Università di Debrecen |
Devo
completare la storia del mio apprendistato, risalendo al tempo remoto della
prima partenza per l’Università estiva di Debrecen.
L’arrivo
a Debrecen nel luglio del 1966
Voglio
ricordarti, lettore, quell’approdo a Debrecen dove giunsi da un mare tempestoso
per farti vedere quanto possano una forte volontà, una capacità di comprendere
e un poco di buona fortuna nel cambiare in meglio, nel risollevare la vita di
un essere umano, di un ventenne già quasi caduto nell’abisso della disistima e
del disprezzo di sé.
Era
una sera dell’estate del ’66, intorno alla metà di luglio; avevo precisamente
21 anni e otto mesi quando, al tramonto del sole, arrivai nell’ignota cittadina
ungherese dopo un viaggio inquieto con un veicolo vetusto e scassato, una Fiat
600 che, attraversando la puszta, aveva schiacciato migliaia di
insetti brulicanti nell’aria della grande pianura e negli ultimi chilometri si
era arrossata del loro sangue, mentre il parabrezza mi rendeva poco perspicuo
il percorso rimasto da compiere.
Ma
il più insanguinato, almeno metaforicamente, ero io caduto sulle spine della
vita dopo la fine del liceo.
Stavo
seguendo le mie Erinni che apparivano a me, come una volta a Oreste. Anche io
dovevo dire alle poche persone che mi trovavano trasognato uJmei'~ me;n oujc oJra'te tavsd j, ejgw; d ‘ oJrw'
ejlauvnomai de; koujkevt j a]n meivnaim j ejgwv
tw`/
pavqei mavqo"”. In effetti il
dolore, paradossalmente, mi avrebbe guarito e reso migliore. Di nuovo Eschilo e
anche Giobbe.
’insatiabilis rictus il grugno
ingordo da uomo degradato a maiale. Naturalmente con questo regime smisi di
gareggiare in bicicletta e inebetii la mia mente. Lo studio mi costava fatica,
la bici da cara mi era divenuta estranea. Insomma persi la mia identità.
Significa il cancro dell'anima. Stavo andando a Debrecen dopo quasi tre anni di
tale degradazione, una deminutio mei ipsius. Mi ero imbestiato
male.
Oramai
pensavo
Negli
ultimi venti chilometri, precisamente da Hajdúszoboszló, avevo forzato la
vecchia automobile per arrivare nella remota Università estiva prima che il
sole, la lucerna del mondo, sparisse dall’orizzonte, lasciandomi nel buio
dell’immensa distesa, coltivata ma priva di alberi, popolata ma da poche
persone distribuite in case isolate, in piccoli e radi borghi pressoché primitivi,
dove oltretutto parlavano una lingua veramente straniera, uno strano idioma
agglutinante di cui, attraversando la terra magiara tutto quel giorno, mi ero
accorto di capire pochissimo.
L’esame
di lingua e letteratura ungherese dato a Bologna mi aveva fruttato un trenta e
la borsa di studio per l’Università estiva della cittadina magiara, ma non era
bastato a mettermi in grado di capire né di farmi comprendere nella lingua di
quel paese. Me la cavavo con l’inglese e se questo non bastava aggiungevo il
latino. Non avevo buttato via del tutto l’abito letterario che avevo scelto fin
da bambino, quando mi accorsi che mi stava bene, mi donava.
Me
ne ero accorto già in terza elementare quando il maestro Gasperi faceva girare
i miei temi come esempi in diverse altre classi.
Poi
alle medie la professoressa di latino e italiano, Giulia Gattoni, una bella
donna bruna diceva che non aveva mai avuto un alunno intelligente come me. Già
allora avevo deciso di continuare a studiare il latino nel liceo classico. Non
mi sbagliavo: il latino, poi il greco sarebbero entrati nella mia identità e mi
avrebbero aiutato in ogni occasione. Anche lì in Ungheria.
Qualche
giorno più tardi, con l’automobile in panne, fui soccorso da un prete che
venutomi incontro mi domandò: “loqueris latina lingua?”
