Al tema dell’identità che ho trattato al Festival dei Filosofi lungo l’Oglio il 23 giugno scorso aggiungo delle considerazioni tratte dal libro di Emmanuel Levinas IL TEMPO E L’ALTRO che contiene quattro conferenze tenute negli anni 1946-1947.
Francesca Nodari , direttrice artistica del festival, ne ha curato una nuova edizione critica e ha scritto una corposa postfazione chiarificatrice.
Riferisco alcune pagine di Emmanuel Levinas, quindi il commento di Francesca Nodari.
Parto dalla sezione Solitudine e ipostasi (pp. 40-41)
Chi ha ascoltato la mia conferenza o ne ha letto la trascrizione ricorderà che avevo parlato della solitudine come bene o come male per diversi autori e personaggi di epoche diverse.
Ebbene, Levinas scrive: “Il soggetto è solo perché è uno”. L’individualità richiede un distacco, una frattura.
“E’ necessario che ci sia solitudine perché si dia la libertà del cominciamento, il dominio dell’esistente sull’esistere, cioè, in definitiva, perché ci sia l’esistente. La solitudine dunque non è soltanto disperazione e abbandono, ma anche virilità, fierezza e sovranità”.
Aggiungo un commento utilizzando gli strumenti che possiedo.
La solitudine può essere vissuta e interpretata in modi diversi.
Nel percorso che ho presentato al festival soffrono la solitudine degli abbandonati Filottete di Sofocle, Medea di Euripide, Arianna di Catullo, Didone di Virgilio, mentre cercano la solitudine e ne vanno fieri Seneca, il Dyskolos di Menandro, poi Nietzsche e Pavese.
Passiamo ora al capitolo successivo del libro di Levinas: Solitudine e materialità (p. 41)
“Ma questo dominio del soggetto sull’esistere, questa sovranità sull’esistente implica un rovesciamento dialettico (…) l’identità non è soltanto l’atto di partire da sé, essa è anche un tornare a sé. Il presente consiste in un ritorno inevitabile a sé (…) l’esistente si occupa di sé”.
Senza il ritorno a sé e l’accettazione del proprio demone, del proprio destino, l’identità si perde.
“L’identità non è una relazione inoffensiva con sé, ma un asservimento a sé; è la necessità di occuparsi di sé”.
Nella Praefatio al III libro delle Naturales quaestiones Seneca afferma che la vittoria più grande di tutte è quella sui vizi, quindi aggiunge:"innumerabiles sunt qui populos, qui urbes habuerunt in potestate, paucissimi qui se" (10), sono innumerevoli quelli che tennero in loro potere popoli e città, pochissimi quelli che se stessi.
E’ dunque necessario occuparsi di sé in quanto “l’io è già inchiodato a sé” (p. 42). “Sono oppresso dall’ingombro di me stesso. L’esistenza materiale è proprio questo” (p. 43). La materialità “accompagna necessariamente la nascita del soggetto , nella sua libertà di esistente”.
La libertà dell’uomo non è separabile dalla sua materialità
“La solitudine non è tragica perché è privazione dell’altro, ma perché è chiusa nella prigionia della sua identità, perché è materia”.
La tragicità della solitudine è testimoniata anche dalle vicende delle persone e dai personaggio menzionati sopra come amanti della solitudine stessa: Seneca e Pavese sono finiti suicidi, Nietzsche è impazzito e Cnemone di Menandro, il Dyskolos, arriva a comprendere che non è possibile vivere nell’autarchia assoluta
Lo stesso stesso uomo disumano assai- Knhvmwn ajpavnqrwpov~ ti~ a[nqrwpo~ sfovdra, v. 6) - dichiara che cosa ha imparato dalla disgrazia:
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh" ti~ ei\nai) e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino uno che ti possa aiutare- dei' ga;r ei\nai- kai; parei'nai-to;n ejpikourhvsont j ajeiv (vv. 713-717)
Torno a Levinas facendo un salto fino a un capitolo intitolato: La salvezza per mezzo del mondo; gli alimenti (pp. 51-53)
“Da Heidegger in poi siamo abituati a considerare il mondo come un insieme di utensili” Levinas ribatte “che prima di essere un sistema di utensili , il mondo è un insieme di alimenti (…) Sono gli alimenti che caratterizzano la nostra esistenza nel mondo (…) Ogni forma di godimento è una maniera di essere, ma anche una sensazione, cioè luce e conoscenza (.:.) Al godere appartiene essenzialmente un sapere, una luminosità” (pp. 52-53).
