sabato 4 aprile 2020

Leopardi: "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani". Parte I

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Un articolo letto ieri, - 3 aprile 2020. su “il venerdì di Repubblica” (p7) intitolato Dei costumi degli italiani e firmato da Filippo Ceccarelli mi ha spinto a leggere il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’ italiani scritto da Giacomo Leopardi intorno al 1825 e pubblicato nel 1906 dalla Le Monnier di Firenze.
L’articolo di Ceccarelli dice ben poco sul contenuto di questo scritto del Recanatese ma, e forse proprio per questo, ha il pregio di indurre a leggerlo.
Leopardi dunque descrive alcuni aspetti della anomalia morale degli Italiani del tempo successivo alla Rivoluzione francese..
Ne riferisco alcune parti a parer mio le più significative.
L’autore menziona il poeta di Venosa: “tutti sanno con Orazio che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni”.

Orazio scrive infatti : “quid tristes querimoniae, - si non supplicio culpa reciditur? - quid leges sine moribus vanae proficiunt (…) ? “ Odi , III, 24, 33 - 36). Insomma leggi sono inutili quando i costumi sono generalmente cattivi.
Lo ripeterà Tacito negli Annales: “ corruptissima repubblica plurimae leges” (III, 27). Le leggi anzi abbondano proprio in uno stato corrotto.

Leopardi procede analizzando l’ambizione “vincolo e sostegno potentissimo della società (…) a forma stretta”.

 Sallustio ricorda i vizi dilagati a Roma dopo la distruzione della potenza cartaginese e della paura che incuteva: in un primo tempo tormentava gli animi magis quam avaritia ambitio quod tamen vitium proprius virtutem erat” (Bellum Catilinae, 11) un vizio che tuttavia era meno distante dalla virtù.

Torniamo a Leopardi: “l’ambizione può avere varie forme e vari fini. Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa cosa è troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini (…) perch’ella possa compatire collo stato di freddezza e mortificazione che risulta universalmente nella vita civile delle dette cause; e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore. L’amore della gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti, è cosa obsoleta come le usanze e le voci antiquate…”.

Leopardi procede scrivendo che nei tempi moderni là dove c’è “società stretta” l’ambizione “produce un altro sentimento tutto moderno (…) Questo sentimento è quello che si chiama onore. E’ un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che, rigorosamente parlando, è cosa di niun conto (…) Questa stima della opinione pubblica, così piccola cosa com’ella è, è pur da tanto che quasi basta nelle dette nazioni (…) a rimpiazzare i principii morali ugualmente perduti appresso di loro, massime nelle classi non laboriose”.
 Le “dette nazioni” sono Francia, Inghilterra e Germania dove c’è appunto “società stretta”. In queste nazioni dunque gli uomini educati “si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito (…) si muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggior impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguire le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati di lusso: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio (…) lo stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria che il buon tuono[1] è, non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’ buoni costumi (…) e che dove il buon tuono della società non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni vincolo, fuor della forza, la quale non potrà mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontano i cattivi”
Il bon ton dunque è causa della conservazione della società.

Ma veniamo agli “italiani dal tempo della rivoluzione in poi”.
La nazione italiana “è priva come l’altre di ogni fondamento morale (…) ma ella è priva ancora di quel genere di stretta società definito di sopra. Molte ragioni concorrono a privarvela (…) Il clima che gl’inclina naturalmente a vivere gran parte del dì allo scoperto, e quindi a’ passeggi e cose tali, la vivacità del carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de’ sensi a quelli particolarmente propri dello spirito (…) Ora il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasione di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perché gl’italiani non amano la vita domestica , né gustano la conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia ”.
La nostra dunque non era una società “ridotta a forma stretta”
Questò è il primo quarto dello scritto di Leopardi
Per ora mi fermo, poi magari riferirò il resto riassumendolo.
Intanto vorrei rivolgere al Recanatese un’obiezione celeste che traggo dalla mia esperienza: non necessariamente “i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de’ sensi” ci inducono a sceglierli , preferendoli “a quelli particolarmente propri dello spirito” . Anzi, credo che i piaceri della percezione e quelli del pensiero siano complementari e si integrino e potenzino a vicenda.
Penso a quando, nella prima adolescenza osservavo Recanati dalla prospiciente Potenza Picena dove ero ospite della zia Giorgia sposata là.
Imitavo il poeta che già allora mi aveva impressionato a fondo, mi aveva colpito tanto nella sfera intellettuale quanto in quella emotiva, dunque andavo al Pincio del paese piceno e di là
 “Mirava il ciel sereno,
 le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’ io sentiva in seno”.
Anche se lingua mortal non sa dire, tuttavia il seno era pieno di impressioni, ricordi e persino prefigurazioni. Osservavo con attenzione, per esempio, il monte Conero una quarantina di chilometri verso nord ovest, il monte di Ancona che vedevo anche dalla spiaggia di Pesaro nei giorni più chiari, fantasticando, e che avrei osservato più volte molti anni dopo mentre me ne allontanavo sul traghetto che mi portava a Patrasso, poi lo osservavo di nuovo al ritorno dopo i giri a Olimpia, Kalamata, il Taigeto, Epidauro Corinto, Patrasso, oppure dopo la pedalata verso Delfi, il Parnaso, Atene, Eleusi, Corinto, o anche quella per Igumeniza, Dodona, le Meteore, oppure il giro Samo, Troia e Istanbul sempre fra traghetto e bicicletta. Passeggiate ciclistiche, con molti pensieri anche non ordinari e sentimenti non tutti volgari. Fatiche fisiche e piaceri mentali e spirituali nella visione dell’arte. Le impressioni sensoriali ricavate dall’ esperienza dei fatti diventano quasi sempre pensieri, atti dello spirito.

