il manoscritto autografo |
Un articolo
letto ieri, - 3 aprile 2020. su “il venerdì di Repubblica” (p7)
intitolato Dei costumi degli italiani e firmato da Filippo
Ceccarelli mi ha spinto a leggere il Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl’ italiani scritto da Giacomo Leopardi intorno al 1825
e pubblicato nel 1906 dalla Le Monnier di Firenze.
L’articolo
di Ceccarelli dice ben poco sul contenuto di questo scritto del Recanatese ma,
e forse proprio per questo, ha il pregio di indurre a leggerlo.
Leopardi
dunque descrive alcuni aspetti della anomalia morale degli Italiani del tempo
successivo alla Rivoluzione francese..
Ne riferisco
alcune parti a parer mio le più significative.
L’autore
menziona il poeta di Venosa: “tutti sanno con Orazio che le leggi senza i
costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono
determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni”.
Orazio
scrive infatti : “quid tristes querimoniae, - si non supplicio culpa
reciditur? - quid leges sine moribus vanae proficiunt (…) ? “ Odi ,
III, 24, 33 - 36). Insomma leggi sono inutili quando i costumi sono
generalmente cattivi.
Lo ripeterà
Tacito negli Annales: “ corruptissima repubblica plurimae
leges” (III, 27). Le leggi anzi abbondano proprio in uno stato
corrotto.
Leopardi
procede analizzando l’ambizione “vincolo e sostegno potentissimo della società
(…) a forma stretta”.
Sallustio
ricorda i vizi dilagati a Roma dopo la distruzione della potenza cartaginese e
della paura che incuteva: in un primo tempo tormentava gli animi magis
quam avaritia ambitio “quod tamen vitium proprius virtutem erat” (Bellum
Catilinae, 11) un vizio che tuttavia era meno distante dalla virtù.
Torniamo a
Leopardi: “l’ambizione può avere varie forme e vari fini. Una volta ella era
desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa cosa è troppo
grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella
piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in
angustissimi termini (…) perch’ella possa compatire collo stato di freddezza e
mortificazione che risulta universalmente nella vita civile delle dette cause;
e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa
durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà
delle cose, e del loro peso e valore. L’amore della gloria è incompatibile
colla natura de’ tempi presenti, è cosa obsoleta come le usanze e le voci
antiquate…”.
Leopardi
procede scrivendo che nei tempi moderni là dove c’è “società stretta”
l’ambizione “produce un altro sentimento tutto moderno (…) Questo sentimento è
quello che si chiama onore. E’ un’illusione esso stesso, perché consiste nella
stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che,
rigorosamente parlando, è cosa di niun conto (…) Questa stima della opinione
pubblica, così piccola cosa com’ella è, è pur da tanto che quasi basta nelle
dette nazioni (…) a rimpiazzare i principii morali ugualmente perduti appresso
di loro, massime nelle classi non laboriose”.
Le
“dette nazioni” sono Francia, Inghilterra e Germania dove c’è appunto “società
stretta”. In queste nazioni dunque gli uomini educati “si vergognano di fare il
male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito (…) si
muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggior impulso e
sentimento che a studiar esattamente ed eseguire le mode, a cercar di brillare
cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati di lusso: il
lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio (…) lo stato
delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa
miseria che il buon tuono[1] è,
non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’ buoni costumi (…) e
che dove il buon tuono della società non si cura, quivi la morale manca d’ogni
fondamento e la società d’ogni vincolo, fuor della forza, la quale non potrà
mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontano i cattivi”
Il bon
ton dunque è causa della conservazione della società.
Ma veniamo
agli “italiani dal tempo della rivoluzione in poi”.
La nazione
italiana “è priva come l’altre di ogni fondamento morale (…) ma ella è priva
ancora di quel genere di stretta società definito di sopra. Molte ragioni
concorrono a privarvela (…) Il clima che gl’inclina naturalmente a vivere gran
parte del dì allo scoperto, e quindi a’ passeggi e cose tali, la vivacità del
carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e gli altri
diletti de’ sensi a quelli particolarmente propri dello spirito (…) Ora il
passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasione di società
che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società
(parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima
necessità), perché gl’italiani non amano la vita domestica , né gustano la
conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli
e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco
tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia ”.
La nostra
dunque non era una società “ridotta a forma stretta”
Questò è il
primo quarto dello scritto di Leopardi
Per ora mi
fermo, poi magari riferirò il resto riassumendolo.
Intanto
vorrei rivolgere al Recanatese un’obiezione celeste che traggo dalla mia
esperienza: non necessariamente “i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti
de’ sensi” ci inducono a sceglierli , preferendoli “a quelli particolarmente
propri dello spirito” . Anzi, credo che i piaceri della percezione e quelli del
pensiero siano complementari e si integrino e potenzino a vicenda.
Penso a
quando, nella prima adolescenza osservavo Recanati dalla prospiciente Potenza
Picena dove ero ospite della zia Giorgia sposata là.
Imitavo il
poeta che già allora mi aveva impressionato a fondo, mi aveva colpito tanto
nella sfera intellettuale quanto in quella emotiva, dunque andavo al Pincio del
paese piceno e di là
“Mirava
il ciel sereno,
le vie
dorate e gli orti,
e quinci il
mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua
mortal non dice
Quel ch’ io
sentiva in seno”.
