la sfinge di Tebe |
Quella sera
sulla collina sopra il Danubio fu la nostra ultima in Ungheria, il culmine
dell’intesa amorosa.
Da questo
momento la fiamma di Eros iniziò a intiepidirsi, il suo fulmine a perdere forza
e velocità. Un poco alla volta, ma irreversibilmente, come succede spesso.
Per
non cadere nel patetico sul tipo di “il grande amore sta per finire con dolore
e lacrime” voglio ricordare un particolare comico e mitico.
Ciò che
finisce dopo tutto non ha nessuna ragione per continuare, e va bene che
termini. Sarebbero guai molto seri se continuasse tra noia e dolore. Sparisce
solo l’amore che non può durare nella bellezza.
Le cose
ontologicamente belle restano eterne, e brillano come stelle nella notte, per
sempre o quasi per sempre.
Ora ti
faccio fare due risate, lettore, per contrastare la malinconia della decadenza
di questo amore e, soprattutto, il terrore della nostra mortalità.
Comedy escapes , la commedia è evasione, fa
dire Woody Allen a un personaggio del film Melinda e Melinda.
In un altro
film del medesimo autore, Crimini e misfatti, un personaggio dice:
“Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più del tempo.
La Poetica
di Aristotele afferma che la tragedia vuole rappresentare personaggi
migliori di quelli reali (beltivou") mentre la commedia è imitazione di uomini
peggiori di quelli attuali ogni giorno ( ceivrou"
tw'n nu'n 1448a),
ossia ancora più volgari, e tali che non suscitano tanto lo sdegno quanto il
riso provocato dalla visione del ridicolo.
"Il
ridicolo" infatti spiega il filosofo "è qualche cosa di
sbagliato" (aJmavrthma , 1449a).
La commedia
è mivmhsi" faulotevrwn imitazione di personaggi che valgono poco per il ridicolo (to; geloi'on) che è parte del brutto. Il
ridicolo è un errore ed è una bruttezza indolore e non è deleterio (aJmavrthmav ti
kai; ai\sco" ajnwvdunon kai; ouj fqartikovn), proprio come la maschera comica è qualche cosa di
brutto e stravolto ma senza dolore (Poetica, 1449a).
L'errore del
resto viene menzionato anche per i personaggi tragici (aJmartiva, 1453a); la differenza è che nei
loro confronti deve nascere pietà e terrore, mentre la commedia non produce
dolore né compassione.
Ora
comprendo - ajrti manqavnw - come dice Admeto[1] il quale chiese alla sposa Alcesti
di morire al posto di lui - che continuare il nostro rapporto sarebbe stato un
errore tragico o comico, e che, stando insieme altro tempo, non a noi due
destinato, saremmo diventati peggiori di come eravamo in quel mese del 1974.
Prima di
arrivare alla catastrofe dunque, prendiamo tempo con una brevissima commedia, o
piuttosto un dramma satiresco, con un uomo come protagonista umano, un’aquila,
l’uccello di Zeus, quale deuteragonista, e il coro formato da una brigata di
avvinazzati.
Sulla
terrazza del ristorante Silvanus dove mangiavamo, volteggiava l’uccel di Dio[2]. Da un tavolo non lontano dal nostro si
faceva notare Danilo che l’insana dulcedo perpotandi[3] aveva spinto ad alzare il gomito
innumerevoli volte.
Alla levata
di ogni bicchiere gridava: “Chi non è vil, mi segua” come un condottiero che
vuole arginare una rotta imminente.
Poi tra un sorso e l’altro della compotazione
augurava salute a tutti, assenti e presenti, e da uomo colto qual è, recitava
senza alcuno sforzo la parte di Eracle beone nell’Alcesti di
Euripide: “eu[fraine sauto;n, pi'ne, to;n kaq j hJmevran - bivon
logivzou so;n, ta; d j a[lla th'ς tuvchς”[4].
I suoi
commensali già impregnati di aperitivi lo ascoltavano, probabilmente senza
capirlo, poi ripetevano i due trimetri con storpiature puntualmente corrette dall’improvvisato
capobanda che si sbracciava mimando le mosse di un direttore d’orchestra.
