I pilastri
Ho ricevuto un invito per parlare dei Pilastri.
Credo che il tema generale siano i pilastri del mondo, qualche cosa come il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon jAnavgkh~ a[trakton), l’asse dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti circolari nel mito di Er della Repubblica di Platone (616).
Io invece parlerò dei Pilastri dell’umanità che sono gli auctores, i maestri accrescitori di noi esseri umani.
Non avrò molto tempo, quindi potrò indicarne soltanto pochi e di questi mirabili pochi citerò solo alcune parole meravigliose che hanno giovato alla crescita della mia anima aiutandomi a diventare quello che sono, non un granché ma quello che volevo essere.
Parto da Omero che nell’Iliade mi ha mostrato la dimensione eroica dell’esistenza umana attraverso l’ ouj lhvxw[1] il “non cederò” detto da Achille al cavallo fatato Xanto che gli preannunciava la morte.
Dal Pelide cedere nescius [2] ho imparato a non tirarmi mai indietro dagli agoni che affrontavo con la coscienza di avere i mezzi per vincerli.
Gli ostacoli- provblhmata- sono stati sempre tanti però non mi sono mai arreso.
Ettore da parte sua mi ha insegnato il dovere di lottare fino all’estremo, anche partendo da uno svantaggio iniziale, per difendere quanto mi sta a cuore. Dall’eroe troiano ho imparato a vergognarmi di non farlo mettendocela tutta.
Il principe troiano dice alla moglie Andromaca
:"certo anche a me tutto questo sta a cuore, donna; ma davvero terribilmente/.
mi vergogno[3] di Troiani e Troiane dal lungo strascico,
se come un vile fuggo lontano dalla guerra” (Iliade VI, 441-443)
Quella di Ettore era una guerra difensiva e il figlio di Priamo mi piaceva più di Achille.
Il Pelide comunque combatteva per la gloria, non propter nummos [4], e nemmeno per il potere.
L’Odissea mi ha insegnato quando ero più maturo, l’importanza e la bellezza dell’imparare, l’eroismo della volontà di apprendere , il dovere di ampliare sempre la conoscenza a ogni costo . E pure la necessià di capire, di giungere a una forma non delinquenziale di complicità con il mondo.
Non posso mancare di darvi almeno un esempio.
Omero attribuisce sette esametri al canto armonioso delle Sirene: i versi 184-191 del XII canto dove le misteriose creature promettono a Odisseo quello che desidera di più: l'accrescimento della conoscenza che rende felici: chi sente le loro voci dal suono di miele, riparte “teryavmeno~…kai; pleivona eijdwv~” (v. 188), pieno di gioia e conoscendo più cose.
Ulisse riesce ad ascoltare il loro canto senza però rimanerne vittima.
Poiché pure il sapere, se non giunge alla sapienza, può diventare nocivo.
Euripide con le Baccanti mi ha donato le parole per dire in sintesi estrema questa verità: “to; sofo;n d jouj sofiva” (v. 395), il sapere non è sapienza.
La sapienza è femminile: crea e accresce la vita; il sapere è neutro.
Parecchie volte ho sentito ripetere a memoria frasi fatte, malfatte, lezioni non capite da chi le faceva, luoghi comuni costituiti da pregiudizi, eppure spacciati come alto e raro sapere.
Un altro esempio dall’Odissea poi, magari domani, passeremo a un altro autore.
Da ragazzo arzigogolavo intrecciando nella mente ghirigori senza capo né coda quando non capivo per quale ragione un amore o un’amicizia fossero finiti
Ebbene, nel V libro dell' Odissea Ulisse che convive contro voglia con Calipso nell'isola di Ogigia piange in continuazione sospirando il ritorno. Omero usa quattro parole per indicare la causa più plausibile e vera di questo pianto :"ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfh" (v. 153), poiché la ninfa non gli piaceva più. Punto e basta.
Omero mi ha insegnato ad andarmene, anche su una zattera, da un’amante o un amico cui non piacevo o che non mi piaceva più.
Pesaro 10 luglio 2022 ore 18, 24
p. s.
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[1] Iliade , XIX, v. 423.
[3] Nella Civiltà di vergogna "il bene supremo non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, ma nel possesso della timhv, la pubblica stima (...) La più potente forza morale nota all'uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell'opinione pubblica, aijdwv": aijdevomai Trw'a", dice Ettore nel momento risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti" Dodds, I greci e l'irrazionale , p. 30
[4] Cfr. Giovenale VI, 646
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