Anche se
lingua mortal non sa dire, tuttavia il seno era pieno di impressioni, ricordi e
persino prefigurazioni. Osservavo con attenzione, per esempio, il monte Conero
una quarantina di chilometri verso nord ovest, il monte di Ancona che vedevo
anche dalla spiaggia di Pesaro nei giorni più chiari, fantasticando, e che
avrei osservato più volte molti anni dopo mentre me ne allontanavo sul
traghetto che mi portava a Patrasso, poi lo osservavo di nuovo al ritorno dopo
i giri a Olimpia, Kalamata, il Taigeto, Epidauro Corinto, Patrasso, oppure dopo
la pedalata verso Delfi, il Parnaso, Atene, Eleusi, Corinto, o anche quella per
Igumeniza, Dodona, le Meteore, oppure il giro Samo, Troia e Istanbul sempre fra
traghetto e bicicletta. Passeggiate ciclistiche, con molti pensieri anche non
ordinari e sentimenti non tutti volgari. Fatiche fisiche e piaceri mentali e
spirituali nella visione dell’arte. Le impressioni sensoriali ricavate dall’
esperienza dei fatti diventano quasi sempre pensieri, atti dello spirito.
Ne dico
un’altra che mi è venuta in mente udendo una parola associata al virus. In un
giorno di calura intensa io e Fulvio partimmo da Itea per scalare il Parnaso in
bicicletta. La strada passa per Delfi, sui 700 metri, poi continua a salire
fino ad Arachova intorno ai mille. Questo è un passo. Se si procede, si scende
su Tebe, se si prende a sinistra si imbocca un altopiano lungo. Dopo una quindicina
di chilometri, bisogna girare a destra per salire ai circa 2000 metri dove
arriva la strada. Ebbene persi di vista Fulvio, sbagliai strada e mi trovai in
una discesa invece che nell’ascesa verso il culmine. Dovetti quindi tornare
indietro e rinunciare al rito della tripartita preghiera alle Muse, ad Apollo e
a Dioniso. Arrivato a Itea trovai solo Maddalena che ci aspettava
febbricitante. Fulvio non c’era. Non avevamo il telefonino. Verso le nove, con
il buio cominciai a temere che non l’avrei visto mai più. Maddalena cercava di
rassicurarmi ma io volevo tornare a cercarlo. Poi intorno alle dieci e mezzo
l’amico carissimo arrivò. Anche lui pensava di avere perduto l’amico più caro
che non aveva trovato lassù. Ci abbracciammo piangendo di gioia. Ebbene, questo
episodio, bello tutto sommato, mi è venuto in mente con tutti i particolari
sentendo parlare del plateau sul quale si trova ora il contagio.
L’altopiano
vero per me è quello sotto il Parnaso ma è pure vero che tutto è collegato con
tutto, e, se le fatiche fisiche possono associarsi alle gioie, i dolori ai
piaceri, tanto più possono interferire e influenzarsi reciprocamente, caro
maestro e amico di Recanati “i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti dei
sensi” e “quelli più particolarmente propri dello spirito”.
“Il venerdì
di repubblica” del 3 aprile contiene anche un articolo di Tomaso Montanari
intitolato Sognando passeggiate con Monet (p. 87)
Lo storico
dell’arte dotato di rara cultura e sensibilità racconta che stava scrivendo il
pezzo per il giornale quando, chiusi gli occhi, si è chiesto dove avrebbe
preferito essere piuttosto che sul divano del suo studio.
La risposta
è “sdraiato su un prato, immerso nei fiori selvaggi della primavera che
esplode”. Quindi si è chiesto “quale quadro rappresentasse più pienamente, più
istintivamente quel desiderio: ed ecco che dal recesso misterioso della
memoria, è emersa l’immagine, tessuta di purissima luce solare, di questo
prodigio di Claude Monet, che avevo visto dal vivo a Washington l’anno scorso.
Non ne ricordavo il titolo, e quando l’ho trovato mi è scappato da
ridere. La passeggiata… l’oscuro oggetto del desiderio di milioni
di italiani reclusi.
La pagina
presenta la riproduzione di questo olio su tela del 1875 (National gallery of
Arts, Washington). Il risultato del quadro “è quello che tutti associano alla
pittura dell’impressionismo: guardandolo, riviviamo l’impressione di essere lì,
in quel prato, sotto quel sole caldissimo e quelle nuvole mobili e irrequiete
(…) l’arte è liberazione: e lo può essere in tanti modi. Alcuni profondi,
inattingibili, connessi al senso riposto di tutte le cose - Ma oggi - e lo
capiamo come forse mai nella nostra vita - l’arte ci libera anche quando ci
prende di peso, cancella il tetto e le pareti che ci chiudono in scatola e ci
libera nel sole e nel vento, sotto un cielo azzurro, sopra un prato colorato di
fiori. L’arte è liberazione perché fa scorrere più forte il sangue nelle vene.
Perché ci scuote e ci ricorda che siamo vivi: anche quando oramai cominciamo a
dubitarne”. Così Montanari conclude il suo articolo.
Io chiudo il
mio dicendo che per fare dell’arte o anche solo per comprenderla è necessario
avere provato forti impressioni nella vita e avere trovato, attraverso tante
letture di libri buoni, la via, il metodo per individuarle e per esprimerle:
allora su una parola ascoltata, su un’immagine, un suono o un sapore si innalza
“l’immenso edificio del ricordo[2]”.
1 Bon ton
2 “quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la
morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose solo l’odore e il sapore permangono
più vividi, immateriali, persistenti e fedeli l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a
ricordare, ad attendere a sperare sopra la rovina di tutto il resto, portando
sulla loro stilla quasi impalpabile l’immenso edificio del ricordo” (M Proust La
strada di Swann, I Combray,).
Meravigliose connessioni e commenti attraverso autori diversi Mi sono arricchita margherita
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