Euripide volle eliminare il dionisiaco. Nelle Baccanti però l’avversario più deciso di Dioniso, Penteo, viene incantato da lui. E probabilmente ne venne affascinato anche il vecchio poeta che nel suo ultimo dramma, sembra concordare con i due personaggi anziani Cadmo e Tiresia i quali sostengono che la riflessione degli individui più accorti non riesce a rovesciare le antiche tradizioni popolari. Di fronte a queste, è bene mostrare una partecipazione almeno diplomatica e prudente.
Nietzsche si riferisce ai vv. 330-340 delle Baccanti dove Cadmo dice al nipote Penteo:
“O figlio, Tiresia ti ha consigliato bene.
Stai con noi, non fuori dalle norme.
Ora infatti vaneggi e, pur avendo facoltà mentali, non sai farne uso.
Anche se questi non è un dio, come dici tu,
tiello per te (para; soi legevsqw): e afferma, con una menzogna bella,
che lo è, perché sembri che Semele abbia generato un dio,
e a noi e a tutta la stirpe si aggiunga onore.
Tu vedi lo sventurato destino di Atteone[1],
che le crudivore cagne allevate da lui
sbranarono nelle radure montane, perché si era vantato
di essere superiore ad Artemide nelle cacce.
Ma il dio non si accontentò di un interessamento troppo tiepido, da un’adesione solo dubbiamente sincera e trasforma il diplomatico Cadmo in un drago. Troppo tardiva la resipiscenza:
Cadmo.
Dioniso, ti preghiamo, abbiamo sbagliato.
Dioniso.
Troppo tardi ci avete riconosciuti (o[y j ejmavqeq j hJma`~), e quando era necessario non/ volevate saperne.
Cadmo.
Questo lo abbiamo capito; ma tu punisci in maniera eccessiva (vv. 1344-1346).
Euripide termina così la sua carriera: con una glorificazione dell’avversario. Ma purtroppo la sua tendenza era già stata realizzata: Dioniso oramai era stato cacciato dalla scena tragica, buttato fuori da una potenza demoniaca il cui profeta era Euripide.
Quel demone di recentissima nascita era Socrate.
Il socratico contro il dionisiaco. I giudici d’arte di tutti i tempi hanno trasformato anche Euripide in un drago ma chi potrebbe essere soddisfatto di questo miserabile compenso?
Euripide è stato valutato meno di Eschilo e Sofocle da diversi filologi del passato.
Bruno Snell invece fa un’ apologia di Euripide e la conclude con una nota tratta dal Diario di Goethe che alcuni mesi prima della morte scriveva:"Non finisco di meravigliarmi come l'elite dei filologi non comprenda i suoi meriti e secondo la bella usanza tradizionale lo subordini ai suoi predecessori seguendo l'esempio di quel pagliaccio di Aristofane...Ma c'è forse una nazione che abbia avuto dopo di lui un drammaturgo che sia appena degno di porgergli le pantofole?"[2].
Vediamo allora cos’era secondo Nietzsche questa tendenza socratica antidionisiaca che avrebbe trovato la complicità di Euripide.
Non dimentichiamo però che Euripide aveva almeno dieci anni più di Socrate
Questo drammaturgo sostituì la tragedia con l’epos drammatizzato.
In siffatto genere di composizione non c’è il dionisiaco e nemmeno l’apollineo con la calma della contemplazione. Euripide non è come
L’aedo solenne dell’epoca antica, ma, come il giovane rapsodo dello Ione Platonico in preda all’emotività: “quando io dico qualche cosa di commiserevole i miei occhi si riempiono di lacrime, quando dico qualcosa di spaventoso o terribile, i capelli mi stanno dritti e il cuore salta per la paura (uJpo; fovbou hJ kardiva phda`/, Ione, 535c).
Cfr. con lo qumov~ di Medea.
:" Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw kakav,-qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn,-o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""( vv. 1078-1080).
I rapsodi sono un anello della catena attirata dalla calamita: la Musa ispira i poeti, gli aedi che ispirano i rapsodi che attirano il pubblico.
Euripide è l’attore con il cuore che martella e i capelli ritti: egli abbozza il piano come pensatore socratico e lo attua come attore appassionato.
Il dramma euripideo è una cosa insieme triste e focosa, capace di agghiacciare e di infiammare. Non c’è né l’apollineo come calma contemplazione, né il dionisiaco come sentimento dell’unità.
