Con
gratitudine alle zie Rina, Giulia e Giorgia. Alla mamma Luisa e alla mamma
vicaria Antonia. Devo molto a tutte loro
Con
gli altri Italiani e con i Francesi ero in un pullman che ci portava da
Debrecen a Eger, in gita, per così dire, scolastica.
Kaisa
era nella corriera dei Finnici e di altri popoli più o meno asiatici.
Attraversata
la puszta sitibonda, lungo la strada cominciarono a farsi vedere dei colli, e
in breve tutto il paesaggio mutò rispetto alla grande pianura, priva non solo
di alture ma, per vasti tratti, anche di alberi e di case coloniche. Le colline
alberate, orlate di vigneti verdi, punteggiate dal bianco e dal rosso di
piccole case, davano qualche conforto all’occhio stanco della puszta semideserta,
e quell’anno, per giunta, secca, sitibonda, polverulenta dopo tre settimane
canicolari.
Arrivati
nei dintorni di Eger, cambiammo mezzo: salimmo su un trenino a scartamento
ridotto, del tutto simile a quello che da Ora, nella valle dell’Adige, saliva
fino a Predazzo nella valle di Fiemme. Lo prendevo per andare a Moena, nei
primi anni Cinquanta, con le due zie materne che non avevano avuto figli: la
Rina e la Giulia. Il loro nipote prediletto, cioè il loro figliolo ero io. La
Rina da ragazza era stata una bellezza, come forse hai visto dalla foto posta
in un episodio precedente, lettore.
Non
si era mai sposata per rimanere libera. Come me.
Però,
diversamente da me, la zia Rina non era incline a lasciare liberi gli
altri.
Anche
la zia Giulia non era male, ma era più chiusa in se stessa. Lei invece era
sposata e avrebbe voluto dei figli, ma non erano venuti, con suo dispiacere
grande.
Giunte
ai cinquanta anni, le due zie prive di prole contavano su me come erede delle
loro persone e delle loro vite. In effetti non erano due donne banali: nate nei
primi anni del Novecento, avevano fatto le maestre all’estero nel ventennio
fascista. Dopo la caduta del regime e il loro rimpatrio, la Rina, a Pesaro.
mandava avanti l’azienda agricola di sua madre con sette famiglie di mezzadri
che lavoravano la nostra terra, una sessantina di “anime”. D’estate mi portava
alle trebbiature di Montegridolfo e del Tavollo, e la vedevo tenere testa a
tanti uomini e donne con lo stesso piglio autoritario che teneva in casa.
Si
arrivava dunque a Ora nel pomeriggio. Le zie mi indicavano un nido di rondini
nel sottotetto della piccola stazione gialla, stazioncina tipica della vecchia
monarchia austro - ungarica. Mi facevano notare che i genitori portavano il
cibo ai pulcini. Loro due facevano le nutrici con me durante quel mese estivo.
E non mi alimentavano solo con il cibo. Volevano che fossi il più bravo a
scuola, che primeggiassi sempre. Mi incoraggiavano a studiare, anche in agosto.
Non ho fatto una gran carriera a dire il vero, ma alcune cose egregie mi sono
riuscite. E sono grato alle zie, alle mamme vicarie. Dal loro autoritarismo, ho
imparato, e contrario, l’indipendenza.
Ti
faccio un esempio, lettore. Risalgo al 1954, quando avevo nove anni e otto
mesi. Diciotto anni prima di Kaisa.
Il
trenino dunque saliva adagio verso il passo di San Lugano. La prima stazione
era Montagna, la seconda Fontanefredde. I toponimi erano scritti anche in tedesco.
Le zie li leggevano in entrambe le lingue e ne sottolineavano il significato
letterale con la loro bella pronuncia toscana, e non senza un’enfasi vagamente
minacciosa, perché io capissi che dovevo lasciarmi infagottare di maglie e
maglioni, con i quali indosso i miei movimenti da bambino “poco prudente” erano
meno liberi e sciolti. Non volevano che mi sporgessi dal finestrino, e mi
proibivano in particolare di toccare i rami protesi sulla ferrovia. Dicevano
che se li avessi afferrati mi avrebbero portato via un braccio. Io cercavo di
sfuggire a quelle maglie di forza, anche perché faceva caldo:
Fontanefredde o Kaltenbrunn che dire si voglia, è situata solo
5 o 600 metri sopra il fondovalle: era ancora estate e il nome dell’acqua del
paese sarebbe diventato consono all’aria solo parecchie settimane più tardi.
Coprirsi di golf per quella duplice scritta sarebbe come sentirsi in dovere di
pesare l’oro ogni volta che si passa da Pesaro (1). Dovevo dunque ingegnarmi
per evitare almeno una parte di quella tortura. Arrivato a indossare il terzo
golf, dicevo che con un altro panno sarei stato troppo impacciato nel fare il
nome del padre del figliolo e dello spirito santo, quando dal treno si fosse
vista una chiesa. Le zie me lo avevano insegnato e imposto siccome ci tenevano
molto a crescermi credente devoto e sottomesso.
