giovedì 30 aprile 2020

La storia di Päivi. Capitolo 22. La Finlandia senza calore né colore

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La Finlandia senza calore né colore. L’olocausto della mosca

Nei due giorni seguenti, Päivi mi fece da guida indicandomi gli aspetti tipici della sua terra: i laghi, i boschi, le saune. Non c’era molto di più. Mancava la storia, difettavano lo spessore e la nobiltà dell’antico.
Alla luce del giorno distinguevo gli abeti dalle betulle e potevo vedere qualche uccello palmipede pedalare nell’acqua. Però i colori delle chiome vizze degli alberi non erano vivi, la bianca cintura delle betulle non era una pelle sugosa come favoleggia il Kalevala, e il movimento delle zampe palmate e fangose di quei pennuti acquatici era meccanico.
Il volto di Päivi era inerte e inespressivo. Il destino segnato invece si appressava con i chiari significati della la fine.
I fiori ombrosi e ingobbiti mi facevano rimpiangere i papaveri ardenti e le spighe itifalliche del nostro paese assolato.
Anche i colori del cielo rischiarato da un sole sfuocato[1] erano smorti: piccole nuvole bianche, spinte da un vento gelido, passavano velocemente tra quella terra improduttiva, senza ricordi, e l’etere, pallido come le facce e le teste scolorite delle poche persone che giravano per le strade semi - deserte di quel luogo desolato.
La Finlandia delle donne più amate da me, non era la mia terra promessa.
Ovunque mancava il colore, mancava il calore, mancava la forza della vita. Insomma passai due giorni penosi e tre notti tristi.
Cominciavo a temere che l’amore con Päivi fosse una sorte di mésalliance, l’unione provvisoria e precaria tra due persone di stato, carattere e costumi disuguali, se non addirittura di specie diversa.
La creatura concepita in luglio, se fosse nata sarebbe potuta riuscire come certe figure mitologiche bimembri, quali erano, per esempio, gli acri centauri nati da una nube e da Issione. Ecco perché. Con il tempo ho imparato che la felicità difficilmente si sposa con il desiderio che l’aveva invocata.
Finalmente, il 23 pomeriggio, quando quel sole obnubilato, si stava già spengendo del tutto tra le foglie moribonde degli alberi, Päivi e io ci salutammo con un triste brindisi a base di birra. Poi lei partì, diretta a nord, ancora più a nord, con la bianca Volkswagen, e non l’ho vista mai più. Se non in fotografia dove anzi l’ho contemplata più volte, a lungo.
Rimasi un altro giorno a Yväskylä, poiché l’aereo prenotato per il ritorno partiva solo il 26 pomeriggio.
Dopo la dipartita della donna pregnante, feci un giro per il paese scrutando i pochi passanti bianchi come le erme funerarie, mentre tutte le vie si abbuiavano nel crepuscolo freddo. Speravo di vedere e riconoscere la dolce e bella Helena, o almeno una che le somigliasse, magari con un bambino di due anni e mezzo, e senza quel Puntila padre. Ma non la incontrai.
Quindi tornai nel collegio studentesco. Andai a salutare un’amica di Päivi, conosciuta e frequentata nel lungo, sitibondo, felice mese di Debrecen. Si chiamava Anneli: era bionda, carina, gentile. Mi accolse con simpatia, quale benevola Eumenide, e, dopo i saluti, riprendemmo un discorso sulla storia romana che a lei interessava. Mi faceva domande, mi ascoltava con attenzione, e replicava con intelligenza.
Ne ricavai la sensazione angosciante di avere più cose da dire con lei che con la donna incinta di me rimasta spesso silente e quasi ostile come un’Erinni, da quando mi aveva visto arrivare, inopportuno, in Finlandia. 

Verso le dieci tornai nel monolocale e scrissi una lettera ad Antonella, l’amica romana dell’ultima Debrecen, descrivendole la mia situazione sentimentale e mentale penosa, e chiedendole cosa dovevo fare, una volta tornato in Italia. La mia confusione era totale. Mi consiglierà di studiare il finlandese e di sposare Päivi che era la donna giusta per me. Quattro anni più tardi l’amica, forse ricreduta, mi ospitò per una notte d’amore con la supplente - amante Ifigenia, mediterranea, mora, abbronzata, calda, vivace, durante una gita scolastica a Roma.
Avevamo affidato i nostri allievi a dei colleghi più seri di noi due, a vizio di lussuria tanto rotti da posporre ogni funzione alla libidine.
Quando ebbi concluso la lettera, affettai e mangiai del salame, non molto invero, ma bevvi un’altra birra non piccola, e bruciai sadicamente, completamente, una mosca che mi disturbava parecchio. Prima di andare a letto, feci gesti futili per impiegare il mio tempo inutile con qualche parvenza di attività. L’abito letterario mi fece venire in mente “ ho misurato la mia vita a cucchiaini di caffè”[2].
Veramente già in questa occasione tragica, come poi la notte del pozzo di Vernicino, tra il 12 e il 13 giugno del 1981, pensai che dovevo scrivere una storia d’amore, anzi la storia delle mie storie d’amore con le finlandesi.
 “Vennero donne con proteso il cuore/ognuna dileguò, senza vestigio”[3], poteva essere l’epigrafe. Con il passare del tempo infatti diverse donne e donne diverse mi avrebbero dato retta per un poco di tempo. Poi mi avrebbero lasciato solo tutte quante, tranne un paio lasciate da me.
Chissà se loro pensavano invece che a dileguarmi invece ero stato sempre io?
Tornato in Italia, cercai di iniziare il racconto di queste storie, ma non avevo i mezzi, cioè le grandi letture necessarie per esprimere sentimenti pur forti in maniera interessante per chi non li aveva vissuti. Il mio pathos senza cultura era soggettivo, noioso, o ridicolo. Gli mancava la dimensione e la categoria dell’Universale necessaria per farsi leggere.
Me ne resi conto e rinunciai a scrivere, per leggere e studiare dalla mattina alla sera. L’amore per Päivi non mi lasciava desiderare altre femmine umane. Tanto meno dei maschi umani o bestiali, lettore, non equivocare!
Dovevo studiare per diventare degno di lei. La mia testa funzionava così.



[1] Mi perdoni la blasfemia la santa fiamma che nutre la vita, il primo fra tutti gli dèi, ma in Grecia e anche in Italia, il suo nume è del tutto diverso
[2] Cfr. T. S. Eliot, The love song of J. Alfred Prufrock: “ I have measured out my life with coffee spoons”, v. 51
[3] Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità, v. 259.

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