“Loquor”
risposi, quindi potei avere indicazioni utili nel nostro italiano antico. Chi
ha letto la storia di Helena ricorderà che la sera della nostra piccola crisi,
quando cercai di fare l’amore senza darle spiegazioni, la bella donna disse “I
am not”, poi una parola inglese che non compresi. Le feci segno che non
avevo capito. E lei, bella e fine qual era, chiarì: in latin is materia.
“Magnifica
- pensai - davvero, non sei solo materia!”. Poi glielo dissi.
Correndo
dunque, e facendo una strage di moscerini che avevano impiastricciato il
parabrezza e il muso della Seicento, ero riuscito a precedere il buio maligno
solo di pochi minuti. Quando arrivai alla periferia della città, il sole si era
già immerso nella selvatica landa alle mie spalle, mentre dall’altra parte, la
zona boscosa della Transilvania e dei selvosi Carpazi, vedevo arrivare le
tenebre lunghe di una notte inquietante, popolata di spettri che mi mettevano
in cuore strane emozioni: miste di presentimenti non tutti cattivi e di vaghe
speranze. Ero molto giovane allora: quanto a esperienza di uomini, per non dire
di donne, di rapporti umani comunque, ero quasi un bambino.
Ero
partito da Pesaro la mattina del 14 luglio, da solo. Avevo costeggiato il mare
Adriatico sulla strada Romea e attraversato un pezzo di pianura padana; poi
erano apparse delle montagne, brutte però, spelacchiate, informi se non anche
deformi; insomma molto diverse dai monti noti e cari, le Dolomiti antropomorfe
che si ergono sulla valle di Fassa nel puro azzurro dell’etere. Dialogavo con
loro nei mesi di agosto degli anni Cinquanta quando la zia Giulia mi portava
lassù dove non avevo nessun altro amico con cui scambiare qualche parola.
Parlavo con quei monti che per loro umanità, mi rispondevano sempre, quasi
sempre.
Mentre
avanzavo tra catene montuose che stringevano l’orizzonte da tutte le parti, il
cielo residuo prima si incoronava di nubi ricciute, poi si ingombrava di nuvole
sempre più grosse, acquose, plumbee sui monti lividi, finché arrivarono a togliermi
il conforto della luce del sole.
Temevo
che si apprestassero a versare i loro liquidi, oscenamente.
Infatti
cominciò a piovere sulle piante rade e scure di quelle montagne brulle, simili
a cani dal pelo tarlato. Non si vedeva un’Oreade che fosse una.
Mi
sembrava piuttosto di udire bestie immonde canidi affamati, che latravano in
branco, o ululavano solitari fissando le nuvole inquiete del cielo già quasi ottenebrato.
Ho sempre avuto paura e ripugnanza dei cani, almeno di quelli che con il loro
abbaiare furioso e l’aggressività sì e no trattenuta da guinzagli malsicuri
assimilavo fin da bambino a uomini rumorosi, cretini, violenti.
Proseguivo
intronato e atterrito tra quegli spazi ignoti e minacciosi. Ero un ragazzo che
a tratti vedeva il male anche nel nulla.
Non
sembrava nemmeno più estate. Novembre sembrava. Ero tentato di tornare a Pesaro
dove almeno la spiaggia coperta di ombrelloni e capanni e l’acqua marina ricca
di raggi e di flutti, di chiarori e di guizzi che moltiplicavano la
luce del sole, mi assicurava che la stagione meno dolente non era finita. Ma a
Debrecen avevo un appuntamento con il destino. Un destino buono col senno del
poi. Mi avrebbe fatto incontrare l’amico Fulvio e gli amori con le Finlandesi,
tre, che racconterò perché sono storie belle, di resurrezione e riscatto. Le
auguro ai buoni, ai fortunati pochi buoni.
Allora
avevo solo speranze incerte e tante paure.
Arrivai
sul Tarvisio che Zeus pioveva, tuonava e fulminava.
“Tuono
e lampo btronth; kai;
sevla" - pensai - sono segnali, segni alati del cielo, simili a
quelli ricevuti da Edipo giunto a Colono e diretto al bosco sacro della sua
redenzione”.
