venerdì 10 aprile 2020

Leopardi: "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani". Parte V


Sommario
La luce della ragione deve illuminare la natura, non incendiarla.
La ragione integrale può annientare la morale e inferocire le persone.
Gli Italiani hanno più usanze e abitudini che costumi. L’assuefazione corrobora e prolunga le abitudini. Contro il conformismo. Il disincanto di Leopardi ancora diciannovenne a proposito della gloria.

Leopardi procede con un’affermazione paradossale: che la Spagna e le nazioni simili “benché sottoposte a infiniti inconvenienti ed a uno stato in verità non invidiabile, hanno pur qualche residuo di fondamento alla morale pubblica e privata, oltre alla forza, ne’ pregiudizi stessi e nella ignoranza di tante cose rivelate dai lumi moderni, e nell’avanzo non piccolo della barbarie dell’età media”.
La barbarie del Medioevo dunque in certi casi è stata utile a salvare la vista mentale quando il lume della ragione è diventato tanto forte da abbagliarla”.

Sul lato negativo della ragione, leggiamo alcune parole dello Zibaldone: “La ragione è un lume; la natura vuol essere illuminata dalla natura, non incendiata. (22) “E la ragione facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società , e inferocisce le persone” (23).

Torniamo al Discorso sui costumi: “Il qual fondamento manca all’Italia, senza che sia compensato da quello che la civiltà moderna istessa offre alle nazioni d’Europa e d’America più sociali e più vive di lei.
Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi”.
Tra queste “usanze e abitudini sono poche quelle che si possan dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale, per forza di natura, perché il contraffar loro o l’ometterle sia molto pericoloso dal lato dell’opinione pubblica, come è nelle altre nazioni e perché quando pur lo fosse, questo pericolo sia molto temuto. Ma questo pericolo realmente non v’è, perché lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ prìncipi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che il pubblico se ne impacci. Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia”.

Questo però vale e valeva fino a che ci si trovi fuori dal sancta santorum dove possono entrare solo quelli della prima casta e i loro panegiristi, indipendentemente dal valore.
Se ne accorgerà Leopardi con il passare del tempo e lo testimonierà con alcuni versi nella sua ultima canzone dove interpreta la propria esclusione come conseguenza del fatto che ha sempre manifestato disprezzo per gli uomini i quali amarono la tenebra più della luce rivelando ipocrisia o pochezza mentale.
Ebbene, nel suo canto estremo il Recanatese conferma con giusto orgoglio la propria diversità da “gli ingegni tutti” i quali al “pargoleggiar” del “secol superbo e sciocco” (v. 53) ,
“vanno adulando, ancora
ch’ a ludibrio talora
t’abbian fra sé” (62 - 64)
Seguono i versi che rivendicano la scelta non conformista e servile dell’autore:
“Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch’io sappia che obblio
preme chi troppo all’età propria increbbe” (La Ginestra, vv. 63 - 69).

In una lettera spedita da Recanati a Milano il 29 dicembre 2017 il ragazzo diciannovenne Giacomo Leopardi, già disincantato, scrive a Pietro Giordani che venire pubblicato non dipende dal valore dell’autore e della sua opera: “Eh via che né la nostra virtù, né la dilicatezza del cuore nostro, né la sublimità della mente nostra, né la nostra grandezza dipendono da queste miserie, né io sarò meno virtuoso né meno magnanimo (dove ora sia tale) perché un asino di libraio non mi voglia stampare un libro, o una schiuma di giornalista parlarne.
Oramai comincio, o mio caro, anch’io a disprezzare la gloria, comincio a intendere insieme con voi che cosa sia contentarsi di se medesimo e mettersi con la mente più in su della fama e della gloria degli uomini e di tutto il mondo”.
Sul disprezzo della gloria associo Gozzano a Leopardi: “
Oggi l’alloro è premio di colui
Che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiare altrui” (La signorina Felicita ovvero la Felicità, vv. 201 - 204)
Questo vale per quanto riguarda il conformismo preteso da chi scrive e vorrebbe essere letto e riconosciuto come maestro. A quasi tutti gli scrittori più bravi tale successo è arrivato solo dopo la morte con il cambiare della moda da loro contravvenuta e derisa o compatita
“non so se il riso o la pietà prevale” (La Ginestra, 201)
Per quanto riguarda l’assuefazione della gente comune, Leopardi nello Zibaldone la attribuisce nella forma integrale ai bruti: “Il bruto è più tenace servo dell’assuefazione”(p. 1762.).

 Torniamo quindi ai costumi degli Italiani più in generale:
 “E gli usi e costumi generali e pubblici, non sono, come ho detto, se non abitudini, e non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta, dal vederla fare agli altri, dal non curarsi o non pensare di fare altrimenti”.
Del resto questo viene fatto “con pienissima indifferenza, senz’attaccarvi importanza alcuna, senza che l’animo o lo spirito nazionale , o qualunque, vi prenda alcuna parte, considerando per egualmente importante il farla che il tralasciarla o il contraffarle, non tralasciandola o non contraffaccendole appunto perché nulla importa, e per lo più con disprezzo, e sovente, occorrendo, con riso e scherno di quel tal uso o costume”.
Mi permetto di notare la contraddizione tra la “liberissima volontà” e il fatto che questa viene “determinata”.
Si tratta comunque di un conformismo da gregge. Essere se stessi dunque è difficile e può rivelarsi persino pericoloso, ma non diventare quello che si è significa non vivere la propria vita, bensì quella degli altri: “Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur”. (Seneca, De vita beata, 1, 3.) niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va. 

1 commento:

  1. Questa conclusione non vale solo per l'Italia dell'Ottocento, ma per tutto l'Occidente moderno, a mio avviso.

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