Euripide, per suscitare un effetto, usa nuovi mezzi di eccitamento che non sono apollinei né dionisiaci; in luogo delle intuizioni apollinee pensieri freddi e paradossali (cfr. la diplomazia di Cadmo); in luogo delle estasi dionisiache passioni roventi e pure malate (cfr. Medea o Fedra). Più precisamente pensieri e passioni imitati in modo realistico, non artistico.
Dunque la sua tendenza antidionisiaca si sviò nel naturalismo non artistico e portò il socratismo nel dramma: creò il socratismo estetico: “Tutto deve
essere razionale per essere bello” (p. 85).
C’è una contraddizione con le “passioni roventi” menzionate sopra
Socrate proponeva. “ solo chi sa è virtuoso”.
La temeraria razionalità di Euripide costituisce un regresso rispetto alla tragedia sofoclea.
Il prologo euripideo è un esempio di quel metodo razionalistico.
All’inizio del dramma un singolo personaggio, un dio, si presenta sulla scena e dice chi è, racconta l’antefatto e perfino che cosa accadrà nel corso del dramma, un modo di procedere petulante e imperdonabile e tale che rinuncia all’effetto della tensione.
La maestria di Eschilo e Sofocle dava nelle prime scene tutti i fili necessari alla comprensione, ma come per caso (cfr. Edipo re 1, e Agamennone 36- 37: ta; d’ a[lla sigw` : bou`~ ejpi glwvssh/ mevga~-bevbhken ).
Mi pare una distinzione forzata.
Euripide pensò che lo spettatore fosse in agitazione per il problema dell’antefatto e che per questo rovello perdesse le bellezze artistiche. Perciò scrisse il prologo chiarificatore e lo fece recitare a un personaggio affidabile, un dio (cfr. le Troiane (Poseidone) o le Baccanti ( Dioniso) con la prima parola { Hkw, sono giunto, eccomi)
Euripide voleva togliere ogni dubbio sulla realtà del mito. Di una altro intervento divino ha bisogno a chiusura del suo dramma per assicurare il pubblico circa l’avvenire dei suoi eroi: è questo il compito del famigerato deus ex machina (p. e. Ifigenia in Tauride con Atena, Elena con i Dioscuri, , Oreste con Apollo).
Euripide come poeta echeggia le sue cognizioni coscienti. Egli volle applicare ai suoi drammi queste parole di Anassagora: “al principio tutto era mescolato, poi venne l’intelletto e creò ordine”.
Con il suo nou`~ Anassagora apparve tra i filosofi come il primo sobrio tra individui tutti ebbri, e altrettale pensò di essere Euripide rispetto ai suoi colleghi.
Anassagora introduce per primo una Mente (Nou`~) separata e ordinatrice della materia (u[lh) che è formata da particelle simili ma distinte per qualità. Le chiamò spevrmata, semi, mentre oJmoiomerh` è termine aristotelico (Fisica I, 4, 187a); commentatori più tardi le chiamano oJmoiomevreiai.
Ogni composto risulta formato da una mescolanza di tutti semi, ma assume il carattere dei semi predominanti. Mangiando il pane cresce il pelo poiché nel pane c’è anche il pelo. Insomma in ogni cosa c’è tutto. Il pane appare tale poiché prevalgono le particelle di pane, ma se potessimo vedere l’invisibile nel pane o nell’oro vedremmo semi di tutte le specie. Il Nou`~ è distinto dalla materia, è dotato di potenza infinita e imprime un movimento rotatorio che determina la scomposizione del magma informe e l’ordinata aggregazione dei semi simili secondo le giuste proporzioni. Il Nou`~ rimane trascendente.
Sentiamo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, II, 3) “Tutte le cose erano insieme; poi la mente (oJ nou`~) le dispose in ordine. Egli stesso ebbe il soprannome di Mente. Affermava che il Sole è una massa incandescente e rovente, maggiore del Peloponneso. Onde Euripide, che fu suo discepolo, nel Fetonte chiamò il sole “massa d’oro”[3].
Gli stoici riprendono e modificano questa definizione del sole: lo considerano una massa infuocata e dotata di intelligenza (noerovn) che proviene dal mare[4]. Del resto Crisippo (il terzo scolarca della Stoà- 280- 208 ca) nel primo libro peri; Pronoiva~ Sulla provvidenza sostiene che tutto il cosmo è un essere vivente ragionevole zw/`on logikovn kai; noerovn e fornito d’anima (Diogene Laerzio VII 142, 143.).