Il tw`/ pavqei mavqo~ dell’Agamennone di Eschilo diventa th`/ hjdonh`/ mavqo~.
D'Annunzio attribuisce al piacere, non al dolore, grande efficacia pedagogica:"Ella[1] ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[2]: lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito"[3].
“Mentre nell’identità pura e semplice dell’ipostasi, il soggetto s’invischia in se stesso, nel mondo, invece de ritorno a sé, c’è “rapporto con tutto ciò che è necessario per essere”. Il soggetto si schioda da se stesso. La luce è la condizione di una tale possibilità”.
Anche dalla materialità iniziale possiamo liberarci e dobbiamo farlo per giungere al compimento dell’identità.
“La morale delle “nourritures terrestres” è la prima morale . La prima forma di abnegazione. Non l’ultima, ma è necessario passare attraverso di essa” (p. 53).
La visione della luce è propedeutica al compimento dell’identità umana.
Provo a chiarimi questo passaggio attraverso alcuni trimetri dell’Edipo re di Sofocle.
Nel prologo della tragedia Edipo domanda a Creonte
“Ma quale male, caduta così la tirannide,
stando tra i piedi, vi impediva di sapere bene questo ?”
Creonte risponde:
“La Sfinge dal canto variopinto ci spingeva a guardare
quello che era lì tra i piedi, e a lasciare perdere quanto non si vedeva” (vv. 129-131)
Il canto della Sfinge dunque distoglie gli occhi dal cielo e da quella luce che dobbiamo vedere per schiodarci da noi stessi e poi emanciparci dalla materialità, salire dai nutrimenti terrestri a quelli celesti. L’uomo completo non ha solo necessità dei nutrimenti terrestri ma ha pure bisogni spirituali, altrimenti è un a[mouso~ ajnhvr.
Passiamo ora ai chiarimenti che leggo nella POSTFAZIONE DI FRANCESCA NODARI (pp. 98-163)
“ A vent’anni esatti dall’ultima riedizione de Il Tempo e l’Altro, si avverte quasi la necessità di riproporre , avvalendosi dell’eccellente traduzione di Francesco Paolo Ciglia, un’opera che costituisce, sul serio, una sorta di cellula germinale del pensiero del filosofo ebreo lituano Emmanuel Levinas” (p. 99).
Questa postfazione è preziosa per chi, come me, lo confesso, non conosceva punto Levinas (1906-1995) ed è poco informato sulla filosofia del Novecento.
“Ma quali sono i principali temi principali tratti dal libro? L’evasione dell’io dall’il y a l’atto di inserzione del sé nell’esistenza, l’oppressione dell’io a causa dell’ingombro del sé, il godimento, il sapere e il ritorno su di sé; il peso dell’essere nel lavoro, nella sofferenza, nella pena; la solitudine e il mondo della luce; la morte intesa, non come puro nulla, ma come mistero che non può essere assunto; “l’eventualità dell’evento” che spezza “la monotonia e il tic-tac degli istanti isolati-eventualità del tutt’altro, dell’avvenire, temporalità del tempo”. Per arrivare, nel temporalizzarsi dell’”io sono” che ha deciso –di-iniziare- qualcosa-con- se stesso all’incontro con Altri. Da qui lo schiudersi di pagine cruciali sulla femminilità intesa come “alterità trascendente-quella che dischiude il tempo”, sulla centralità di eros, sulla paternità fino alla fecondità dell’io come concrezione stessa della diacronia” (pp. 104-105).
