Il mito del satiro, del centauro, dell’essere naturale pieno dell’energia atroce della natura.
Schiller nella prefazione alla Sposa di Messina (1803) “considerava il coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica (…) L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte (. . .) Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro della tragedia originaria; è un terreno molto al di sopra del sentiero reale dei mortali (. . .) La tragedia si è sviluppata su questo fondamento e certo già per questo è stata fin dal principio dispensata da una penosa riproduzione della realtà (…) Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto (. . .) il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia-lo dico fin d’ora - per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi”[1].
Veramente il coro è quasi sempre costituito da vecchi e da donne per lo più dolenti.
L’'uomo moderno, sostiene D’annunzio: "non è se non un centauro storpio e mutilato il quale ricostituisce il mito primitivo riconnettendo indissolubilmente il suo genio all'energia atroce della natura"[2].
Sentiamo ancora il vate abruzzese in La morte del cervo (Alcyone, 1902)
“Lo conobbi tremando foglia a foglia.
Ben era il generato dalla Nube
Acro e bimembre, uomo fin quasi al pube,
stallone il resto dalla grossa coglia”. (vv. 21. 24)
“Bellissimo m’apparve. In ogni muscolo
gli fremeva una vita inimitabile.
Repente s’impennò. Sparve ombra labile
Verso il Mito, nell’ombra del crepuscolo”. (vv. 157-169).
Né è falso quanto afferma Bernardin De Saint-Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo” la mente piena di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[3].
Quanto alla “consolazione metafisica”, la cui scomparsa Nietzsche in La nascita della tragedia, attribuisce a Euripide[4], quale colpa, nel Tentativo di autocritica aggiunto nel 1886 a quest’opera giovanile, essa verrà ripudiata come un errore dovuto alla prolissità della giovinezza appunto, all’influenza del romanticismo e del cristianesimo: “metafisicamente consolati, insomma come finiscono i romantici, cristianamente…No! Dovreste prima imparare l’arte della consolazione dell’al di qua”.
Nella tragedia i miti omerici appaiono trasformati da una concezione profonda. Alla fine della trilogia prometeica, Zeus si allea con il Titano così la cultura titanica viene riportata dal Tartaro alla luce.
I miti del mondo omerico con Eschilo devono accogliere la mitologia inferiore e la filosofia della natura selvaggia.
Torniamo a La nascita della tragedia di Nietzsche riassumendola piuttosto che citandola
Fu la forza erculea della musica a liberare Prometeo dai suoi avvoltoi e a trasformare il mito in un veicolo di sapienza dionisiaca. Il mito correva il rischio di rattrappirsi nella ristrettezza di una pretesa realtà storica.
Le religioni si estinguono quando i presupposti mitici vengono sistematizzati come eventi storici e il mito pretende di avere una fondatezza storica.
Allora il mito morente fu afferrato dal genio della musica dionisiaca e fiorì ancora una volta mandando un profumo che suscitava il presentimento struggente di un mondo metafisico. Ma dopo questa rinascita il mito declina, le sue foglie appassiscono e i beffardi luciani dell’antichità cercano di ghermirne i fiori scoloriti e inariditi. La tragedia giunta al suo significato più profondo si solleva ancora una volta come un eroe ferito e nell’occhio gli arde un ultimo potente bagliore.
L’empio Euripide il sacrilego Euripide cercò di costringere ancora una volta questo eroe a servirlo e il mito morì tra le sue braccia violente.
Lo sostituì, nel dramma euripideo un mito mascherato che cercava di adornarsi con l’antica pompa come la scimmia di Ercole.
Con Euripide moriva il mito e moriva anche il genio della musica. Euripide la saccheggiava a piene mani da tutte le parti ma giunse a una musica imitata e mascherata. Aveva abbandonato Dioniso e anche Apollo abbandonò Euripide. I discorsi dei suoi eroi sono scritti nel linguaggio di una dialettica sofistica e hanno passioni imitate e mascherate
Giovenale nella seconda satira, quella contro gli omosessuali, scrive che nemmeno i fanciulli a parte quelli più piccoli credono
esse aliquos manes et subterranea regna
et contum et Stygio ranas in gurgite nigro
et una transire vadum tot milia cumba (150-152)
che ci sono le anime dei morti e i regni sotterranei
e la pertica e le rane nere nel gorgo dello Stige
e che in una sola barchetta passino il fiume tante migliaia.
Ma se invece i Mani ci fossero, che cosa proverebbero i due Scipioni, Camillo e gli altri, quando l’ombra di uno di quei rammolliti scenderà tra loro? Vorranno purificarsi.
Al magistero del filosofo nei confronti del poeta sembra credere Nietzsche quando scrive: “Nella chiusa comunità dei seguaci ateniesi d’Anassagora la mitologia del volgo era ancora consentita soltanto come un linguaggio simbolico; tutti i miti, tutti gli dèi, tutti gli eroi erano quindi considerati unicamente come geroglifici di un’interpretazione della natura, e persino l’epos omerico doveva essere il canto canonico dell’imperio del nous e delle battaglie e leggi della physis. Qualche voce di questa società d’eminenti spiriti liberi penetrò qua e là nel popolo; e particolarmente il grande e sempre ardimentoso Euripide, teso nei suoi pensieri al nuovo, osò far sentire in vari modi la parola del filosofo attraverso la maschera tragica"[5].