Nel Fedone, Socrate dice che leggendo Anassagora rimase deluso perché non trovò che si avvalesse della Mente come causa ma che indicasse solo aria acqua ed altre cose fuori luogo (98c)
Al magistero del filosofo nei confronti del poeta sembra credere Nietzsche quando scrive:" Nella chiusa comunità dei seguaci ateniesi d’Anassagora la mitologia del volgo era ancora consentita soltanto come un linguaggio simbolico; tutti i miti, tutti gli dèi, tutti gli eroi erano quindi considerati unicamente come geroglifici di un’interpretazione della natura, e persino l’epos omerico doveva essere il canto canonico dell’imperio del nous e delle battaglie e leggi della physis. Qualche voce di questa società d’eminenti spiriti liberi penetrò qua e là nel popolo; e particolarmente il grande e sempre ardimentoso Euripide, teso nei suoi pensieri al nuovo, osò far sentire in vari modi la sua[5] parola attraverso la maschera tragica"[6].
Secondo Euripide chi creava inconsciamente non creava il giusto.
“Anche il divino Platone parla per lo più ironicamente della facoltà creativa del poeta se essa non è una conoscenza consapevole e la parifica alla maniva dell’indovino e dell’interprete dei sogni” (La nascita della tragedia, p. 88): il poeta poeterebbe in stato di incoscienza.
A me Platone non pare per niente ironico quando parla delle buone forme di maniva: quella del poeta, quella dell’innamorato e quella del profeta.
Nelle Leggi, l’Ateniese dice che secondo un palaio;~ mu`qo" il poeta quando ejn tw`/ trivpodi th`~ Mouvsh~ kaqivzhtai, tovte oujk e[mfrwn ejstivn (719c) sta seduto sul tripode della Musa, allora non è in sé, non è cosciente, e come una sorgente oi|on de; krhvnh ti~, lascia scorrere prontamente il getto che scaturisce to; ejpio;n rJei`n eJtoivmw~ ea`/.
Nel Fedro Socrate considera positiva la pazzia del poeta come quella dell’innamorato: il filosofo ateniese non considera negativamente questa "frenesia divina che è molto più saggia della saggezza del mondo"[7]. Anzi Socrate vuole dimostrare, a proposito della pazzia amorosa:"wj" ejp j eujtuciva/ th'/ megivsth/ para; qew'n hJ toiauvth maniva[8] devdotai" (Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più grande fortuna.
Platone assimila la follia erotica ad altre manie: nel Fedro ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati. C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti" , “profeta”, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
I beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi ( Fedro, 244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau, mantikh;n ejkavlesan (244c), l’hanno chiamata mantica.
Non mi sembra che ci sia ironia. Non ce n’è proprio.
Euripide vuole mostrare al mondo l’opposto del poeta irragionevole: il suo principio estetico è: tutto deve essere cosciente per essere bello”, parallelo al socratico “tutto deve essere cosciente per essere buono” (p. 88) E’ il socratismo estetico.
Socrate era quel secondo spettatore che non capiva e non apprezzava la tragedia antica. I due fecero lega e il socratismo estetico uccise la tragedia. Socrate fu dunque l’avversario di Dioniso e infatti fu dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, eppure era già stato capace di costringere alla fuga lo stesso potentissimo dio Dioniso il quale, come quando era fuggito da Licurgo (cfr. Iliade, VI, 130-140) si salvò nelle profondità del mare, cioè nei flutti mistici di un mondo segreto che invaderà il mondo.
Critico di nuovo Nietzsche.
Euripide invero non crede che ci sia identità tra conoscere il bene e farlo, anzi: nell'Ippolito[9], Fedra, la matrigna innamorata del figliastro, è dilaniata da un conflitto interno che le suggerisce questa considerazione: " il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica, alcuni per infingardaggine (ajrgiva~ u[po),/alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio (scolhv), diletto cattivo, e l'irrisolutezza (aijdwv~) (vv. 380-385).
Pesaro 14 luglio 2022 ore 11, 11
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[1] Un cugino di Penteo, figlio di Autonoe, figlia di Cadmo e sorella di Semele.
[2] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 189.
[3] Euripide, fr. 783 Nauck.
[4] Aezio Plac. II 20, 4.
[5] Di Anassagora ndr.
[6] La filosofia nell'età tragica dei Greci (1873) p 1O9.
[7]A. Taylor, Platone , p. 475.
[8] C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti" , profeta, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
[9] Del 428 a. C.
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