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La Finlandia senza calore né colore. L’olocausto della mosca
Nei due
giorni seguenti, Päivi mi fece da guida indicandomi gli aspetti tipici della
sua terra: i laghi, i boschi, le saune. Non c’era molto di più. Mancava la
storia, difettavano lo spessore e la nobiltà dell’antico.
Alla luce
del giorno distinguevo gli abeti dalle betulle e potevo vedere qualche uccello
palmipede pedalare nell’acqua. Però i colori delle chiome vizze degli alberi
non erano vivi, la bianca cintura delle betulle non era una pelle sugosa come
favoleggia il Kalevala, e il movimento delle zampe palmate e
fangose di quei pennuti acquatici era meccanico.
Il
volto di Päivi era inerte e inespressivo. Il destino segnato invece si
appressava con i chiari significati della la fine.
I fiori
ombrosi e ingobbiti mi facevano rimpiangere i papaveri ardenti e le spighe
itifalliche del nostro paese assolato.
Anche i
colori del cielo rischiarato da un sole sfuocato[1] erano
smorti: piccole nuvole bianche, spinte da un vento gelido, passavano
velocemente tra quella terra improduttiva, senza ricordi, e l’etere, pallido
come le facce e le teste scolorite delle poche persone che giravano per le
strade semi - deserte di quel luogo desolato.
La
Finlandia delle donne più amate da me, non era la mia terra promessa.
Ovunque
mancava il colore, mancava il calore, mancava la forza della vita. Insomma
passai due giorni penosi e tre notti tristi.
Cominciavo a
temere che l’amore con Päivi fosse una sorte di mésalliance,
l’unione provvisoria e precaria tra due persone di stato, carattere e costumi
disuguali, se non addirittura di specie diversa.
La creatura
concepita in luglio, se fosse nata sarebbe potuta riuscire come certe
figure mitologiche bimembri, quali erano, per esempio, gli acri centauri nati
da una nube e da Issione. Ecco perché. Con il tempo ho imparato che la felicità
difficilmente si sposa con il desiderio che l’aveva invocata.
Finalmente,
il 23 pomeriggio, quando quel sole obnubilato, si stava già spengendo del tutto
tra le foglie moribonde degli alberi, Päivi e io ci salutammo con un triste
brindisi a base di birra. Poi lei partì, diretta a nord, ancora più a nord, con
la bianca Volkswagen, e non l’ho vista mai più. Se non in fotografia dove anzi
l’ho contemplata più volte, a lungo.
Rimasi un
altro giorno a Yväskylä, poiché l’aereo prenotato per il ritorno partiva solo
il 26 pomeriggio.
Dopo la
dipartita della donna pregnante, feci un giro per il paese scrutando i pochi
passanti bianchi come le erme funerarie, mentre tutte le vie si abbuiavano nel
crepuscolo freddo. Speravo di vedere e riconoscere la dolce e bella Helena, o
almeno una che le somigliasse, magari con un bambino di due anni e mezzo, e
senza quel Puntila padre. Ma non la incontrai.
Quindi
tornai nel collegio studentesco. Andai a salutare un’amica di Päivi, conosciuta
e frequentata nel lungo, sitibondo, felice mese di Debrecen. Si chiamava
Anneli: era bionda, carina, gentile. Mi accolse con simpatia, quale benevola Eumenide,
e, dopo i saluti, riprendemmo un discorso sulla storia romana che a lei
interessava. Mi faceva domande, mi ascoltava con attenzione, e replicava con
intelligenza.
Ne ricavai
la sensazione angosciante di avere più cose da dire con lei che con la donna
incinta di me rimasta spesso silente e quasi ostile come un’Erinni, da quando
mi aveva visto arrivare, inopportuno, in Finlandia.
Verso le
dieci tornai nel monolocale e scrissi una lettera ad Antonella, l’amica romana
dell’ultima Debrecen, descrivendole la mia situazione sentimentale e mentale
penosa, e chiedendole cosa dovevo fare, una volta tornato in Italia. La mia
confusione era totale. Mi consiglierà di studiare il finlandese e di sposare
Päivi che era la donna giusta per me. Quattro anni più tardi l’amica, forse
ricreduta, mi ospitò per una notte d’amore con la supplente - amante Ifigenia,
mediterranea, mora, abbronzata, calda, vivace, durante una gita scolastica a
Roma.
Avevamo
affidato i nostri allievi a dei colleghi più seri di noi due, a vizio di
lussuria tanto rotti da posporre ogni funzione alla libidine.
Quando ebbi
concluso la lettera, affettai e mangiai del salame, non molto invero, ma bevvi
un’altra birra non piccola, e bruciai sadicamente, completamente, una mosca che
mi disturbava parecchio. Prima di andare a letto, feci gesti futili per
impiegare il mio tempo inutile con qualche parvenza di attività. L’abito
letterario mi fece venire in mente “ ho misurato la mia vita a cucchiaini di
caffè”[2].
Veramente
già in questa occasione tragica, come poi la notte del pozzo di Vernicino, tra
il 12 e il 13 giugno del 1981, pensai che dovevo scrivere una storia d’amore,
anzi la storia delle mie storie d’amore con le finlandesi.
“Vennero
donne con proteso il cuore/ognuna dileguò, senza vestigio”[3],
poteva essere l’epigrafe. Con il passare del tempo infatti diverse donne e
donne diverse mi avrebbero dato retta per un poco di tempo. Poi mi avrebbero
lasciato solo tutte quante, tranne un paio lasciate da me.
Chissà se
loro pensavano invece che a dileguarmi invece ero stato sempre io?
Tornato in
Italia, cercai di iniziare il racconto di queste storie, ma non avevo i mezzi,
cioè le grandi letture necessarie per esprimere sentimenti pur forti in maniera
interessante per chi non li aveva vissuti. Il mio pathos senza cultura era
soggettivo, noioso, o ridicolo. Gli mancava la dimensione e la categoria
dell’Universale necessaria per farsi leggere.
Me ne resi
conto e rinunciai a scrivere, per leggere e studiare dalla mattina alla sera.
L’amore per Päivi non mi lasciava desiderare altre femmine umane. Tanto meno
dei maschi umani o bestiali, lettore, non equivocare!
Dovevo
studiare per diventare degno di lei. La mia testa funzionava così.
[1] Mi perdoni la blasfemia la
santa fiamma che nutre la vita, il primo fra tutti gli dèi, ma in Grecia e
anche in Italia, il suo nume è del tutto diverso
[2] Cfr. T. S. Eliot, The
love song of J. Alfred Prufrock: “ I have measured out my life with coffee
spoons”, v. 51
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