Avevo
dato gli esami di greco: tutta l’Odissea, tre tragedie di Euripide, due
di Eschilo e altre due di Sofocle. Ne avevo la testa infarcita.
Attirato
da quei segni divini, decisi di proseguire. Prima però scesi dall’automobile e
andai a cambiare denaro per mangiare e dormire in Austria: a Graz, se ci fossi
arrivato a un’ora possibile, poiché c’erano altri duecento chilometri ignoti da
percorrere, probabilmente sotto la pioggia. Avevo un forte male di gola e molti
timori imprecisati. Volevo capirli, definirli, domarli.
Per
questo dovevo procedere. Fata viam invenient [1], pensai. Avevo dato
anche latino con tutta l’Eneide. La via era quella che portava alla mia
identità, al diventare quello che sono, non dico chissà chi, ma per lo meno me
stesso. Questo contava.
Quando
fui rientrato nell’automobile, vidi un lampo che illuminava l’Oriente, la parte
di Graz e “di quella terra che il Danubio riga - poi che le ripe tedesche
abbandona”[2]. L’abito letterario non
me lo sono mai tolto. Mi ha sempre aiutato.
Sentii
tre volte il suono di un tuono strano: aveva qualche cosa di musicale. Aderitque
vocatus deus [3], completai. Traevo
auspici. Sperare che la mia vita sarebbe cambiata in meglio era plausibile: in
peggio non poteva. Guardai le creste dei monti che apparvero cosmetizzati,
lisciati e imbelliti dalla pioggia intermittente, seguita da qualche sprazzo di
sole , e mi sembrò di vedere, mentre saltava di vetta in vetta, una donna o una
dea luminosa, vestita di bianco. Presagio di un incontro felice?
Scintillavano
i suoi occhi, i capelli rossi avevano i bagliori del vello d’oro o di un fuoco
prometeico.
Un
vento libertino le sollevava le gonne fino alla metà delle cosce tornite.
Poteva
preannunciare la creatura bella e fine che un giorno avrei incontrato e mi
avrebbe amato se non mi fossi perduto d’animo e avessi ricominciato a
progredire, cercandola. Avrei voluto unirmi a lei in quel tripudio bacchico.
Sentivo che prefigurava qualche cosa della mia esistenza.
Allora
era una figura eterea, una promessa quasi ultraterrena, ora che mi avvicino ai
77 anni, pollw`n ojnomavtwn morfh; miva[5], ä o[sti" pot j ejstivn[6].
Procedevo
nell’oscurità della notte deserta.
Un dio mi inceppava il cammino. Avevo paura. Di non arrivare alla meta. Tra
quelle montagne ignote non si vedeva più niente, tranne una decina di metri
davanti all’automobile che procedeva con i fari abbaglianti accesi. Ma sì,
potevo anche morire. “Tanto della mia vita – pensavo - non importa niente a
nessuno”.
Tranne a mia madre alle zie e ai nonni che del resto aveva tanti altri
problemi loro e non potevano sobbarcarsi anche i miei che per 19 anni anzi ero
stato la loro consolazione. Sentivano che erano vissuti per me e da un paio di
anni toglievo significati buoni alla loro vita mandando in tanta malora la mia.
Però reagivo a tanta cupezza. Sentivo che era eccessiva e pure un poco
affettata. Quindi cambiavo registro.
note
[1] Virgilio, Eneide III,
395, i fati troveranno la via.
[2] Dante, Paradiso VIII,
66 - 67. Ovviamente designa l’Ungheria.
[3] Eneide,
III, 395, e sarà presente, invocato, un dio.
[4] Cfr. Eneide,
VI, 304, già piuttosto vecchio, ma cruda e vigorosa è la vecchiaia mia
[5] Eschilo, Prometeo
incatenato, 210, una sola forma di molti nomi.
[6] Cfr.
Eschilo, Agamennone, 160.
