NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 7 aprile 2020

Leopardi: "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani". Parte III

Bramante, Eraclito e Democrito

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A proposito del ridere
La tavola 6 di La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo di Massimo Cacciari (Einaudi, Torino, 2019)  riproduce un affresco di Bramante del 1487. Ora si trova a Milano, nella pinacoteca di Brera.
Mostra Eraclito e Democrito, il primo triste, chiomato aggrottato, l’altro mezzo calvo e ridente, o irrisorio.
Cacciari lo commenta facendo riferimento al” riso liberatore” del Momus di Alberti. In questa satira “il filosofo - che ride per eccellenza Democrito, è, a sua volta oggetto di riso, pur distinguendosi con nettezza dagli altri personaggi dell’in philosophos! albertiano, piú o meno tutti caratterizzati dalla massima delle follie: volere che l’universo sia fatto a misura della propria stultitia. Democrito appare interamente dedito a ricerche naturalistiche, all’apparenza insensate (come vivisezionare un granchio[1]), ma che pure testimoniano della sua consapevolezza dei limiti dell’intelletto umano. Insano, tuttavia, anche lui, poiché dimentica o non intende prendersi cura della realtà che lo circonda, e dunque manca di quella virtus che il filosofo, architetto e pittore, deve, per Alberti, possedere.

Cacciari menziona come “fonte seria, morale del motivo”, il De tranquillitate animi di Seneca il quale scrive:
“ In hoc itaque flectendi sumus, ut omnia vulgi vitia non invisa nobis sed ridicula videantur et Democritum potius imitemur quam
Heraclitum. Hic enim, quotiens in publicum processerat,
flebat, ille ridebat, huic omnia quae agimus miseriae, illi
ineptiae videbantur. Elevanda ergo omnia et facili animo ferenda: humanius est deridere vitam quam deplorare.
Adice quod de humano quoque genere melius meretur
qui ridet illud quam qui luget: ille et spei bonae aliquid 
relinquit, hic autem stulte deflet quae corrigi posse desperat;
et universa contemplanti maioris animi est qui risum non
tenet quam qui lacrimas, quando lenissimum adfectum
animi movet et nihil magnum, nihil severum, ne miserum
quidem ex tanto paratu putat” (15).

Torno a Cacciari che commenta l’affresco : “da qui l’inseparabilità delle due figure, come nell’affresco di Bramante (…) E’ democriteo, il riso albertiano? Gelasto, persona dell’Alberti nel Momus, non sta forse a dimostrarlo? Certo, il suo autore preferisce la maschera di Democrito a quella di Eraclito - come Montaigne (Saggi, I, 50)”.
Ricordo che Leopardi: scrive a proposito delle Operette morali"Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone , 1394) . 

Ma torniamo ai costumi degli Italiani: “Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni . Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci (…) In Italia la principale e più necessaria dote di chi vuol conversare, è il mostrare colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mai soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi (…). Ciascuno combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità restringere e riconcentrare ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si chiama appunto egoismo ed alienarle dagli altri, e rivolgerle contro di loro il che si chiama misantropia. L’uno e l’altra le maggiori pesti di questo secolo”.

In effetti la misantropia tanto nel Dyskolos di Menandro, quanto nel Timone di Atene di Shakespeare deriva proprio dall’ingratitudine e dalle offese che Cnemone e Timone hanno subito e sofferto dal prossimo

Cnemone si ricrede in seguito a un beneficio ricevuto dal figliastro Gorgia che in precedenza aveva maltrattato:
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino uno che ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou;" logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to; kerdaivnein). Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo? Se io
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io anche se fossi del tutto sano
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai)". ( Menandro, Dyskolos, vv.713 - 735).

L’antipatia reciproca, dire male gli uni degli altri e danneggiarsi a vicenda “sono le conseguenze della poca società e poca vita che avvi in Italia”.

Si possono commentare queste parole pensando alle guerre civili e “più che civili” avvenute in Italia dal tempo di Romolo e Remo.
Orazio fa risalire proprio a questi due fratelli la maledizione che grava su Roma dilaniata
Nell’Epodo VII il poeta ricorda il crimine dell’uccisione fraterna (scelusque fraternae necis, v. 18) per cui scorse in terra il sangue di Remo sacer nepotibus cruor (v. 2), maledetto per i nipoti. E’ ripresa la guerra civile dopo la pace malsicura di Brindisi del 40 a. C. 
Lo stesso Orazio nel Carmen saeculare 1 invece preannuncia il ritorno dell'età dell'oro a Roma, come aveva fatto Virgilio nella IV ecloga [2].
Per non fermarci ai Romani si pensi poi a tutta la storia d’Italia fino alla Repubblica di Salò.
Del resto, prosegue Leopardi “dovunque v’ha società, quivi l’uomo cerca sempre d’ innalzarsi in qualunque modo e con qualunque sia mezzo, colla depressione degli altri, e di far degli altri uno sgabello a se stesso”.
Caratteristica di questo secolo è l’egoismo. Questo è dappertutto ma in Italia crea inconvenienti maggiori “ di peggior natura, più efficaci, più gravi, più estesi e frequenti e divulgati, più dannosi, più caratteristici e distinti nella nostra società e nella nostra vita che altrove”.
Leopardi poi nota che “l’Italia è in ordine alla morale più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea e civile” perché ha perduto i valori antichi distrutti dai lumi non ha seguito i progressi della civiltà moderna. “Sì per l’una parte è inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più sociali, più attive e più vive di lei, per l’altra alle meno colte e istruite e men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia , al Portogallo, alla Spagna, le quali conservano ancora una gran parte de’ pregiudizi de’ passati secoli, e dalla ignoranza hanno ancora qualche garanzia della morale, benché sien prive di quella che dà alla morale la società e il sentimento delicato dell’onore”.
Segue non senza una dose di contraddizione una confutazione di Chateaubriand che ammirava “la Spagna ancor fresca, ancor vicina alla natura” e “s’ingannava grandemente”. Vicinanza alla natura significa sussistenza dell’antica civiltà, “ma lo stato della Spagna non ha niente a che fare con l’antica civiltà” bensì con la “barbarie de’ tempi bassi”. penso che il Recanatese intenda il basso impero e l’alto Medio Evo. Insomma il Rinascimento rinasce con l’antico dalla barbarie seguita all’antico.
 “E’ un falsissimo modo di vedere quello di considerare la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico (…) Il risorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico”. Con “risorgimento” Leopardi intende “Rinascimento”
La civiltà non nacque nel Quattrocento in Europa, ma rinacque.

“E rinascita significa non tanto far risorgere un passato (che mai, appunto, viene sentito o studiato come tale), ma “risvegliare il presente”[3]

Lo chiede anche Leopardi nella canzone Ad Angelo Mai [4]: “o scopritor famoso,/segui, risveglia i morti, poi che dormono o vivi” (vv.175 - 177).






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