Primo Stasimo (dal v. 348 al v. 435)
ai[linon è la prima parola. Che può essere scritto anche ai] Livnon come nella oxoniense del Murray. Dunque questo Alinon o ahi Lino è il grido che Febo ijacei' fa risuonare ejp j eujtucei' molpa'/, dopo un canto di trionfo (350).
Nell’Iliade Omero descrive lo scudo di Achille con una vendemmia dove un ragazzo con cetra sonora e voce sottile (livnon d j ujpo; kalo;n a[eide 570) cantava un bel canto popolare accompagnando le danze.
Erodoto in II 78 racconta che gli Egiziani sono molto rispettosi dei costumi antichi e non ne accolgono altri. Hanno un solo canto, chiamato dai Greci Livno", cantato con nomi diversi anche a Cipro e in .Fenicia. Gli Egiziani lo chiamano Manerw'". Alcuni Egiziani gli dissero che questo era il nome del primo re di Egitto morto a[wro", ante diem, e questo loro primo canto era il lamento funebre per il giovane. Dunque Lino, il cantore mitico, può essere una figura simile ad Adone la cui morte era simbolica del taglio delle messi.
James George Frazer è noto in Italia soprattutto per Il ramo d’oro, di cui è stata tradotta l’edizione del 1922, ridotta dall’autore rispetto alla prima del 1890.
Di Frazer si professa debitore T. S. Eliot: nelle note a La terra desolata (The Waste land , 1922) egli dichiara di dovere molto a due libri di antropologia: From Ritual to Romance della Weston, e Il ramo d'oro di Frazer. Di questo secondo Eliot menziona i capitoli Adone, Attis, Osiride, dove si dice che in epoche remote gli uomini facevano dipendere la forza vitale della gente dalla impareggiabile vitalità di una creatura straordinaria, dall' eccezionale vigore di un capo il quale però con il volgere delle stagioni si consumava, finché doveva essere sacrificato e sostituito.
Leggiamone alcune parole:"Le cerimonie della morte e della resurrezione di Adone devono essere state anch'esse una rappresentazione drammatica della morte e della rinascita delle piante...Inoltre la leggenda che Adone doveva passare metà, o, secondo altri, un terzo dell'anno nelle regioni sotterranee e il resto sulla terra, si spiega in modo assai facile e naturale ammettendo che egli rappresentasse la vegetazione, specialmente il grano, che sta metà dell'anno sotto terra ed è visibile l'altra metà (Il ramo d'oro , pp.525-526)
Del resto aveva già espresso il medesimo concetto Ammiano Marcellino :" Evenerat autem isdem diebus annuo cursu completo, Adonēa rito veteri celebrari , amato Veneris, ut fabulae fingunt, apri dente ferali deleto, quod in adulto flore sectarum est indicium frugum "(XXII, 9, 15). Avveniva poi in quei medesimi giorni che, compiuto il corso dell'anno (il 361 d. C.), si celebravano secondo l'antico rito le feste per Adone, amato da Venere e ucciso dal dente di un cinghiale selvaggio, il che è simbolo delle messi recise quando sono mature".
Adone che muore e risorge dunque rappresenta la forza riproduttiva che cade e si rialza. Secondo Frazer tutte le divinità che passano per questo avvicendamento di morte e resurrezione avevano tale significato, e Cristo può essere interpretato come un epigono di Adone, Attis, Osiride[1].
Nella Parodo dell’Agamennone di Eschilo ricorre tre volte il verso ai[linon, ai[linon eijpev, to; d j eu\ nikavtw (121, 139, 159), canta un canto funebre ma vinca il bene!
Si tratta dunque, probabilmente, di un canto funebre che prelude alla resurrezione.
Febo canta colpendo la cetra dal suono armonioso con il plettro d’oro (Eracle, 350-351)
I maestri della prima Stoà dicevano che il mondo è pieno di tovno", tensione. Il sole colpisce il mondo con i suoi raggi, come Apollo con il plettro tocca le corde della lira (plh'ktron ciò con cui batto, colpisco plhvssw). Cleante definì il tovno" forza propulsiva (plhghv) del fuoco. Crisippo mise il pneuma al posto del fuoco artista che procede metodicamente alla creazione supposto Zenone.