Il viaggio fino Graz. L’assopimento, le visioni oniriche e la
sbandata perigliosa
“Sollèvati dal suolo, infelice - mi dicevo - alza da terra la testa desolata e
drizza la schiena curva: non è la fine del mondo questa e tu devi smettere
di essere l’arcinfelice ragazzo che sei divenuto finito il liceo. Dai Gianni,
coraggio, puoi farcela. Devi arrivare a Debrecen presto e cercare l’amore e
trovarlo. Questo viaggio è il simbolo, la metà della tessera, della tua stessa
esistenza: sei solo, sei coperto di nebbia, sei disgraziato e gravido di
lacrime, ma ce la farai, poiché non sei stupido, né falso, né ostile alla vita.
Ricordati come eri bravo e primeggiavi in tutte le scuole di Pesaro. Con la
bicicletta in salita eri sempre il più egregio di tutti i competitori. Alumnus
optimus e pure ajgwnisthv" a[risto". Allora
non hai trovato l’amore perché impiegavi ogni tua energia per essere il primo
nell’agonismo scolastico e ciclistico. In salita a dieci anni battevi i
ventenni. In seconda liceo hai vinto un viaggio premio assegnato ai trenta
studenti migliori d’Italia. O grandi vanti umiliati! Presto però ti rifarai!
Nessuno deve riferire a te il lamento di Ofelia per Amleto: “ O, what a
noble mind is here o’erthrown !”[1].
“A Bologna finora hai dovuto cercare di adattarti a un mondo esterno
sconosciuto e imprevedibile finché stavi in quel mortorio di Pesaro[2] e
in quell’ambiente domestico pieno di pregiudizi, infelicità e frustrazioni. La
fortuna è mutevole: cambierà ancora! Soffrire in questi ultimi anni è stato
destino, ma vedrai che splendore avrà la vittoria!”
Sceso dai monti, a un tratto, sulla sinistra, vidi una luce.
Per un momento credetti e sperai che fosse il sole sbucato di nuovo dalle
nuvole occidentali. Invece era un lampione giallognolo, acceso contro il buio
precoce. Saranno state sì e no le sette: in quel tempo la provvida ora legale
non c’era. Certamente dal sole, che ho sempre adorato come l’immagine visibile
della mente divina e del Bene, avrei tratto maggiore conforto. Quel fioco
bagliore non era un segno del tutto propizio. Nemmeno sinistramente ominoso
era, però. Era una luce triste, ma pur sempre una luce.
“Avanti - mi dissi - avanti, ché ce la puoi fare. Non volgere la prua della tua
navicella contro la corrente del destino! Procedi con lei! Fatti portare sulla
riva della rinascita! Devi armonizzare i movimenti del tuo cervello con quelli
del cielo, mentre prima hai dato di cozzo nel fato che è il volere, la parola
di Dio!”.
Verso le otto arrivai a Graz sotto un’acquazzone violento e il cielo più buio
che mai.
Le lampade elettriche illuminavano l’asfalto bagnato della circonvallazione
dove scura dai campi colava la terra disciolta e trascinata dalla forza
dell’acqua che si infangava e rendeva scivolosa la strada. Mi sembrò di vedere
trascinati nel fango anche scoiattoli spelacchiati, dalla coda mozza, e pesci
debosciati, privi di guizzi. Infine intravvidi un pesce salato del Ponto appeso
a un amo. Allora, nel dormiveglia compresi che si trattava di visioni oniriche
pullulate da ricordi di cose viste o di parole lette. Difatti mi ero assopito.
Tanto che in una curva sbandai e finii fuori strada. E mi svegliai del tutto.
Passato il terrore mi dissi: “Tutta la vita così”.
Avevo assunto una posa e un’espressione da attore tragico. La tragedia
greca mi è sempre piaciuta assai. Mi ci immergevo, ne traevo modelli e
contromodelli.
“Sarà dura arrivare in fondo, quando dirò ‘non doveva finire così’ ”.
Giocavo anche un poco con la sfortuna e con il dolore.