Così
mi consentirono di non indossare la quarta “buccia”, nonostante i mille metri
fossero vicini con i loro “aliti freddi ”; la zia Rina però, perché non
credessi di potermi sottrarre alla sua volontà dispotica, mi gettava addosso
una coperta che mi lasciava muovere le braccia sì, tuttavia mi impediva di
arrampicarmi fino ai bagagli posati in alto, o di sporgermi dal finestrino
allungando il collo per gridare alle bambine che osservavano il treno fermo
nelle stazioni: “ciao, come ti chiami? Vieni a Moena anche tu?” Erano rosee e
paffute. In fondo erano le prime nordiche della mia vita.
A
dirla tutta, mi domandavo se quelle bambine, rosa o rosse com’erano, fossero
fatte come le Pesaresi molto più scure di pelle e capelli, o avessero dei
binari a scartamento ridotto, come quelli del trenino della valle di Fiemme.
Per
non confondere troppo i colori, sui dodici anni mi innamorai di una fanciulla
mora mora, una bambina meridionale che sua madre, bruna come la mia, portava a
Moena a villeggiare in un appartamento sottostante a quello dove abitavo con la
zia Giulia. Questo fu il primo insuccesso amoroso della mia vita. Lo racconterò
più avanti.
Nei
primi anni Sessanta il trenino è stato abolito e ora nella stazione antica c’è
un bar con un piccolo teatro. La zia Giulia è morta nel 1982, la zia Rina nel
1991. Tutti gli anni, per Pasqua, torno a Moena in automobile e passo per
quella stazione storica, guardo l’angolo del sottotetto dove c’era il nido
delle rondini, ricordo le mie zie che ho sempre portato vive dentro di me, e
rivolgo loro un pensiero di gratitudine grande per avermi aiutato a diventare
quello che sono, non dico un granché, ma di sicuro me stesso, non un altro
qualunque. È un rito che ripeto tutti gli anni con commozione e rimpianto.
L’ho
raccontato perché lo devo alle sorelle di mia madre per quello che mi hanno
lasciato di materiale e di spirituale.
Metto
anche loro tra le donne che ho amato. Loro sono vissute per me, e credo che
siano contente, molto contente del risultato, se possono vedermi. Devo dire
un’altra sola cosa sul conto dei nostri rapporti. Non le ho mai lasciate sole
per Natale quando erano diventate vecchie e io ero un giovanotto florido ancora
negli anni. Una volta, quando ero andato a fare la consueta visita del
solstizio invernale a un’altra delle mie mamme vicarie, l’ex collega Antonia di
Carmignano di Brenta, l’amica già ottantenne mi domandò cosa avrei fatto per
Natale. Risposi che sarei andato a Pesaro per tenere compagnia alle due zie,
anzi tre, siccome in una casa vicina viveva la zia Giorgia, anche lei prodiga
nei miei confronti. “Le sorelle Materassi”, le chiamava mia madre.
“Perché?”
Mi chiese l’amica caissima sapendo che la mia vita da scapolo quasi gaudente
era a Bologna. “Perché sono le mie consanguinèe più vecchie e più sole”
risposi. E aggiunsi: “per Capodanno ci sarà anche mia madre e la inviterò a
cena”
Allora
Antonia mi fece un augurio che si è avverato: “Lei sarà fortunato, Gianni,
perché è buono”. Anche questa amica è morta, nel 2005, e quando vado a Moena,
passo sempre per Carmignano di Brenta dove la carissima donna è sepolta e porto
alcuni fiori con tanti pensieri sulla sua tomba.
Anche
lei mi ha aiutato dandomi buoni consigli e insegnandomi a diventare un bravo
insegnante.
Dopo
la morte di questa amiche sicure sono stato lasciato solo più di una volta per
Natale, per Capodanno et cetera, da parenti, amici e da amanti altrimenti
impegnate, ma non me ne sono mai dispiaciuto, anzi sono stato fiero di non essere
come coloro. Uno di questi ultimi 25 dicembre andai in treno fino ad Arezzo poi
in taxi sulla tomba della mamma, dei nonni e delle zie a Sansepolcro. Credo che
lo rifarò. Sono presenze più vive loro dentro di me che tanti conoscenti, ex
amici spariti e, devo dirlo, pure ex amanti svanite.
Ma
torniamo all’estate del ’72, a Kaisa cui pure devo qualcosa di quello che
sono.
Sul
vagoncino ungherese rimanevo discosto dalla mia amante perché pensavo che lei
non mi amasse abbastanza da rischiare di farsi notare vicina a me in
atteggiamento per lo meno amichevole dai finnici capitati nei nostri paraggi e
capaci di denunciarla al legittimo sposo.
Così
le restavo discosto e non la guardavo con intensità, ma avrei gradito molto che
lei invece, siccome io ero libero, mi facesse almeno dei cenni di simpatia, di
intesa, di complicità che comunque sarebbe rimasta segreta.
1. Servilio a Eneide IV,
825, afferma che Pisaurum si chiama così (Pisaurum dicitur) perché là fu
pesato l’oro (quod illic aurum pensatum est) che i Galli
Senoni dovettero restituire a Camillo.
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