Ogni tre
minuti qualcuno toglieva da una nuova bottiglia il tappo a forma di fungo, lo
liberava dalla sua prigione di fil di ferro e versava il nobile liquido per
elettrizzare lo stomaco con il suo gelido e profumato frizzare. Il vino
scendeva rapido come un torrente montano nei gargarozzi profondi di questa
brigata dall’aria allegra.
Il tripudio
dionisiaco non poteva restare privo di danze: ogni tanto il corifeo gridava: “babai'
coreu'sai parakalei' m j oJ bakcio"”[5], quindi si metteva a danzare tra gli applausi frenetici del resto del
coro e di noi spettatori.
Come ebbe
smesso il ballerino, soddisfattissimo, disse:
"Accedant
capiti meo cornua Bacchus ero" 5bis
Dopo
le libagioni a tutti gli dèi del cielo, della terra e del sottosuolo, il capo
del tiaso, il dotto simposiarca giurò sull’ennesima coppa che non vi avrebbe
mai versato dell’acqua[6], poi, oramai farfugliante si distese
sopra la tovaglia. Ancora un goccio, un breve schiamazzo fatto di strani versi,
e stramazzò. Le braccia e le mani non avevano più la forza di reggere nemmeno
un bicchiere minuscolo.
Aveva
indosso calzoni corti e bretelle. Pochi minuti più tardi dormiva, o, forse, era
svenuto.
Dopo avere
salutato a gesti l’ addormentato sul tavolo, i suoi compagni di canti,
declamazioni e bevute, una masnada di grossi Russi inclini alla crapula, se ne
erano andati. Un’aquila in cerca di cibo per sé e forse anche per gli
aquilotti, visto l’uomo solo e resupino, probabilmente lo aveva scambiato per
Prometeo legato sulla rupe scitica e voleva strappargli il fegato.
Calò un paio
di volte su di lui, ma poi cambiò la direzione e l’intento: il grande rapace arrivato
a pochi metri dalla sua preda, respinto e sconvolto dall’odore acre dell’alcol
più volte esalato a soffioni , si impennò verso il cielo con una virata così
repentina che una delle “sacre penne”[7] le cadde da un’ala e si posò sulla
fronte dell’ebbro dormiente facendone una specie di alpino che sogna la libera
uscita con la ragazza, non senza, però, la bottiglia.
Lo feci
notare a Päivi e commentai la strana visione dicendo che il grande uccello, colpito
dall’esalazione eruttata dall’amico imbevuto, non se l’era sentita di andare a
frugare nelle sue viscere e aveva ripreso la via dell’etere puro.
“Il
cane alato di Zeus, l'aquila sanguinaria non aveva fatto a brani, voracemente,
il grande straccio madido del suo corpo e tanto meno ne aveva inghiottito il fegato,
nero pasto "[8].
Utilizzai
opportunamente Eschilo non senza confessare il mio debito al grande maestro.
Päivi mi
guardò con ammirazione e disse: “in te c’è qualche cosa di folle e pure di
geniale”
“ Ce la
metto tutta per sembrarti geniale - risposi - . E’ questa apparenza che ti ha
attirata e spinta ad amarmi. Con questa cerco di trattenerti”.
”May be”[9] replicò senza scomporsi, anzi
accentuando la sua solita aria da Sfinge.
Avrai
notato, lettore, che quando l’amore è in fase calante si parla con scarsa chiarezza.
Per non impegnarsi, perché si è già capito che il tempo concesso da Eros è
scaduto. Lo stesso avviene nella fase incipiente quando non si è ancora giunti
a decidere e tutto può essere: “may be”.
Intanto
Danilo si era svegliato e non trovando i compagni si mise a gridare tra i fumi
dell’alcol e quelli del sonno.“Dormite iam et requiescite? Sufficit, venit
hora[10]. Basta l’ora è giunta”, tradusse. Quindi
concluse: “Questo è tutto”. E si addormentò un’altra volta. Non lo incontreremo
mai più.
giovanni
ghiselli
[3] L’insano piacere di bere a
dismisura. Era uno dei vizi di Alessandro Magno secondo Curzio Rufo (
Historiae Alexandri Magni, (VI, 2, 2)
[4] Alcesti, 778 - 779, rallegrati, bevi, conta
come tua la vita di ogni giorno, il resto è della sorte.
5 bis Cfr.
Ovidio, Heroides, 15, 24. Si aggiungano le corna al mio capo, sarò
Bacco.
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