la puszta |
La strada in mezzo alla puszta. La preghiera al sole. Un ricordo del ’71
Andavamo dunque verso la puszta.
Sulla destra c’era il sole già piuttosto vicino al tramonto. Eravamo tre coppie
in due automobili: noi viaggiavamo soli e concordi nella nera Volkswagen; gli
altri quattro ci seguivano nella Renault blu di Bruno, lo sfortunato
ragazzo pesti devotus futurae [1]. Con il senno di adesso le due
automobili scure potevano evocare, addirittura anticipare il corteo tetro verso
l’ultimo viaggio.
La bambina frutto del nostro amore
sarebbe stata soppressa in autunno,
Bruno sarebbe morto l’estate
successiva in un incidente stradale in Africa e Silvano si trova tra i defunti,
quelli che hanno compiuto la vita, da un paio di anni.
A un tratto Päivi mi chiese di
fermare la macchina e lasciar passare gli altri: doveva scendere per un
bisogno; lo sentivo anche io dopo le due birre bevute nell’ombroso cortile. Ci
separammo, ovviamente. Io camminai verso occidente finché giunsi a una siepe
oltre la quale vedevo l’immergersi lento del sole nella pianura infinita.
Mentre con gettito lungo, non
frenato da una prostata grossa come quella di Marlon Brando nell’Ultimo
tango a Parigi di Bertolucci, urinavo le birre contro i raggi lucenti
della sera estiva, piena di voli, rivolgevo tale preghiera al dio che scalda e
nutre la vita: “Signore del mondo, ti prego, dammi la forza di amare questa
ragazza dal volto che irradia ricchezza spirituale; fai che io possa trarre da
lei, dalle sue acute fessure tartare, luce di comprensione; fai che Päivi a sua
volta possa trarre da me la volontà di uscire dalla caverna dell’egoismo dove
non giungono i tuoi raggi pieni d’amore. Se in vita mia qualche volta ho fatto
del bene, se talora ho venerato debitamente il tuo nume, Mente dell’Universo [2], se ho meritato di te assai o poco,
ti prego esaudisci questa preghiera devota”.
Ero un poco ebbro.
Il primo fra tutti gli dèi calava
grande, non oscurato da caligine né ombreggiato dalle nuvole dei moscerini;
l’aria era calda, ma viva e trasparente; al di là del cespuglio, su un campo di
granoturco volavano a gara i passeri frullando rapidamente e tripudiavano a
gara altri uccelli contenti; a destra, i cani paravano greggi di pecore intente
a brucare l’erba dove andavano e venivano pure grosse oche bianche dai colli
stirati, e neri maiali dalle zanne candide e aguzze. In quel tramonto tutto era
santo, tutto era sacro. C’erano mito, poesia e amore. I solchi arati spiravano
promesse di nascite nuove e i venti esalavano soffi pieni di vita.
Mi sentivo in armonia con la terra,
con gli animali pascenti e di guardia, con gli uccelli che li sorvolavano
allegramente salutando la luce, con la mia donna che più in là urinava anche
lei impastando la terra con il proprio liquido organico, nondimeno era molto
dotata di anima, e, mentre sentivo il benessere delle radici nella grande madre
di tutti, mi prefiguravo la spinta che io e Päivi ci saremmo dati a vicenda
verso le altezze sublimi dello spirito e della cultura. Ci sarebbe stata una
calda unione di corpi ma anche la fusione di due anime che, intimamente unite,
sarebbero volate insieme nel regno della bellezza eterna. Questi sono i momenti
epifanici della vita. Ne avrai avuti alcuni anche tu, lettore. Bisogna notarli
e farne tesoro.
Ero un poco ubriaco e molto felice.
Intanto alcuni piccoli uccelli si
erano posati sopra i dorsi bianchi e villosi delle pecore chine a brucare, e il
sole spariva salutato dal primo strimpellìo tremante dei grilli e dall’ultimo
verso stridente delle cicale assonnate.
A un tratto, la pecora più
originale alzò di scatto la testa; subito dopo sobbalzarono tutte le altre, e
gli uccelli volarono via.
Osservavo il cielo maestro di umana
sapienza[3] .
Un salto nel passato di tre estati
prima, quella di Helena. Consiglio di leggerlo.
Mi venne in mente un’aurora serena
dell’agosto del ’71, quando, dopo un prolungato banchetto e l’insana dulcedo
perpotandi et pervigilandi [4]
invece di andare a dormire, io con Fulvio, Ezio, Claudio, Danilo e Alfredo,
giovanilmente scherzando, uscimmo dal collegio calandoci dalla finestra,
siccome l’uscio di sotto era chiavato a quell’ora, intorno alle tre della
notte, o del mattino che dire si voglia.
Andammo a Hortobágy per vedere
sorgere il sole. Nella luce attiva del crepuscolo mattutino eravamo contenti.