Cercavo di reagire alla stanchezza e alla paura. Quindi ricorsi al modello
epico e mi sovvenni di Achille che, incalzato dallo Scamandro temeva di fare la
stessa misera morte di un bambino porcaio travolto da un torrente in piena[3].
Poi invece se l’era cavata.
Volevo dunque trovare una camera dove passare la notte già cominciata.
Immerso nel buio e nella solitudine profonda, guardavo le case lungo la strada,
ma l’oscurità e la grande miopia mal corretta dagli occhiali appannati mi
rendevano difficile la ricerca dell’asilo notturno. Ero ancora
lontano dalle lenti a contatto che avrebbero contribuito a migliorare il mio
aspetto. Mi ero allontanato da tutto ciò che poteva giovarmi. Tranne lo studio
che non ho mai abbandonato del tutto. L’ho sempre visto come la mia stella
polare.
Gli animali e pure gli umani potevano anche schifarmi e io provare disgusto per
coloro, ma gli auctores, i miei accrescitori non li ho traditi mai,
nemmeno per dedicarmi del tutto a una donna desiderosa di un figlio.
note
[1] Shakespeare, Amleto,
III, 1, o quale nobile spirito è qui distrutto! Avevo dato un esame di
letteratura inglese ricevendo la lode. Ricordo con affetto il professor Carlo
Izzo che mi elogiò non solo con la lode aggiunta al trenta. Era un bravo
professore e un prezioso educatore. Uno dei pochi, davvero pochi.
[2] Cfr.
Catullo, Carmina 81, 3 moribunda ab sede Pisauri
[3] Cfr. Iliade,
XXI, 281 - 282
Le sorelle fatidiche
Finalmente potei scorgere un
cartello con la scritta Zimmer frei attaccato alla porta di
una casa a tre piani.
Mi fermai, scesi dalla
Seicento, suonai. Una finestra del secondo piano si schiuse: ne sbucò una testa
bianca che richiuse subito i vetri senza dire parola. Aspettai un poco con la
voglia di cercare più avanti, ma l’anziana venne ad aprire .
“Zimmer frei?” chiesi.
Quella disse solo: “Passport” e tese la mano. Glielo diedi. La vecchia
lo prese e guardò la fotografia confrontandola, sospettosa, con la mia faccia.
Poi disse “Einen moment, bitte!”. Quindi si mosse verso una piccola
porta situata a metà del corridoio quasi buio che dall’ingresso menava a una
scala. Aprì quell’uscio, disse qualcosa a qualcuno, e tornò. Camminava
piuttosto in fretta per la sua età. Subito dopo, dall’andito scuro arrivò
un’altra donna anziana, somigliante alla prima, meno arcigna nel volto però. Al
punto che mi sorrise. Me ne rincuorai. Parlarono un poco tra loro, mentre mi
esaminavano guardandomi di sbieco. Infine si resero conto che non avevo
intenzioni cattive. “ Forse hanno capito che non sono un epigono di Raskol’nikov”[1],
pensai.
In effetti non ho mai premeditato
di ammazzare due vecchie. Nemmeno una a onore del vero.
La meno aspra mi diede due chiavi:
una della porta esterna che mi fece aprire e chiudere diverse volte per la
paura tipica dei vecchi di non avere la casa serrata bene, l’altra della mia
stanza, che mi indicò con un dito, al piano di sopra.
La più diffidente e dura, non
condividendo, forse, l’atto, ritenuto affrettato della sorella, si mise ad
agitare entrambe le mani: con la sinistra, più arretrata, accennava a
restituirmi il passaporto, ma con la destra, tesa quasi fino al mio volto,
manifestava il desiderio di essere pagata in anticipo, e senza indugio,
sfregando rapidamente, rapacemente, l’indice con il pollice e dicendo: “Schilling,
schilling, sofort!”, più volte. Poi scrisse un numero. Un prezzo non esoso,
invero, e colazione compresa. Pagai, riebbi il passaporto, e salii nella
camera. Era spaziosa, poco illuminata e fredda. Mentre sistemavo la roba,
pensai cosa potessero significare quelle due donne che mi avevano dato
ospitalità nella notte, ma con diffidenza. “Sono allegoriche queste due ”,
pensai, “forse addirittura fatidiche sorelle, ministre del fato come the
weird sisters del Macbeth[2],
sue intermediarie!”