Le fatiche di Eracle e la necessità dell’impegno laborioso in diversi autori
Il coro di vecchi tebani vuole celebrare con un inno la corona delle fatiche uJmnh'sai stefavnwma movcqwn (356-357). Le virtù delle nobili fatiche sono una statua ai morti- toi'" qanou'sin agalma (358).
Le 12 fatiche di Eracle sono rappresentate nel tempio di Zeus a Olimpia (460 a. C.). La prima qui nella tragedia è quella del leone. Eracle liberò dal leone Dio;" a[lso" (359), il bosco sacro di Zeus e si coprì il capo biondo con le tremenda fauce fulva della belva.
Ateneo (XII 512f) cita Megaclide il quale afferma che Stesicoro fu il primo a raffigurare Eracle con la clava, l’arco e la pelle di leone, mentre prima aveva solo l’arco e le frecce.
In effetti nella Nevkuia omerica Eracle procede
gumno;n tovxon e[cwn kai; ejpi; neurh'fi ojistovn (Od. XI, 607) con l’arco nudo e il dardo sul nervo.
Poi con l’arco omicida Eracle stese (e[strwsen, 366) la stirpe montana dei selvaggi centauri. Questa impresa è posta nella Tessaglia tra il fiume Peneo il monte Pelio e l’Omole che fa parte del massiccio dell’Ossa. Eracle non è solo l’eroe dorico che ha ripulito il Peloponneso. Prima i Centauri armati di Pini sottomettevano la terra dei Tessali con le loro cavalcate.
Segue la cerva dalla testa d’oro, dal dorso variopinto (crusokavranon dovrka poikilovnwton (375-376) la predatrice degli agricoltori.
Eracle la uccise, quindi la consacrò nel tempio di Enoe, tra l’Arcadia e l’Argolide, ad Artemide alla dea che dà la caccia alle fiere. Eracle come benefattore dei contadini.
Quindi le cavalle antropofaghe di Diomede imbrigliate e domate. Queste bestie, nelle greppie insanguinate (foinivaisi favtnai", 382), prima di essere imbrigliate ajcavlina, muovevano rapidamente cibi cruenti con le mascelle –ejqovazon kavqaima gevnusi si'ta (384), orrende banchettatrici dustravpezoi, nelle gioie che divorano gli uomini (carmonai'sin ajndrobrw'si, 384). Eracle attraversò l’Ebro dalla corrente d’argento per arrivare in Tracia a compiere questa fatica ordinata dal re di Micene.
Euripide aveva ricordato questa fatica già nell’Alcesti del 436
All’inizio del terzo episodio entra in scena Eracle che, afferma Kott, si comporta come un soldato al bivacco. Passa di lì diretto in Tracia dove compirà l'ottava fatica:
"vado a prendere la muta dei destrieri del tracio Diomede"(483). Deve portare le cavalle antropofaghe a Euristeo il re di Tirinto (v.491) che ha il potere di dargli ordini. Si tratta dell’VIII fatica.
Eracle è l'eroe della razza dorica, colui che debella i mostri e porta la civiltà. In questo dramma più antico, pur rimanendo una figura benefica, assume aspetti comici e grotteschi che forse nelle intenzioni del "maligno" Euripide, alludono alla rozzezza dei Peloponnesiaci, nemici no, poiché nell'anno della rappresentazione dell'Alcesti era ancora in vigore la pace del 446, ma incolti, maleducati sì e parecchio.
Catturare quelle cavalle non sarà uno scherzo. L'eroe scambia delle battute con il corifèo che lo ha incontrato davanti al palazzo di Admeto:
Corifeo" Non è facile mettere il morso a quelle mascelle"(Alcesti, 492)
Eracle"Se non spirano fuoco dalle narici"
Corifeo"No, ma fanno a pezzi gli uomini con voraci mascelle"
Eracle"Cibo di bestie selvagge, non di cavalli è questo che dici"
Corifeo "Potresti vedere le greppie intrise di sangue"(496).
Nell’Eracle si tratta piuttosto di mettere in cattiva luce Tebe e forse Euripide sperava che la tregua malsicura tra Sparta e Atene, la pace di Nicia del 421, non si rompesse del tutto nonostante le provocazioni di Alcibiade. Comunque nel 418 c’era stata un’alleanza difensiva di Atene con Mantinea e Argo che infatti viene indicata come patria di Eracle il quale del resto troverà una seconda patria ad Atene.
