Nietzsche contro Euripide sulle orme di Aristofane e di A. W. Schlegel
La tragedia greca morì suicida e alla sua morte si produsse un enorme vuoto. Per il mondo ellenico risuonò il lamento sulla morte della tragedia. Aristofane, nelle Rane del 405, fa scendere Dioniso nell’Ade per riportare sulla terra uno dei tre grandi. Alla tragedia succedette la commedia attica nuova che aveva i lineamenti della madre nel momento della sua lotta con la morte. La commedia di Filemone, Difilo e Menandro è la forma degenerata della tragedia. Gli autori di questa commedia veneravano Euripide al punto che Filemone (360-265) si sarebbe impiccato subito per poter visitare Euripide agli Inferi. Euripide insegnò a questi suoi epigoni a portare lo spettatore sulla scena, a mostrare con realismo la maschera fedele della realtà.
Euripide porta sulla scena l’uomo della vita quotidiana; lo specchio che prima mostrava solo i tratti grandi e arditi faceva ora vedere anche le linee non riuscite della natura. Odisseo, il tipico greco dell’arte antica, si abbassò nella figura del greculo che poi divenne nella commedia latina lo schiavo bonario e scaltro.
Vediamo per contrasto un giudizio benevolo di Leopardi sul comico antico.
Il Recanatese fa un paio di esempi, tratti uno da Luciano di Samosata (120- 180 circa) e un altro da Filemone di Siracusa (361-263)
"iIl ridicolo degli antichi comici...consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole...quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace...quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel Zeu;" ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore.
Ed erano i gr. e lat. inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone comico".
Luciano in questo dialogo immagina che il cinico Cinisco ricordi a Zeus i versi dell’VIII canto dell’Iliade con i quali il dio supremo minacciava gli altri dèi dicendosi capaci di tirarli su tutti dalla terra attaccati a una catena d’oro se aiuteranno i Greci o i Troiani in battaglia (vv. 5 ss.) Ebbene Cinisco aggiunge che anche Zeus dipende dal Fato e che tutti dipendono e pendono dal filo. Dunque Cloto potrebbe vantarsi in quanto “tira su anche te pendente dal fuso, come i pescatori sollevano i pesciolini dalla canna” (kaqavper oiJ aJliei`~ ek tou` kalavmou ta; ijcquvdia” (4)
Leopardi poi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10-16 dello Stratiwvth", dove Filemone stabilisce un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli altri dopo avere arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo nel becco qualche cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene incalzata da un'altra che vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno" (Zibaldone, pp. 41-42).
Il personaggio Euripide delle Rane di Aristofane ascrive a proprio merito la liberazione dell’arte tragica dalla pomposa e pesante corpulenza di cui l’aveva sovraccaricata Eschilo.
Euripide battibecco nell’Ade con il personaggio Eschilo e dice di avere ricevuto da lui th;n tevcnhn l’arte tragica oijdou`san gonfiata e aggravata dalle vanterie e da parole pesanti (uJpo; kompasmavtwn kai; rJhmavtwn ejpacqw`n, 940), e di averla subito snellita e alleggerita ( i[scnana me;n prwvtiston aujth;n kai; to; bavro~ ajfei`lon, 941) con parolette e discussioni (ejpullivoi~ kai; peripavtoi~, 941)
Inoltre questo Euripide di Aristofane si vanta di avere insegnato alla gente a chiacchierare (lalei`n ejdivdaxa, 954) poi rivendica l’introduzione di regole sottili leptw`n te kanovnwn eijsbolav~ e la rifinitura di parole (ejpw`n te gwniasmouv~. 956), poi di avere insegnato a pensare (noei`n), vedere (oJra`n) capire (xunivenai) meditare (strevfein) amare (ejra`n), ordire (tevcnazein), sospettare male (kavc j uJpotopei`sqai), considerare tutto (perinoei`n a[panta) 957-958
Insomma, continua il drammaturgo defunto, portavo sulla scena cose di casa (oijkei`a pravgmat j , quelle che usiano oi|~ crwvmeq j, 959).
Cicerone nelle Tusculanae Disputationes scrive che ab antiqua philosophia numeri motusque tractabantur, e l’origine e la dissoluzione delle cose e grandezze, distanze, orbite delle stelle et cuncta caelestia, tutti i fenomeni celesti. Questo usque ad Socratem.
Socrates autem primus philosophiam devocavit e caelo et in urbibus collocavit et in domus etiam introduxit et coegit de vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere (V, 4, 10).
Secondo Nietzsche Euripide e Socrate si accordarono per abbassare i toni sublimi della cultura ateniese e greca che dopo questi due eversori non si rprese più.