Gli auctores, i miei accrescitori
mi aiutavano sempre: mi fornivano i verba per i pensieri che
talora erano immersi così profondamente nel mio cervello da non trovare la
forza né le parole per scavare la via di uscita nella chiarezza cosciente, non
ebbra, non oscurata dai luoghi comuni.
Le anziane di Graz dunque potevano
significare la parte meno buona delle mie zie, le sorelle assai più attempate
di mia madre, la Rina e la Giulia.
Io dovevo fruire della loro
ospitalità a Pesaro d’estate, e a Bologna nella casa che mi avrebbero regalato
dopo la laurea, se l’avessi presa a pieni voti, e dovevo ripagarle, ossia
ricompensarle facendo un poco di carriera nella scuola: se fossi diventato
professore di greco e latino nel miglior liceo di Bologna, loro due, ex maestre
elementari, all’estero, tra l’altro a Budapest quando c’era il fascismo, ne
avrebbero avuto sufficiente soddisfazione. “E’ un lavoro dignitoso” diceva la zia
Rina, la più esigente. Se avessi insegnato all’Università, sarebbero state
oltremodo felici.
Dovevo rispettarle ed essere grato
per l’aiuto che già allora ricevevo, però non dovevo permettere alle due
anziane sorelle di mia madre, più o meno ancora fasciste e pretificate, di
interferire nella scelta delle mie donne, del mio destino. Volevano che mi
sposassi con “una brava collega”. Ossia auspicavano una ragazza di famiglia
borghese, vergine, che insegnasse, mi preparasse piatti forti e schietti, e
tenesse ordinata la casa.
Io invece non volevo una moglie
tratta dalla sesquiplebe[3],
una casalinga addomesticabile, bensì un’amante bella, intelligente, sensibile,
libera, colta, sportiva. Un’artista dotata di vis vitalis, una
della mia levatura, quella che avevo perduto e volevo ritrovare.
Diverse amanti dovevo incontrare
anziché una sola, magari una alla volta, però una più speciale dell’altra. I
luoghi comuni, la gente ordinaria, la turba dei chiacchieroni e dei fanfaroni,
mi davano noia. Quelli che giocano a carte fumando e cianciando: pettegolezzi,
battute da frustrati sessuali, luoghi comuni.
Quando avevo cercato di
assimilarmi a coloro, mi ero degradato fino a sentire strigi che stridevano
irridendo la strage della mia identità.
Se invece di essermi disperato
avessi continuato a cercare di adeguarmi a tale genìa dal carattere opposto e
ostile al mio, sarei morto disprezzato e deriso anche da coloro.
Dovevo voltare la schiena a quella
specie indefinita.
La vita dell’eterno marito di una
qualunque non faceva per me.
Le zie d’altra parte mi aiutavano e
ancora più mi avrebbero aiutato in seguito. Mia madre le chiamava le “sorelle
Materassi”.
Tutte e tre e pure la loro madre,
la carissima nonna Margherita molto simile a me, capivano che Pegaso se viene
messo a girare la ruota del mulino, si ammala e muore. Con il loro aiuto e
quello della madre mia dovevo ritrovare le ali che mi ero lasciato portare via
da gente stupida, cattiva, priva di storia e di gevno".
Mi mancava la compagnia di persone
del mio stampo che sente, respira, vive la bellezza e l’arte. Dovevo trovarla.
note
[1] Il protagonista
di Delitto e castigo di Dostoevskiy. Ammazza due vecchie
appunto.
[2] Shakespeare, Macbeth,
I, 3.