Del resto Eracle è un personaggio del mito che assume aspetti diversi: dal ragazzo giudizioso (Eracle al bivio attribuito a Prodico di Ceo nei Memorabili di Senofonte), al marito assenteista e donnaiolo (le Trachinie) , all’amico fedele di Teseo in questa tragedia.
Nel primo stasimo dell’Eracle di Euripide segue l’uccisione di Cicno sulla costa della Tessaglia dominata dal Pelio, presso le acque dell’Anauro. Questo assassino uccideva gli stranieri.
Poi con i loro teschi edificava un tempio ad Ares, suo padre.
Ma questo Euripide non lo racconta: lo ricaviamo da altri testi
Cicno era figlio di Ares che lo aiutava, ma Eracle lo uccise comunque.
In Stesicoro c’è la variante che Eracle in una prima fase fuggì, mentre in Esiodo Eracle con Iolao sconfigge Ares, e uccide subito Cicno.
La ritirata di Eracle in Stesicoro vuole accrescere la tensione della narrazione.
La variante della ritirata temporanea di Eracle è ricordata da Pindaro nell’Olimpica X: la lotta di Cicno anche il fortissimo Eracle volse alla fuga ( travpe de; Kuvkneia -mavca kai; uJpevrbion JHrakleva, 15-17).
In Esiodo Cicno uccide i pellegrini che vanno a Delfi e Apollo spinge Eracle a combatterlo. Stesicoro aggiunge il tempio fatto di teschi. Cicno è uno di quei mostruosi predoni come Procuste che avevano modi bizzarri di uccidere gli stranieri.
Quindi Euripide ricorda l’uccisione del drago dal dorso fulvo che avvolto nelle sue spire custodiva il frutto d’oro inaccessibile delle vergini Esperidi e la raccolta dei pomi aurei.
Allora scese negli abissi e impose la bonaccia in favore dei remi mortali.
Poi andò nella casa di Atlante e con forza eroica (eujanoriva/) sorresse le dimore stellate degli dèi (ajstrwpouv" oi[kou" qew'n, 406-407).
Secondo il racconto dello pseudoApollodoro, fu Atlante a cogliere le mele d’oro mentre Eracle lo sostituiva nel reggere la volta celeste (Biblioteca II, 113-121). Euripide separa le due fatiche, invece in una metopa del tempio di Zeus a Olimpia Eracle è raffigurato mentre sostiene la volta del cielo con l’aiuto di Atena e riceve da Atlante i pomi d’oro.
Quindi è la volta delle Amazoni le cui schiere equestri stavano attorno alla palude Meotide dai molti fiumi Maiw'tin ajmfi; polupovtamon (409) (il mar d’Azov). Per compiere questa fatica radunò un esercito panellenico (negli Eraclidi si legge che tra gli altri c’era Teseo, 215-217). Eracle doveva portare a Micene il manto intessuto d’oro della vergine figlia di Ares, e la preda fatale del cinto (zwsth'ro" 415)
La Grecia prese le spoglie gloriose (ta; kleina; lavfura) della vergine barbara (Ippolita) e le custodisce a Micene.
In altre versioni Ippolita venne sposata da Teseo e gli diede il figlio Ippolito.
Poi Eracle distrusse con il fuoco la cagna dalle mille teste, dalle molte stragi, l’idra di Lerna tavn te muriovkranon- poluvfonon kuvna Levrna" – u{dran ejxepuvrwsen (419-421) e ne mise il veleno nei dardi. E’ un enorme serpente acquatico. Cagna denota istintualità sfrenata.
Cagna cantatrice (hJ rJayw/do;" kuvwn,v.391) nell’Edipo re è la Sfinge dal canto variopinto (hJ poikilw/do" Sfivgx, v.130), rappresenta il disordine primordiale, secondo Pasolini il crogiolo ribollente dell'inconscio. Esiodo e anche Euripide nello Ione (190-200) raccontano che Eracle per compiere questa impresa si fece aiutare da Iolao che cauterizzava le ferite dalle quali le teste mozzate cercavano di ricrescere.