Gli Stoici paragonarono la filosofia a un orto fertile dove la fisica è rappresentata dalle piante d’alto fusto, l’etica dai frutti gustosi, che sono la ragion d’essere delle piante, la logica le mura di cinta.
Altri la paragonano a un uovo: il tuorlo è l’etica, l’albume la fisica, il guscio la logica.
Schlegel come Aristofane incolpa Euripide per questo realismo che considera corruttore. Gli sviamenti di Euripide sono analoghi a quelli del nostro secolo: le tragedie di Euripide “ammolliscono gli animi per via di nozioni dolci e tenere in apparenza, ma in realtà corruttrici” (p. 100).
Schlegel pensa che Platone criticando i poeti formulasse accuse che devono applicarsi soprattutto a Euripide i cui versi “ abbandonano gli uomini all’impero delle passioni e li ammolliscono facendo prorompere gli eroi in lamenti smodati” (p. 101 trad. it il Melangolo. Giovanni Gherardini)
“Egli volle gratificare i suoi contemporanei trasportando nei secoli eroici gli usi popolareschi più moderni (p. 104)…Si rese familiari i sofismi delle passioni, per mezzo dei quali si riesce a far comparire bella ogni cosa.
Si è più volte citato questo verso di Euripide, in cui pare sia stata espressa la restrizione mentale (la direzione dell’intenzione., l’ equivocazione) de’ Gesuiti
Giurava il labro ma taceva il core” (p. 195). E’ Ippolito che dice alla nutrice di Fedra hj glw`ss j ojmwvmoc j, hJ de; frh;n ajnwvmoto~ (Ippolito. 612), la lingua ha giurato ma la mente no.
Torniamo a Nietzsche.
“In sostanza lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena euripidea il suo sosia” (p. 77). Euripide, quale personaggio delle Rane, si compiace di avere insegnato allo spettatore a discutere “con le più furbe sofistificazioni”.
Con questo repentino capovolgimento del linguaggio pubblico egli rese possibile la commedia nuova.
Dalla scena parlava ora la mediocrità cittadina. L’aristofanesco Euripide arriva a vantarsene. Se tutta la massa filosofava era merito suo. Euripide era diventato il maestro e il regista della commedia nuova che è uno spettacolo di tipo scacchistico con il suo continuo trionfo della furberia e della scaltrezza (p. 78).
A proposito di “spettacolo di tipo scacchistico” cfr. A game of chess, la seconda parte di The waste land di Eliot dove il canto dell’usignolo non evoca più il mito della metamorfosi di Filomela by the barbarous king-so rudely forced, e, sebbene questo canto continui a risuonare, a riempire i deserti, il mondo sente solo jug jug con dirty ears (vv. 99-103).
I poeti tragici erano morti e con loro la tragedia.
Per la tarda antichità vale il noto epitaffio: “in vecchiaia frivolo e capriccioso”.
Predomina ora il quinto stato: quello dello schiavo e la serenità greca è la serenità dello schiavo che non sa aspirare a nulla di grande. Al primo cristianesimo questo vile appagarsi del comodo godimento parve spregevole e sembrò il vero e proprio sentimento anticristiano.
Questa serenità dell’ellenismo è una serenità da vecchi e da schiavi (cfr. la scelta di Odisseo nel mito di Er della Repubblica platonica).
Ma Euripide in vita non ebbe successo, diversamente da Eschilo e soprattutto da Sofocle. Euripide non rispettò il pubblico ateniese, a parte due spettatori quali giudici competenti e maestri di tutta la sua arte.
Uno di questi due è Euripide stesso, Euripide quale pensatore , non come poeta. Egli come critico trovava in ogni verso di Eschilo qualcosa di incommensurabile, una infinità dello sfondo. Le figure avevano dietro di sé come una coda di cometa. Nel linguaggio eschilèo egli trovava troppa pompa per situazioni semplici, troppe metafore[1] e forzature rispetto alla semplicità dei caratteri. Da spettatore confessò a se stesso di non capire i suoi grandi predecessori. Guardandosi intorno Euripide vide l’altro spettatore che non capiva la tragedia, Socrate, e in lega con costui iniziò l’immane opera contro l’arte di Eschilo e Sofocle.
Pesaro 13 luglio 2022 ore 18, 09
giovanni ghiselli
[1] Faccio un esempio: nei Sette contro Tebe il coro è formato da ragazze tebane che nella Parodo lanciano grida di spavento, non prive del resto di immagini poetiche molto elaborate
"attraverso le mascelle equine/le briglie arpeggiano strage"(vv.122-123).
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