[3] Cfr. Vittorio
Alfieri, satira IV, La sesquiplebe
D'ogni
Città voi la più prava parte,
Rei
disertor delle paterne glebe,
Vi
appello io dunque in mie veraci carte,
Non
Medio - ceto, no, ma Sesqui - plebe. (vv. 31 - 34)
Il domiveglia notturno. I segni e
la loro interpretazione
Uscii per mangiare in fretta e
tornare presto in camera. Volevo alzarmi la mattina di buonora. Fuori pioveva
sempre e faceva freddo. Mentre mangiavo, pensai che dovevo orientarmi cercando
di capire il destino: cogliere e interpretare i segni del cielo e di Dio che,
con la sua mente ordinata e magnanima, nulla lascia procedere a caso. E avverte
con premonizioni. E’ bene, è necessario notarle e svelarle. Non sono sempre chiarissime,
ci vuole un animo attento e allenato per comprenderle.
Ho sempre fatto caso ai segni
premonitori, fin da bambino.
Ricordai che Ammiano Marcellino
commenta positivamente l’attenzione del suo eroe, Giuliano Augusto, per gli
auspici che si traggono dagli uccelli: non che i volatili conoscano il
futuro, sed volatus avium dirigit deus[1]. I
segni provvidenziali mi avrebbero indicato la strada da seguire con metodo[2]. Exinde
quid agi oporteat bonis successibus instruendus[3].
Alla follia metodica di Amleto non
sfugge che c’è una provvidenza speciale anche nella morte di un passero[4].
Più tardi mi addormentai mentre pensavo
ancora ai segni ricevuti quel giorno.
All’una, fui svegliato da un
campanello.
Prima credetti di sognare quel
suono, poi mi svegliai.
Mi chiesi se avessi sognato gli
squilli che potevano essere la realizzazione velata di un desiderio inibito o
poco chiarito: svegliarmi dal sonno e dall’oblio della mia identità, ritrovare
la dignità antica di studioso che ricordava quanto leggeva e di agonista che
vinceva tutte le gare.
Invece quegli squilli ripresero:
qualcuno suonava davvero e con insistenza. Nessuno andava ad aprire. Vecchie
sorde o paurose. Ancella infingarda, se c’era. Io? Non c’entravo, non mi
sembrava il caso, poi avevo paura. Continuò per alcuni minuti.
Chi è alla porta, chi è alla porta,
chi?[5] Mi
domandai.
Guardie di frontiera che mi
inseguivano, oppure ladri o assassini, scomposte menadi ubriache, spettri di
orrori, o invece buffe congreghe di “diavoli goffi con bizzarre streghe”[6],
o che altro?
Comunque era un segno. Di sventura?
Ma no, forse era un segno sonoro
premonitore di cambiamento in meglio. “Tutto è pieno di dèi, pavnta plhvrh qew'n[7], tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo”[8], volli pensare, forzandomi un poco.
Rimasi sveglio una mezz’ora per
interpretare quel segno.
Lo feci in questo modo: “Non
addormentarti, non rimanere assopito e stordito nella casa di Pesaro. Non è
l’ambiente dove puoi svilupparti. Svegliati, alzati, cerca nuove dimore,
esperienze nuove, anche a costo di ferirti, di smarrirti nel mondo.
Devi imparare a stare ritto senza
essere sorretto.
Se resti là, non potrai ritrovare
l’identità smarrita. Quella andava bene per un adolescente liceale.
A Debrecen, cerca di
conoscere delle persone adulte stimolanti alla crescita, donne soprattutto, le
donne belle e fini che devi meritarti: prova a iniziare una vita nuova e degna
di te!”.
note
[1] Ammiano
Marcellino, Historiae, XXI, 1, ma il volo degli uccelli lo
dirige dio.
[2] E’ una
tautologia voluta: oJdov" significa
“strada”
[3] Quindi saranno
I buoni successi a guidarmi (cfr. Ammiano Marcellino , Storie, XXI,
5. Parla Giuliano Augusto
[4] Cfr.
Shakespeare, Hamlet V, 2 there’s a special providence in the fall
of a sparrow.
[5] tiv~ ojdw` ; tiv~ oJdw/` ;tiv~ ;” (v. 68), chi è per
strada? Chi è per strada? Chi?
[6] Carducci, Il
comune rustico, 10 - 11.
[7] Talete in
Aristotele, Sull'anima, 411a 8.
