Brescia, 1974 |
1974: la
decadenza del precedente ethos politico, della diffusa fratellanza umana. Il
canto dei reduci.
L’apparizione
della terza e ultima finlandese amata.
La vidi nell’ombroso cortile dell’Università il giorno del ricevimento del rettore, giovedì 25 luglio, verso le quattro del pomeriggio.
Nell’estate del ’74 Fulvio non c’era poiché stava vivendo la sua esperienza di marito e di padre a Parma da dove poco poteva muoversi; Claudio non c’era siccome in maggio l’avevano messo in galera, a San Vittore, incolpato di infamie su infamie; Luigino non c’era poiché aveva seguito su un traghetto, diretto a chissà quali lidi, un mozzo turco - cipriota, l’uomo e l’amore della sua vita.
Invece erano tornati là, nella puszta con me, oramai per la decima volta, Danilo, Ezio, Alfredo, Fausto, Silvano, e Bruno già sacro alla morte vicina [1] Oggi siamo nell’aprile del 2020 e nel frattempo sono morti anche Alfredo e Silvano.
Quel pomeriggio
di luglio, noi Italiani superstiti della Debrecen ’66, prossimi alla soglia dei
trenta, cantavamo canzoni comuniste e partigiane come i reduci di una guerra
perduta: la nostra rivoluzione giovanile era invecchiata, senza lasciare ai
ventenni l’eredità di un ethos politico. Noi stessi eravamo variamente
appassiti, quanto meno segnati da rughe evidenti nel volto e sul collo, mentre
le mani erano percorse da grosse vene bluastre in rilievo. Alcuni avevano
perduto i capelli, altri erano incanutiti, altri ingrassati; insomma noi
eravamo ormai gli “ospiti antichi” dell’Università estiva di Debrecen, così ci
salutò il rettore che ci aveva conosciuti ragazzi e battezzati quali matricole
otto anni prima, così ci chiamavano anche i nuovi ventenni, poiché è proprio
vero che noi mortali siamo come le foglie [2].
Il nostro gruppo di nati alla fine della seconda guerra mondiale, presentava personaggi ancora giovani, eppure avvizziti, piegati e ripiegati su se stessi, anche se non degradati proprio del tutto come sosteneva a gran voce il povero Bruno Pera, del resto non senza qualche ragione. Si erano comunque già appesantiti gli arti di tutti noi e il sogno di realizzare presto su questa terra la giustizia, l’ eguaglianza, il comunismo, o cristianesimo vero che fosse, perdeva forza, forma e colore nei nostri cervelli. La borghesia e il suo dio, il denaro, la mercificazione universale che riduce tutto a commercio, compresi gli affetti, stava prendendo di nuovo il sopravvento. Da cinque anni oramai le stragi facevano i loro massacri di vite umane e di simpatia, di fiducia tra gli umani.
Non
riconoscevamo nei nuovi giovani i nostri eredi spirituali.
Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia. Ma questo devo raccontarlo più avanti.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di pii confratelli e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli orribili, inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti marci e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a un’opera d’arte: a un quadro di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità.
In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire di noia.
Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia. Ma questo devo raccontarlo più avanti.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di pii confratelli e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli orribili, inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti marci e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a un’opera d’arte: a un quadro di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità.
In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire di noia.
Avevamo appena finito di cantare "Bandiera rossa" con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante. Poi, indizio non senza significato per me in quel tempo e in quel luogo, aveva l’aria da finnica, ossia l’incarnato straordinariamente bianco che risaltava sotto il rosso delle chiome e degli indumenti, e per giunta aveva gli occhi meravigliosamente obliqui, pieni di forza espressiva.
Aveva per
giunta natiche e cosce floride che mi fecero pensare alle gioie del sesso e un
bel seno fiorente la cui fresca magnificenza mi costrinse a mormorare
abbacinato da tanta opulenza: “ Dio mio, come la voglio!”. Duravo fatica a
trattenere la lingua che già guizzava pronta a parlare, a propormi quale amante
festoso. Il tempo dei lunghi corteggiamenti era passato. La caviglia snella e
il ginocchio scalpitavano impazienti verso la meta agognata. Mi sembrava di
sentire il profumo di quella carne di femmina umana dotata di tutto. Mi
scrollavo di dosso gli acciacchi della tristezza e degli anni passati non senza
spreco di tempo.
Le finlandesi conservano molto della loro facies asiatica originaria: quelle non troppo germanizzate dal contatto con gli svedesi, hanno più l’aria delle orientali che delle nordiche. Fatto sta che tale esotismo contribuisce al mistero e al fascino di quelle creature. Nell’aspetto, nel modo di camminare, nello stile di questa ragazza per giunta c’era qualcosa di intelligente e di nobile che mi attirava con forza. Aveva una forma piena di carattere. Non mi sbagliavo: se sono diventato uno studioso serio e utile a molti umani lo devo a lei, al mese passato ascoltandola, parlandole e facendo l’amore con lei.
Mi attirava come può attrarre il proprio destino . Mi chiesi subito se, e come, avrei potuto farmi contraccambiare.
Le finlandesi conservano molto della loro facies asiatica originaria: quelle non troppo germanizzate dal contatto con gli svedesi, hanno più l’aria delle orientali che delle nordiche. Fatto sta che tale esotismo contribuisce al mistero e al fascino di quelle creature. Nell’aspetto, nel modo di camminare, nello stile di questa ragazza per giunta c’era qualcosa di intelligente e di nobile che mi attirava con forza. Aveva una forma piena di carattere. Non mi sbagliavo: se sono diventato uno studioso serio e utile a molti umani lo devo a lei, al mese passato ascoltandola, parlandole e facendo l’amore con lei.
Mi attirava come può attrarre il proprio destino . Mi chiesi subito se, e come, avrei potuto farmi contraccambiare.
Bologna 9 aprile
2020. giovanni ghiselli
1 Cfr. Iliade
VI, 146
2 Cfr.
Virgilio, Eneide I, 712.
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