, mi accorsi che non potevo colpire il bersaglio
soltanto guardandola, seppure intensamente e con occhi pieni di intelligenza e
luminosi di pathos, poiché lei non mi prestava attenzione; forse
nemmeno si era accorta di me. Capii che dovevo andare a parlarle. Dovevo
andarci, anche se non mi aveva notato, né guardato, dovevo, poiché la
splendidissima rossa vestita di color di fiamma viva, con gli occhiali da vista
e l’aria pensosa, ispirata forse da Dio, poteva essere proprio colei che mi
avrebbe spinto alle cose egregie che dovevo a me stesso, ai miei studenti, e a
voi lettori cari[5].
Le arrivai
vicino, la guardai a più riprese, aspettai che mi desse un’occhiata, e quando,
come Dio volle, lo fece, le rivolsi la parola, in inglese ovviamente, con
calma, a bassa voce, affinché comprendesse subito che ero diverso dal coro
della gente fangosa, gracidante nella palude dei più, e che non mi presentavo
per scherzo, cercando solo un’avventura amorosa con una straniera nordica e
pure orientale, presumibilmente più libera in cose erotiche di un’italiana
ancora inceppata da divieti e superstizioni, ma volevo una relazione profonda
proprio con lei, lei sola, identificata con la felicità, ossia con il destino
buono che doveva essere il mio.
Dissi:
“Senti, scusa, io non ti conosco, ma ti trovo interessante”.
“Proprio
me?” domandò con straordinaria, elegante modestia.
L’abito
letterario mi fece pensare alla Chauchat di Thomas Mann.
“Sì ,
appunto, proprio te, e mi piacerebbe se tu volessi parlare con me. Mi chiamo
Gianni”.
Mi osservò senza
sdegno né compiacimento. Era rimasta seria e sembrava incuriosita.
Infatti mi
chiese: “Per quale ragione vuoi parlare con me?”.
“Perché in
te c’è qualcosa di bello, di fine, di molto attraente. Penso che non conoscerti
sarebbe un’occasione perduta. Per me di sicuro e forse anche per te. Considera
che questo momento cruciale potrebbe non tornare più se mi mandi via. Per me
sarebbe una perdita grande. Hai un bello stile. Come ti chiami e da dove
vieni?”
Il mio
destino che, come il suo d’altra parte, conteneva il nostro vicendevole amore,
mi fece dire tali parole comuni, banali, con l’aria della sicurezza e la forza
della persuasione.
Päivi mi
osservò di nuovo per un momento, poi, da par sua, cioè senza posare né
gesticolare, molto semplicemente e direttamente, rispose: “ Tu credi davvero
che in me ci sia qualche cosa di buono? Forse ti sbagli. Comunque mi chiamo
Päivi. Sono finlandese. D’accordo, parliamo, se vuoi. Anche tu non sembri
ordinario. Forse quello speciale tra noi due sei proprio tu”. Pensai che
potesse parlare con un velo di ironia. Decisi di non tenerne conto.
“Quello che
ho di speciale me lo suggerisci tu. E’ per la volontà di parlare con te e di
piacerti che cerco di tirare fuori il meglio di me.”
“ In effetti
hai un modo di proporti che non mi dispiace. Sei un uomo per lo meno educato.
Di che cosa vuoi parlare con me?”
“Di molte
cose allegre e di alcune serie. Dalla festa della nostra conoscenza alla
tragedia greca se vuoi. Ma prima di me e di te”.
“Sei greco?
L’aria mediterranea ce l’hai. La conosco e non mi dispiace. Mio fratello è
fidanzato con una greca”.
“No, non
sono greco, sono italiano. Però ci hai quasi preso. A parte che amo la cultura
greca e ne sono stato formato, i Greci quando ci vedono, dicono ‘ italiano una
razza, una faccia’. Sono italiano di Pesaro sulla costa adriatica, ma ho
studiato greco antico e latino all’Università di Bologna, e da quest’anno li
insegnerò in un liceo di quella città. Può interessarti?”
“ Come
no? I Greci classici, entrano nei miei studi e nei miei interessi, soprattutto
Sofocle in particolare. Freud gli è debitore. Anche a Empedocle deve non poco.
Certo che possiamo parlare. Non da eruditi pedanti, spero”.
“No di
certo. Non sono il tipo della talpa filologica stigmatizzata da
Nietzsche [6].
Studio parecchio ma faccio anche dello sport e qualche volta scendo per strada
a tamburellare ditirambi oppure indago me stesso per diventare quello che sono:
apollineo e dionisiaco.
Guardarti,
starti vicino mi vivacizza, realizza e mi riempie di gioia”.
“ Va
bene - fece lei allora - Aspetta solo un momento: mi scuso con gli altri
finnici, prendo un bicchiere di birra, poi ci sediamo insieme da qualche parte,
dove vuoi tu”.
“Ce l’ho
fatta - pensai, quasi lacrimando di gioia - ce l’ho fatta Dio, grazie a te e
alla mamma mia santa. Il sole fra tre ore tramonta, poi il cielo sereno si
arrossa, torma azzurro, si annera. Poi si schiarisce al biancheggiar della
luna. La terra è in mezzo alle stelle, e sulla terra ci siamo noi due, insieme.
E’ questa la femmina umana, la Salvatrice, la Redentrice dovuta alla mia
umanità. Con lei, nel suo prato fiorito, voglio celebrare un’orgia santa".
gianni
ghiselli
[1] Cfr. quanto dice Giuliano
Augusto quando si prepara ad attaccare Costanzo e parla ai soldati: quid
agi oporteat bonis successibus instruendi (Ammiano
Marcellino, Storie, 21, 5, 6).
[4] Nel V dell’Iliade purpurea
è la morte che prese il troiano Ipsenore colpito da Euripilo: “e[llabe
porfuvreo~ qavnato~ kai; moi'ra krataihv” (v. 839, lo prese la morte purpurea e la moira
possente. Questo verso viene ripetuto da Giuliano quando, il 6 novembre del 354
viene nominato Cesare dal cugino Costanzo. In quella circontanza risplendeva
nel fulgore della porpora imperiale ( imperatorii muricis fulgore),
i soldati lo avevano acclamato battendo gli scudi sul ginocchio, e, salito sul
cocchio imperiale, procedeva verso la reggia.
[5] Oggi il “caro” si lesina,
anche nel saluto epistolare, per diffidenza, grettezza, avarizia. Io l’ho
sempre usato, come segno di cortesia almeno, spesso pure di affetto, e se chi
lo riceve si spaventa o addirittura si offende, peggio per lui.
[6] Per i filologi come talpe cfr.
la lettera di Nietzsche a Erwin Rohde, del 20 novembre 1868: “Quella brulicante
genia di filologi dei giorni nostri, quell’affaccendarsi da talpe, con le
cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate
un verme, e indifferente verso i veri, urgenti problemi della vita”.
Nessun commento:
Posta un commento