Io per Elena, Fulvio era felice pensando al suo futuro con Bruna: dipingeva lieti
pensieri nuziali [5].
Gli altri erano contenti di essere
giovani, di essere a Debrecen con tanti coetanei curiosi di conoscersi a
vicenda. Era un bel posto quello ed erano belli i primi anni Settanta per
quanto riguarda i rapporti umani. Nel ’74, come abbiamo visto e vedremo, erano
già meno belli e noi reduci del ’68 eravamo prossimi al disincanto.
Nl ’71 era ancora facile, era
diffuso il simpatizzare, perfino il volersi bene. Una moda presto defunta come
molti di quei cari compagni dell’età mia nova. Io non ho rinnegato quei mores oramai
antichi, non li ho scordati, anzi, passata la moda, mi sono rimasti dentro del
tutto accordati con il mio carattere, quale struttura della mia formazione e li
tengo in vita e li pratico con chi me lo permette senza prendermi per
deficiente, o per sognatore, o per pazzo.
Arrivati, si saliva sui gradini di
legno di un teatro aperto - locus Phoebo Bromioque sacer - da dove si
poteva osservare l’oriente infiammato e il fiume verde, popoloso di pesci,
folto di canne, sonoro di uccelli che salutavano il giorno. Sentivamo, amavamo
la vita che ci contraccambiava. Parlavamo di donne, di amori, facevamo
progetti, eravamo contenti. Sul ponte a nove arcate situato davanti alla
csárda, transitavano carri stracolmi tirati da grossi cavalli rossicci:
portavano i prodotti della puszta al mercato di Debrecen.
Danilo aprì lo spettacolo con un
canto popolare trevigiano della prima guerra mondiale. Una canzone di guerra,
lenta, lenta, che celebrava gli eroi morti e infondeva desiderio di pace.
Ammaliato da quell’elegia di stampo tirtaico, Fulvio assecondò la propria
ispirazione e, sceso nell’ acqua bassa del fiume con il pigiama arrotolato
sopra i polpacci muscolosi, da oplita, eseguì alcuni passi di una danza
pirrica, quindi intonò un canto di guerra simile a quelli eseguiti dalla forte
gioventù spartana prima delle battaglie. Seguì un’ovazione. Quindi Danilo tirò
fuori l’amica bottiglia, cara compagna di colazioni, pasti merende e cene, poi
disse che in quella circostanza felice la cosa migliore era riprendere dal
punto in cui ci eravamo interrotti in collegio. Quel vino, aggiunse, rendeva servigi
migliori dell’acqua di seltz.
Quando il gaudente l’ebbe svuotata,
gridai: “tra un poco apriranno la csárda; che ne dite se entriamo per colazione
e ce ne facciamo stappare altre due?”. “Sicuro, e che tu sia benedetto,
compagno pesarese, caro da Dio!”, rispose l’amico grato della proposta
inopinata. Intanto Fulvio, Claudio, Ezio e Alfredo si spartivano, in una
comunione bizzarra, un grosso salame, due enormi cipolle, tre cetrioli e due
peperoni. Quando invitarono me e Danilo, nemmeno noi potemmo astenerci da tali
prelibatezze. Sicché facemmo questa comunione aurorale. Eravamo contenti e ci
sembrava di vedere gioie maggiori che ammiccavano a noi, ci facevano segni
d’intesa. Io pensavo che se ero piaciuto a Elena sarei piaciuto alla vita per
sempre, alla vita che amavo con tutto me stesso dopo che avevo smesso di
sentirmi rinnegato da lei.
Erano già trascorsi tre anni
da quell’alba ricca di amici, di canti, di affetti. Nel 1974 la danza non era
ancora diventata macabra, ma il tempo della comunione tra noi mortali era finito. Da cinque
anni oramai imperversavano le stragi e altre ce ne sarebbero state. Rimaneva
l’amore per una donna. Con il senno di adesso dico che questo non può
funzionare a lungo, se vive isolato dal contesto sociale.
1
Cfr. Eneide, I, 712. Si tratta di Didone infelix pestti
devota futurae, infelice sacra alla rovina futura
2
Cicerone nel Somnium Scipionis, chiama il sole"dux et
princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio ",
guida e principe e governatore degli altri astri, mente del cosmo e forza
regolatrice ( De Republica, VI, 17).
3
Cfr. Platone (Timeo 47 a). Lo ricorda Giuliano Augusto: oujrano;n fhsi Plavtwn hJmi'n
genevsqai th'" sofiva" didavskalon (A Helios re 3, 38, 1)
4
Cfr. Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni VI, 2, 2, il
piacere malsano di bere e vegliare tutta la notte. Era uno dei vizi dell’eroe
macedone.
5
Cfr. A. Manzoni, Adelchi, secondo coro “Com’era allor che
umprovida/d’un avvenir fallace,/lievi pensier virginei/solo pingea.”
p. s. ma il tempo della comunione tra noi mortali era finito.
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