Con il veleno dell’idra Eracle uccise il triswvmaton both'r j (424) il bovaro dai tre corpi di Eritìa, Gerione.
Virgilio pone Gerione e l’idra di Lerna tra i monstra all’ingresso dell’Averno.
Inoltre molti prodigi di fiere diverse (variarum monstra ferarum)
Sulla porta hanno la stalla i Centauri e le Scille bimembri
e Briareo con cento braccia e la belva di Lerna
che sibila orrendamente e armata di fiamme la Chimera,
e le Gorgoni e le Arpie e la forma di un'ombra dai tre corpi, et forma tricorporis umbrae (Eneide, VI, 285-289).
Nella Divina Commedia Gerione è una sozza imagine di froda (Inferno XVII, 7; VIII cerchio i fraudolenti). Questo Gerione ha faccia d’uom giusto, serpente nel corpo che termina in una coda biforcuta e leone nelle zampe. Cfr. l’ibrido che rimanda spesso al primitivo a una fase precivile superata.
Ecateo cerca di razionalizzare questo mito sostenendo che il figlio di Alcmena non fu mandato ejpi; nh'son tina JEruvqeian e[xw th'~ megavlh~ qalavssh~, in un’isola Eritia oltre il grande mare, cioè l’Oceano, ma che Gerione fu un re della terraferma nella regione dell’Ambracia e che di là l’eroe dorico condusse via i buoi, compiendo comunque un’impresa non ordinaria (oujde; tou'to fau'lon, FgrHist 1 F 26).
Può essere interessante confrontare questa interpretazione riduttiva della fatica di Eracle con quella di Callicle personaggio del Gorgia platonico. Il sofista afferma il diritto del più forte di prevalere sul meno forte citando dei versi di Pindaro[2] e commentandoli: “ Mi sembra che anche Pindaro esprima proprio il concetto che dico io nel canto in cui dice:
la legge è la regina di tutti
dei mortali e degli immortali:
e questa del resto aggiunge Pindaro
muove, giustificandola, somma violenza
con mano potentissima: lo dimostro
con le imprese di Eracle, poiché -senza pagarle-
dice più o meno così- infatti non conosco a memoria l'ode- dice insomma che senza averle pagate e senza che Gerione glieli avesse date in dono gli portò via le vacche, poiché questa è la giustizia secondo natura, e i buoi e gli altri possessi dei peggiori e dei più deboli sono del migliore e del più forte” (levgei d j o{ti ou[te privameno" ou[te dovnto" tou' Ghruovnou hjlavsato ta;" bou'", wJ" touvtou o[nto" tou' dikaivou fuvsei, kai; bou'" kai; ta\lla kthvmata ei\nai pavnta tou' beltivonov" te kai; kreivttono" ta; tw'n ceirovnwn te kai; hJttovnwn" (Gorgia 484bc.).
L’ultima delle fatiche è stata la navigazione verso l’Ade dalle molte lacrime (poludavkruon, 426) da dove non è tornato
Un frammento nel quale Anacreonte sorride, sia pure con tra le lacrime, della propria decadenza fisica, consapevole che essa è umana, è il 44 D.:"Son canute già le nostre
tempie e il capo è bianco,
la giovinezza piena di grazia carivessa d j oujkevt j h{bh
pavra
non c'è più , e vecchi sono i denti,
né rimane più molto
tempo della vita dolce; (glukerou' d j oujkevti pollo;~-biovtou crovno~ levleiptai)
per questo singhiozzo ajnastaluvzw
spesso qamav temendo il Tartaro;
infatti è terribile il fondo
dell'Ade, e dolorosa è la discesa
in quel buco: poiché è stabilito
per chi è sceso che non risalga più".
Anacreonte è il primo a sorridere della propria decadenza fisica: “lungo tempo non mi resta/della dolce vita più/e perciò spesso singhiozzo/per l’orrore di laggiù” (trad. Ettore Bignone).
Molti sono gli echi di questo pianto per l'irrevocabile passo cui saremo costretti tutti.
Cfr. Catullo (qui [3] nunc it per iter tenebricosum/ illuc unde negant redire quemquam , da dove dicono che nessuno ritorni, 3, 11- 12) e Virgilio (facilis descensus Averno...sed revocare gradum superasque evadere ad auras,/..hoc opus, hic labor est , facile è la discesa all'inferno..ma risalire la china e rïuscire all'aria celeste questa è l'impresa, questa è la fatica, Eneide , VI, 126, 127-128).
