Bramante, Eraclito e Democrito |
A proposito
del ridere
La tavola 6
di La mente inquieta. Saggio
sull’Umanesimo di Massimo
Cacciari (Einaudi, Torino, 2019) riproduce
un affresco di Bramante del 1487. Ora si trova a Milano, nella pinacoteca di
Brera.
Mostra
Eraclito e Democrito, il primo triste, chiomato aggrottato, l’altro mezzo calvo
e ridente, o irrisorio.
Cacciari lo
commenta facendo riferimento al” riso liberatore” del Momus di
Alberti. In questa satira “il filosofo - che ride per eccellenza Democrito, è,
a sua volta oggetto di riso, pur distinguendosi con nettezza dagli altri
personaggi dell’in philosophos! albertiano, piú o meno tutti
caratterizzati dalla massima delle follie: volere che l’universo sia fatto a
misura della propria stultitia. Democrito appare interamente dedito
a ricerche naturalistiche, all’apparenza insensate (come vivisezionare un
granchio[1]), ma che pure testimoniano della sua
consapevolezza dei limiti dell’intelletto umano. Insano, tuttavia, anche lui,
poiché dimentica o non intende prendersi cura della realtà che lo circonda, e
dunque manca di quella virtus che il filosofo, architetto e
pittore, deve, per Alberti, possedere.
Cacciari
menziona come “fonte seria, morale del motivo”, il De tranquillitate animi di
Seneca il quale scrive:
“ In hoc
itaque flectendi sumus, ut omnia vulgi vitia non invisa nobis sed ridicula
videantur et Democritum potius imitemur quam
Heraclitum.
Hic enim, quotiens in publicum processerat,
flebat, ille
ridebat, huic omnia quae agimus miseriae, illi
ineptiae
videbantur. Elevanda ergo omnia et facili animo ferenda: humanius est deridere
vitam quam deplorare.
Adice quod
de humano quoque genere melius meretur
qui ridet
illud quam qui luget: ille et spei bonae aliquid
relinquit,
hic autem stulte deflet quae corrigi posse desperat;
et universa
contemplanti maioris animi est qui risum non
tenet quam
qui lacrimas, quando lenissimum adfectum
animi movet
et nihil magnum, nihil severum, ne miserum
quidem ex
tanto paratu putat” (15).
Torno a
Cacciari che commenta l’affresco : “da qui l’inseparabilità delle due figure,
come nell’affresco di Bramante (…) E’ democriteo, il riso albertiano?
Gelasto, persona dell’Alberti nel Momus, non sta
forse a dimostrarlo? Certo, il suo autore preferisce la maschera di Democrito a
quella di Eraclito - come Montaigne (Saggi, I, 50)”.
Ricordo che
Leopardi: scrive a proposito delle Operette morali"Così a
scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi
del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo
preparando"(Zibaldone , 1394) .
Ma torniamo
ai costumi degli Italiani: “Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di
tutte le loro pari nelle altre nazioni . Il popolaccio italiano è il più cinico
dei popolacci (…) In Italia la principale e più necessaria dote di chi vuol
conversare, è il mostrare colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso
altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più
che sia possibile mai soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi (…).
Ciascuno combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità restringere e
riconcentrare ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si
chiama appunto egoismo ed alienarle dagli altri, e rivolgerle contro di loro il
che si chiama misantropia. L’uno e l’altra le maggiori pesti di questo secolo”.
In effetti
la misantropia tanto nel Dyskolos di Menandro, quanto
nel Timone di Atene di Shakespeare deriva proprio
dall’ingratitudine e dalle offese che Cnemone e Timone hanno subito e sofferto
dal prossimo
Cnemone si ricrede in seguito a un beneficio ricevuto
dal figliastro Gorgia che in precedenza aveva maltrattato:
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che
credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino uno che
ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro
calcoli (tou;" logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to;
kerdaivnein). Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un
altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo
nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in
alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con
gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo? Se io
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello
che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io anche se fossi del tutto sano
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe
mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n
eja'q j wJ" bouvlomai)". ( Menandro, Dyskolos,
vv.713 - 735).
L’antipatia reciproca, dire male gli uni degli altri e
danneggiarsi a vicenda “sono le conseguenze della poca società e poca vita che
avvi in Italia”.
Si possono commentare queste parole pensando alle
guerre civili e “più che civili” avvenute in Italia dal tempo di Romolo e Remo.
Orazio fa risalire proprio a questi due fratelli la
maledizione che grava su Roma dilaniata
Nell’Epodo VII
il poeta ricorda il crimine dell’uccisione fraterna (scelusque fraternae
necis, v. 18) per cui scorse in terra il sangue di Remo sacer
nepotibus cruor (v. 2), maledetto per i nipoti. E’ ripresa la guerra
civile dopo la pace malsicura di Brindisi del 40 a. C.
Lo stesso
Orazio nel Carmen saeculare 1 invece preannuncia il
ritorno dell'età dell'oro a Roma, come aveva fatto Virgilio nella IV ecloga [2].
Per non
fermarci ai Romani si pensi poi a tutta la storia d’Italia fino alla Repubblica
di Salò.
Del resto,
prosegue Leopardi “dovunque v’ha società, quivi l’uomo cerca sempre d’
innalzarsi in qualunque modo e con qualunque sia mezzo, colla depressione degli
altri, e di far degli altri uno sgabello a se stesso”.
Caratteristica
di questo secolo è l’egoismo. Questo è dappertutto ma in Italia crea
inconvenienti maggiori “ di peggior natura, più efficaci, più gravi, più estesi
e frequenti e divulgati, più dannosi, più caratteristici e distinti nella
nostra società e nella nostra vita che altrove”.
Leopardi poi
nota che “l’Italia è in ordine alla morale più sprovveduta di fondamenti che
forse alcun’altra nazione europea e civile” perché ha perduto i valori antichi
distrutti dai lumi non ha seguito i progressi della civiltà moderna. “Sì per
l’una parte è inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più
sociali, più attive e più vive di lei, per l’altra alle meno colte e istruite e
men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia , al Portogallo, alla
Spagna, le quali conservano ancora una gran parte de’ pregiudizi de’ passati
secoli, e dalla ignoranza hanno ancora qualche garanzia della morale, benché
sien prive di quella che dà alla morale la società e il sentimento delicato
dell’onore”.
Segue non
senza una dose di contraddizione una confutazione di Chateaubriand che ammirava
“la Spagna ancor fresca, ancor vicina alla natura” e “s’ingannava grandemente”.
Vicinanza alla natura significa sussistenza dell’antica civiltà, “ma lo stato della
Spagna non ha niente a che fare con l’antica civiltà” bensì con la “barbarie
de’ tempi bassi”. penso che il Recanatese intenda il basso impero e l’alto
Medio Evo. Insomma il Rinascimento rinasce con l’antico dalla barbarie seguita
all’antico.
“E’ un
falsissimo modo di vedere quello di considerare la civiltà moderna come
liberatrice dell’Europa dallo stato antico (…) Il risorgimento è stato dalla
barbarie de’ tempi bassi non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le
arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi non ci hanno liberato
dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico”. Con
“risorgimento” Leopardi intende “Rinascimento”
La civiltà
non nacque nel Quattrocento in Europa, ma rinacque.
“E rinascita
significa non tanto far risorgere un passato (che mai, appunto, viene sentito o
studiato come tale), ma “risvegliare il presente”[3]
Lo chiede
anche Leopardi nella canzone Ad Angelo Mai [4]: “o scopritor famoso,/segui,
risveglia i morti, poi che dormono o vivi” (vv.175 - 177).
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