Ne dico un’altra che mi è venuta in mente udendo una parola associata al virus. In un giorno di calura intensa io e Fulvio partimmo da Itea per scalare il Parnaso in bicicletta. La strada passa per Delfi, sui 700 metri, poi continua a salire fino ad Arachova intorno ai mille. Questo è un passo. Se si procede, si scende su Tebe, se si prende a sinistra si imbocca un altopiano lungo. Dopo una quindicina di chilometri, bisogna girare a destra per salire ai circa 2000 metri dove arriva la strada. Ebbene persi di vista Fulvio, sbagliai strada e mi trovai in una discesa invece che nell’ascesa verso il culmine. Dovetti quindi tornare indietro e rinunciare al rito della tripartita preghiera alle Muse, ad Apollo e a Dioniso. Arrivato a Itea trovai solo Maddalena che ci aspettava febbricitante. Fulvio non c’era. Non avevamo il telefonino. Verso le nove, con il buio cominciai a temere che non l’avrei visto mai più. Maddalena cercava di rassicurarmi ma io volevo tornare a cercarlo. Poi intorno alle dieci e mezzo l’amico carissimo arrivò. Anche lui pensava di avere perduto l’amico più caro che non aveva trovato lassù. Ci abbracciammo piangendo di gioia. Ebbene, questo episodio, bello tutto sommato, mi è venuto in mente con tutti i particolari sentendo parlare del plateau sul quale si trova ora il contagio.
L’altopiano vero per me è quello sotto il Parnaso ma è pure vero che tutto è collegato con tutto, e, se le fatiche fisiche possono associarsi alle gioie, i dolori ai piaceri, tanto più possono interferire e influenzarsi reciprocamente, caro maestro e amico di Recanati “i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti dei sensi” e “quelli più particolarmente propri dello spirito”.

“Il venerdì di repubblica” del 3 aprile contiene anche un articolo di Tomaso Montanari intitolato Sognando passeggiate con Monet (p. 87)
Lo storico dell’arte dotato di rara cultura e sensibilità racconta che stava scrivendo il pezzo per il giornale quando, chiusi gli occhi, si è chiesto dove avrebbe preferito essere piuttosto che sul divano del suo studio.
La risposta è “sdraiato su un prato, immerso nei fiori selvaggi della primavera che esplode”. Quindi si è chiesto “quale quadro rappresentasse più pienamente, più istintivamente quel desiderio: ed ecco che dal recesso misterioso della memoria, è emersa l’immagine, tessuta di purissima luce solare, di questo prodigio di Claude Monet, che avevo visto dal vivo a Washington l’anno scorso. Non ne ricordavo il titolo, e quando l’ho trovato mi è scappato da ridere. La passeggiata… l’oscuro oggetto del desiderio di milioni di italiani reclusi.
La pagina presenta la riproduzione di questo olio su tela del 1875 (National gallery of Arts, Washington). Il risultato del quadro “è quello che tutti associano alla pittura dell’impressionismo: guardandolo, riviviamo l’impressione di essere lì, in quel prato, sotto quel sole caldissimo e quelle nuvole mobili e irrequiete (…) l’arte è liberazione: e lo può essere in tanti modi. Alcuni profondi, inattingibili, connessi al senso riposto di tutte le cose - Ma oggi - e lo capiamo come forse mai nella nostra vita - l’arte ci libera anche quando ci prende di peso, cancella il tetto e le pareti che ci chiudono in scatola e ci libera nel sole e nel vento, sotto un cielo azzurro, sopra un prato colorato di fiori. L’arte è liberazione perché fa scorrere più forte il sangue nelle vene. Perché ci scuote e ci ricorda che siamo vivi: anche quando oramai cominciamo a dubitarne”. Così Montanari conclude il suo articolo.
Io chiudo il mio dicendo che per fare dell’arte o anche solo per comprenderla è necessario avere provato forti impressioni nella vita e avere trovato, attraverso tante letture di libri buoni, la via, il metodo per individuarle e per esprimerle: allora su una parola ascoltata, su un’immagine, un suono o un sapore si innalza “l’immenso edificio del ricordo[2]”. 

1 Bon ton
2 “quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose solo l’odore e il sapore permangono più vividi, immateriali, persistenti e fedeli l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere a sperare sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile l’immenso edificio del ricordo” (M Proust La strada di Swann, I Combray,).

2 commenti:

  1. Meravigliose connessioni e commenti attraverso autori diversi Mi sono arricchita margherita

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