Vediamo intanto Francesca Nodari ci spiega il tema della solitudine
“ Ora, nelle pagine intense de Il Tempo e l’Altro, v’è una seconda nozione altrettanto[4] imprescindibile: quella della solitudine. La genialità di Levinas sta nel risalire, se così si può dire, all’origine del suo significare –prima di ogni comprensione o analisi psicologica o sociale-essa è innanzitutto “assenza di tempo” (p. 106) .
Il tempo infatti viene definito e suddiviso dagli eventi della vita sociale. Mi vengono in mente i lamenti dei personaggi tragici abbandonati nella solitudine.
Filottete lasciato solo nella desolata isola di Lemno sentendo parole greche da uomini sopraggiunti e chiede pietà con un aiuto, pesentandosi con queste parle “ a[ndra duvsthnon, movnon,-e[rhmon w|de ka[filon" (Sofocle, Filottete, vv. 227-228), uomo infelice, solo, abbandonato, così e senza amici.
Questo lamento ritorna più volte nelle descrizioni pietose che l’uomo costretto a rimanere solo fa di sé:"mh; livph/" m j ou[tw movnon,-e[rhmon" (vv. 470-471), non lasciarmi così solo, abbandonato, dice a Odisseo; e, poco più avanti, lo prega:"ajlla; mhv m j ajfh'/"-e[rhmon ou{tw cwri;" ajnqrwvpwn stivbou" (vv. 486-487), non lasciarmi nella desolazione così escluso da ogni traccia di uomini.
Per l'uomo greco che viveva nella povli" la solitudine è una condizione innaturale :"benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato "[5].
Più Stato e fato che famiglia, direi
La solitudine di Filottete dunque è tipicamemte penosa , come ha notato bene Kierkegaard[6].
In tale condizione il tempo perde quasi tutti i suoi significati.
La Medea di Euripide vede la parte più notevole e dolorosa della sua miseria nella solitudine. Se ne lamenta parlando con le donne corinzie del Coro:" Però non proprio lo stesso discorso va bene per te e per me;/tu hai questa tua città e la casa paterna/ e un vantaggio nella vita e compagnia di amici,/io, poiché sono isolata[7] e senza città[8], devo subire oltraggi/dall'uomo, dopo essere stata rapita da una terra barbara/senza avere la madre, né un fratello, né un congiunto/ per trovare un ancoraggio fuori da questa sventura" (Euripide, Medea, vv. 252-258).
Sentiamo anche l’Antigone di Sofocle:
"Guardate me, o cittadini della terra patria,/mentre percorro l'ultima/via e miro/ l'ultima luce del sole ,/ e non ce ne sarà mai un'altra, ma Ade/ che tutto addormenta mi spinge viva/alla sponda/di Acheronte, esclusa/dalle nozze, né alcun canto/nuziale mai mi festeggiò,/ma ad Acheronte andrò sposa- ajll j
j Acerovnti numfeuvsw-" (Antigone, vv. 806-816) .
“Una condizione cui il soggetto perviene dopo essersi liberato “dall’essere che vale e che pesa”, evasione che, attraverso l’atto di inserzione nell’esistenza, se per un verso “è essenzialmente assoggettamento e servitù”, per l’altro “è anche la prima manifestazione o la stessa costituzione dell’esistente , di un qualcuno che è” (pp. 106-107)
Mi viene in mente la Medea di Seneca: compiendo il delitto più atroce, la nipote del Sole pensa di diventare quello che è:"Medea " la chiama la nutrice; ed ella risponde "fiam " (v. 171), lo diventerò.
"E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[9].
Il motivo Medea superest (v. 166) rilanciato da questo fiam (171) è quasi un Leitmotiv nella Médée di Anouilh (del 1953):"Je me retrouve…C'est moi, c'est Médée…je suis redevenue Médée…je suis Médée[10] "(ben 5 volte…); e ancora, alle articolate perplessità della nutrice, Medea risponde sempre epigraficamente."Mais qu' est-ce que tu veux dans cette iêle ennemie? Colchos même tu est chassée. Et Jason nous laisse aussi maintenant. Que te reste-t'il donc?: Moi [11] Si vedano anche:"c'est maintenant Médée qu'il faute être toimême"; e" est…je suis Médée, enfin, pour toujours[12]"[13].