Poi Parini che traduce Catullo:"E già per me si piega /sul remo il nocchier brun/colà donde si nega/che ci ritorni alcun"(Ode Sulla libertà campestre, 5-8-1758), e Foscolo:"e la danzante/discende un clivo onde nessun risale"(Le Grazie, Inno terzo, vv. 148-149).
E’ la danza macabra di H. Hesse.
Fine fatiche di Eracle
Necessità dell’impegno laborioso
Questo elenco dettagliato delle fatiche ribadisce quanto ha scritto Esiodo e ripeteranno altri autori.
Nel poema Opere e giorni il poeta del lavoro dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
Nell'Elettra di Sofocle la protagonista avverte la mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[4] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”
Si assiste a un eterno ritorno di questa affermazione e di non poche altre. “Tipico atteggiamento della “cultura” greca. Una volta coniata una forma, essa rimane valida anche in stadi ulteriori e superiori, e ogni elemento nuovo deve cimentarsi con essa”[5].
Sappiamo che la cultura greca non si limita ai Greci.
Il monito della necessità dell’impegno faticoso va ribadito contro la televisione che per ingannare i giovani mette in mostra gente di presunto successo che non sa parlare né sa fare altro
La televisione, molto più della scuola, celebra "il trionfo del facile, del dilettantesco, del volgare" scrisse G. Bocca che chiama tale baccanale corrotto "la democrazia del mercato". Essa " è la ricchezza facile del quiz , è l'accoppiata della vanità e dell'appetito del quiz: essere in mostra di fronte alla immensa platea e raccogliere i dobloni che scendono dal cielo. La democrazia di mercato di massa è nata in America ma si trova benissimo in Italia, asseconda la voglia universale di primeggiare senza far fatica, di fare musica, teatro, letteratura senza studiare, senza crescere giorno dopo giorno"[6].
Ricorda quanto dice il Tristano di Leopardi già citato al capitolo 6: “E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche preparatorie"[7].
Nell'Operetta morale di Leopardi Il Parini ovvero della gloria[8] :"il poeta del Giorno avverte un giovane discepolo che pochissimi saranno in grado di ammirarlo "quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un'opera egregia e perfetta.".
Concludo citando il Satyricon dove il maestro di retorica Agamennone dice che i giovani non vengono più sottoposti a prove severe[9] e non c'è abbastanza disciplina:"nunc pueri in scholis ludunt, iuvenes ridentur in foro, et quod utroque turpius est, quod quisque<puer> perpĕram didicit, in senectute confiteri non vult " (4, 4), ora i ragazzi nelle scuole giocano, da giovani fanno ridere nel foro, e cosa che è più vergognosa di entrambe queste, quello che ciascuno da ragazzo ha imparato male, in vecchiaia non vuole ammetterlo.
Eracle dunque non è tornato (Eracle, 428) ed ora la sua casa è deserta di amici e il remo di Caronte attende i suoi figli nel cammino della via senza ritorno ta;n ajnovstimon kevleuqon, un viaggio empio e ingiusto. La casa guarda al braccio di Eracle che non c’è (435).
Pesaro 26 luglio 2022- ore 9, 53
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Si pensi anche all’esito del pretenzioso film Apocalypse now, di Coppola (1979) che non solo utilizza Cuore di tenebra di Conrad, ma aggiunge citazioni da Eliot e mette in evidenza la lettura di Il ramo d’oro di Frazer da parte del colonello impazzito che viene ucciso parallelamente al toro del sacrificio.
[2] Fr. 152 Bowra di un’ode perduta.
[3] E’ il passer meae puellae
[4] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[5] W. Jaeger, Paideia 1, p. 191.
[6] G. Bocca, "Il Venerdì di Repubblica", 3 gennaio 2002, p. 11.
[7] Dialogo di Tristano e di un amico (1832). E’ una delle Operette morali delle quali l’autore scrive:"Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone , 1394)
[8] Del 1824.
[9] Si pensi, volendo attualizzare, alla progressiva facilizzazione dell'esame di maturità in questi ultimi cinquant'anni.
Ottimo!
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