Sommario
La luce della ragione deve
illuminare la natura, non incendiarla.
La ragione integrale può annientare
la morale e inferocire le persone.
Gli Italiani hanno più usanze e
abitudini che costumi. L’assuefazione corrobora e prolunga le abitudini. Contro
il conformismo. Il disincanto di Leopardi ancora diciannovenne a proposito
della gloria.
Leopardi procede con
un’affermazione paradossale: che la Spagna e le nazioni simili “benché sottoposte
a infiniti inconvenienti ed a uno stato in verità non invidiabile, hanno pur
qualche residuo di fondamento alla morale pubblica e privata, oltre alla forza,
ne’ pregiudizi stessi e nella ignoranza di tante cose rivelate dai lumi
moderni, e nell’avanzo non piccolo della barbarie dell’età media”.
La barbarie del Medioevo dunque in
certi casi è stata utile a salvare la vista mentale quando il lume della
ragione è diventato tanto forte da abbagliarla”.
Sul lato negativo della ragione,
leggiamo alcune parole dello Zibaldone: “La ragione è un lume; la
natura vuol essere illuminata dalla natura, non incendiata. (22) “E la ragione
facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni che ci
legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società , e inferocisce le
persone” (23).
Torniamo al Discorso sui
costumi: “Il qual fondamento manca all’Italia, senza che sia compensato da
quello che la civiltà moderna istessa offre alle nazioni d’Europa e d’America
più sociali e più vive di lei.
Gl’italiani hanno piuttosto usanze
e abitudini che costumi”.
Tra queste “usanze e abitudini sono
poche quelle che si possan dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più
numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite
piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o
provinciale, per forza di natura, perché il contraffar loro o l’ometterle sia
molto pericoloso dal lato dell’opinione pubblica, come è nelle altre nazioni e
perché quando pur lo fosse, questo pericolo sia molto temuto. Ma questo
pericolo realmente non v’è, perché lo spirito pubblico in Italia è tale, che,
salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ prìncipi, lascia a ciascuno
quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che
il pubblico se ne impacci. Gli usi e i costumi in Italia si riducono
generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che
egli si sia”.
Questo però vale e valeva fino a
che ci si trovi fuori dal sancta santorum dove possono entrare
solo quelli della prima casta e i loro panegiristi, indipendentemente dal
valore.
Se ne accorgerà Leopardi con il
passare del tempo e lo testimonierà con alcuni versi nella sua ultima canzone
dove interpreta la propria esclusione come conseguenza del fatto che ha sempre
manifestato disprezzo per gli uomini i quali amarono la tenebra più della luce
rivelando ipocrisia o pochezza mentale.
Ebbene, nel suo canto estremo il
Recanatese conferma con giusto orgoglio la propria diversità da “gli ingegni
tutti” i quali al “pargoleggiar” del “secol superbo e sciocco” (v. 53) ,
“vanno adulando, ancora
ch’ a ludibrio talora
t’abbian fra sé” (62 - 64)
Seguono i versi che rivendicano la
scelta non conformista e servile dell’autore:
“Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si
serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa
aperto:
ben ch’io sappia che obblio
preme chi troppo all’età propria
increbbe” (La Ginestra, vv. 63 - 69).
In una lettera spedita da Recanati a
Milano il 29 dicembre 2017 il ragazzo diciannovenne Giacomo Leopardi, già
disincantato, scrive a Pietro Giordani che venire pubblicato non dipende dal
valore dell’autore e della sua opera: “Eh via che né la nostra virtù, né la
dilicatezza del cuore nostro, né la sublimità della mente nostra, né la nostra
grandezza dipendono da queste miserie, né io sarò meno virtuoso né meno
magnanimo (dove ora sia tale) perché un asino di libraio non mi voglia stampare
un libro, o una schiuma di giornalista parlarne.
Oramai comincio, o mio caro,
anch’io a disprezzare la gloria, comincio a intendere insieme con voi che cosa
sia contentarsi di se medesimo e mettersi con la mente più in su della fama e
della gloria degli uomini e di tutto il mondo”.
Sul disprezzo della gloria associo
Gozzano a Leopardi: “
Oggi l’alloro è premio di colui
Che tra clangor di buccine
s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiare altrui”
(La signorina Felicita ovvero la Felicità, vv. 201 - 204)
Questo vale per quanto riguarda il
conformismo preteso da chi scrive e vorrebbe essere letto e riconosciuto come
maestro. A quasi tutti gli scrittori più bravi tale successo è arrivato solo
dopo la morte con il cambiare della moda da loro contravvenuta e derisa o
compatita
“non so se il riso o la pietà
prevale” (La Ginestra, 201)
Per quanto riguarda l’assuefazione
della gente comune, Leopardi nello Zibaldone la attribuisce
nella forma integrale ai bruti: “Il bruto è più tenace servo
dell’assuefazione”(p. 1762.).
Torniamo quindi ai costumi
degli Italiani più in generale:
“E gli usi e costumi generali
e pubblici, non sono, come ho detto, se non abitudini, e non sono seguiti che
per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale
assuefazione, dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, in quel
tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta,
dal vederla fare agli altri, dal non curarsi o non pensare di fare altrimenti”.
Del resto questo viene fatto “con
pienissima indifferenza, senz’attaccarvi importanza alcuna, senza che l’animo o
lo spirito nazionale , o qualunque, vi prenda alcuna parte, considerando per
egualmente importante il farla che il tralasciarla o il contraffarle, non
tralasciandola o non contraffaccendole appunto perché nulla importa, e per lo
più con disprezzo, e sovente, occorrendo, con riso e scherno di quel tal uso o
costume”.
Mi permetto di notare la
contraddizione tra la “liberissima volontà” e il fatto che questa viene
“determinata”.
Si tratta comunque di un
conformismo da gregge. Essere se stessi dunque è difficile e può rivelarsi
persino pericoloso, ma non diventare quello che si è significa non vivere la
propria vita, bensì quella degli altri: “Nihil ergo magis praestandum est
quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum
est sed quo itur”. (Seneca, De vita beata, 1, 3.) niente allora
dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge di coloro i
quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non dove
dobbiamo andare ma dove si va.
Questa conclusione non vale solo per l'Italia dell'Ottocento, ma per tutto l'Occidente moderno, a mio avviso.
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