« Come è noto, in Dell’evasione, Levinas introduce un neologismo di forte impatto : l’être rivé proprio per mostrare, per un verso attraverso la vergogna, « l’impossibilità radicale di sfuggire da se stessi » e per l’altro, attraverso la nausea, il fatto che « si è incatenati a sé, imprigionati entro un cerchio stretto che soffoca (…) Ma il ‘-non -c’è- più niente- da- fare’ è il carattere di una situazione in cui l’inutilità di qualsiasi azione è precisamente l’indicazione dell’istante supremo in cui non resta che uscire ». (pp.107-108)
In questa situazione disperante, non si tratta di andare da qualche parte, ma di uscire dalla prigione dell’essere. Mossi da ciò che Levinas chiama un « bisogno di eccedenza » occorre « spezzare l’incatenamento più radicale, più irremissibile, il fatto che l’io è se stesso » (p. 109).
Ricorro di nuovo alla tragedia greca per illustrare con gli strumenti che ho questo « bisogno di eccedenza ».
La visione orrenda delle Erinni spunta davanti agli occhi di Oreste già nelle Coefore , quando l'assassino della madre le vede quali donne "simili a Gorgoni/dalle nere tuniche e intrecciate/di fitti draghi"(vv.1048-1050). Tali mostri sono"le rabide cagne della madre" (v1054) che appaiono soltanto al matricida:" uJmei'~ me;n oujc oJra'te tavsd j, ejgw; d ‘ oJrw'”, voi non le vedete queste, ma io le vedo"(1061).
Le Furie lo incalzano: “ejlauvnomai de; koujkevt j a]n meivnaim j ejgwv” (v. 1062), sono sospinto e non posso più restare io.
T. S. Eliot pone questi versi quale epigrafe di Sweeny agonista (1930), :" You don’t see them, you don’t-
But I see them: they are hunting me down, I must move on”.
Nel dramma La Riunione di famiglia (1939) Eliot mostra come tali visioni siano un privilegio (. 109) .-continua
Bologna 2 luglio 2022 ore 11, 44
giovanni ghiselli
[1] La vita.
[2] " Se il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì" (C. Pavese, Il mestiere di vivere , 25 dicembre, 1937.)
[3] Il fuoco (del 1900) p. 95.
[4] Quanto quella dell’istante ndr
[5]S. Kierkegaard, Enten-Eller , Tomo Secondo, p. 24 e p. 30.
[6] "La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa , ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno è a conoscenza del suo dolore" (Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Enten Eller, tomo II, pp.33-34).
[7] e[rhmo" (v. 255): l' aggettivo a due uscite torna, sempre riferito a Medea, al v. 513 (fivlwn e[rhmo", su;n tevknoi" movnh movnoi" , priva di amici, sola con i figli soli) e al v. 604.
[8] a[poli" (v. 255): per un Greco, o per uno che viva in mezzo ai Greci, essere apolide è una tragedia. Sofocle nell'Antigone coniuga la mancanza di città con la carenza di bellezza:"e le leggi della terra unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande nella città (uJyivpoli"); bandito dalla città (a[poli" ) è quello con il quale /coesiste la negazione del bello morale (to; mh; kalo;n) per la sfrontatezza./Non mi stia accanto sul focolare/né abbia lo stesso pensiero/chi compie queste azioni" (vv. 368- 375).-
[9] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.
[10] Io mi ritrovo…sono io, sono Medea…sono ridiventata Medea
[11] "Ma che puoi tu in quest'isola nemica? Colco è lontana e anche da Colco tu sei cacciata. E Giasone pure ci lascia, ora. Che ti resta dunque?:: Me stessa!"
[12] Ecco, è adesso che devi essere te stessa…Io sono Medea, infine, per sempre.
[13]F Citti, C. Neri, Seneca nel Novecento , p. 104.
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