Nelle Leggi, l’Ateniese dice che secondo un palaio;~ mu`qo" il poeta quando ejn tw`/ trivpodi th`~ Mouvsh~ kaqivzhtai, tovte oujk e[mfrwn ejstivn (719c) è seduto sul ripode delle Muse allora non è in sé, e, come una sorgente, oi|on de; krhvnh ti~, lascia scorrere prontamente il getto che scaturisce to; ejpio;n rJei`n eJtoivmw~ ea`/.
L’indice dei libri e degli autori che Platone vuole proibire
Nella Repubblica Platone compila un indice dei libri e dei passi proibiti
Bisogna plasmare (plavttein) il giovane quando ejnduvetai tuvpo~ (377b) si imprime l’impronta che ciascuno deve portare addosso.
I miti del resto non sono tutti buoni. Allora bisogna soprintendere ai compositori di miti ejpistathtevon toi`~ muqopoioi`~ e scartare quelli non buoni.
Vanno rigettati quelli falsi narrati da Omero, Esiodo e altri poeti quando raffigurano malamente la natura degli eroi, come un pittore (w{sper grafeuv~, 377e) che dipinge immagini non somiglianti al vero.
Esiodo nella Teogonia racconta di castrazioni e tecnofagia di dèi al tempo di Urano e Crono e del giovane Zeus. Anche se fossero vere queste storie non andrebbero raccontate ai giovani. Al massimo si potrebbe dirlo a pochissimi dij ajporrhvtwn, per via misterica, in segreto, sacrificando non un porco ma una vittima grande e mal procurabile in modo che pochissimi odano.
Questo è collegabile all’esclusione del mito da parte di Tucidide (I, 22)
E all’odiosa sapienza di Pindaro, quella che diffama gli dèi (ejcqrav -sofiva, Olimpica I, vv. 37-38).
Quindi bisogna mettere nell’indice dei miti proibiti gigantomachie e contese di eroi e dei con i loro congiunti e familiari. Le battaglie tra gli dei raccontate da Omero con allegoria (ejn uJponoivai~,) o senza (a[neu uJponoiw`n, 378d) non bisogna ammetterle ouj paradektevon. Il giovane infatti non è capace di distinguere quello che è allegoria - ujpovnoia - da quello che non lo è, e quanto gli si imprime nell’anima a quell’età è difficilmente cancellabile. Allora i miti insegnati devono essere buoni. La divinità è buona e come tale va raffigurata 379b.
Quello che è buono non è nocivo. Le cose cattive e nocive non vengono dalla divinità. Allora non bisogna accettare Omero quando scrive che sulla soglia di Zeus sono piantati due vasi (pivqoi) uno con doni cattivi, l’altro con quelli buoni (Iliade, 24, 527-528). Achille dice a Priamo che suo padre e lui, il re di Troia hanno avuto beni e mali mescolati. Altri hanno avuto solo i mali.
La fine del mito viene messa in rilievo da Pasolini nella dodicesima scena del film "Medea" dove si vede un Chirone, non più Centauro e non più mitico, bensì in figura di uomo razionale.
Egli parla a Giasone, oramai adulto, e gli dice che dovrà andare in cerca del vello d’oro, in un paese antico, dove il mito è ancora vivo: “per l'uomo antico i miti ed i rituali sono esperienze concrete, che lo comprendono anche nel suo esistere corporale e quotidiano". Il giovane allievo dovrà andare a prendere il vello d'oro “in un paese lontano al di là del mare. Qui farai esperienze di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra ragione, la sua vita è molto realistica come vedrai perché solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico”[6].
"Il mio parere preciso, su questo punto, è che è realista solo chi crede nel mito, e viceversa. Il "mitico" non è che l'altra faccia del realismo"[7].
Leopardi: contro la ragione
“La ragione è nemica d'ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione: che pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni. Queste viene che quelle cose che noi chiamiamo grandi per es. un'impresa, d'ordinario sono fuori dell'ordine, e consistono in un certo disordine: ora questo disordine è condannato dalla ragione. Esempio: l'impresa di Alessandro: tutta illusione"[8]
“E la ragione facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società e inferocisce le persone”[9].
Bologna 2 luglio 2022 ore 16, 26
giovanni ghiselli
p. s
Statistiche del blog
Sempre1264498
Oggi134
Ieri342
Questo mese476
[1] La nascita della tragedia, capitoli 7 e 8.
[2] G. D'Annunzio, Faville del maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[3] Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[4] Con Euripide "Al posto della consolazione metafisica è subentrato il deus ex machina. . . ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli" (La nascita della tragedia, p. 117 e p. 118.)
[5] La filosofia nell'età tragica dei Greci (1873) p 1O9.
[6] P. P. Pasolini, Medea in Il vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, p. 545-
[7] Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1463.
[8] Zibaldone, 14.
[9] Zibaldone, 23,
Nessun commento:
Posta un commento