[8] P. P. Pasolini,
Dialoghi definitivi di “Medea”, scena 7. In op. cit., p. 544 e p. 545.
La frontiera ungherese. La
fotografia. Budapest
Arrivai alla frontiera ungherese
che c’era il sole. Mi chiesero se avessi una fotografia per il visto. Non
l’avevo. Me ne fecero quattro dopo avermi messo seduto davanti a un muro. Me ne
lasciarono una. La conservo. Ci vedo la faccia ombrosa di un ragazzo
occhialuto, grasso, foruncoloso. Brutto, anzi imbruttito assai.
Con l’anima piena di piaghe.
Con un aspetto tanto
malconcio, da Giobbe, tutto ulcere, non sarebbe stato facile risalire la china.
Dovevo modificarlo. Rimpastarmi, come diceva la madre mia benedetta. Liberarsi
da quel laido groviglio di tormenti, dai ceppi che mi stringevano al suolo
rendendomi esclusivamente tellurico e violentando la mia natura. Dovevo evadere
da quella nube di angoscia che mi toglieva la visione della luce e del cielo.
Ci voleva l’ abbronzatura, l’ornamento
del sole che accarezza il mondo e il nostro viso con i suoi raggi proprio come
fa Apollo quando con il plettro tocca le corde della lira, poi bisognava
aggiungere l’altra cosmesi ottima: quella dello sport: corse, bicicletta,
nuoto, e digiuni da asceta. Quindi le lenti a contatto. Dovevo ritrovare il
compiacimento e l’orgoglio di me stesso, la dignità antica che avevo quando
studiavo al Mamiani e vincevo tutte le gare. Riprendere a primeggiare dovevo.
Generosamente però, non
egoisticamente come prima della caduta.
Tornare all’accordo con la vita, la
mia e quella delle persone buone.
Dopo il liceo mi ero degradato con
il cibo, con la pigrizia e con le lamentele, querimonie plebee, anzi servili.
Poi lo schifo degli altri, aliorum
fastidium, genitivo soggettivo e oggettivo, e le solitudini da anacoreta
sordido, mica santo.
Ripartii consolandomi con il
pensiero che in fondo avevo già dato parecchi esami e quasi tutti con ottimi
voti. Questo non bastava: anche tanti imbecilli e ignoranti li prendevano da
professori che a loro volta, nella maggior parte dei casi, erano solo dei
funzionari della scuola.
Per farmi coraggio, pensai che il
mio sovrappeso era di una ventina di chili, non di trenta: non ero ridicolo,
non indicavano a dito la mia pancia. Quand’ero vestito quasi non si notava.
Bastava che non mi spogliassi. Dunque potevo rifarmi. Il fondo oramai, il mio
punto più basso l’avevo toccato. Molto presto sarebbe stato tempo di risalire.
Forse era già tempo.
La caduta anzi doveva
diventare uno stimolo energico per salire più in alto rispetto al punto dal
quale ero caduto.
Arrivai a Budapest verso le due del
pomeriggio. Mi fermai un’ora per mangiare. Non avrei dovuto. Non ero ancora
maturo per la risalita. Avevo bisogno di una mano soccorrevole. L’avrei trovata
negli italiani di Debrecen, soprattuto in fulvio. Sarei diventato capace di
saltare il desinare del tocco o la cena serale.
La città divisa in due dal Danubio
perfino nel nome mi sembrò enorme e dispersiva, mentre di fatto è bella e
magica non meno di Praga. Ma avevo gli occhi offuscati da tante paure. Non
trovavo la strada per Debrecen.
Dovetti chiederla una decina di
volte. Finalmente riuscii a infilarla. Era, è, la Üllői út,
la numero 4. Seguendola per 220 chilometri si arriva a Debrecen. La terra del
mio riscatto, speravo non senza ragione. Erano passate le quattro. In quel
momento prevaleva l’angoscia di non arrivare prima del buio. Il sole non era
più tanto alto da rassicurarmi. Calcolai che il tramonto da quelle parti cadeva
mezz’ora prima che da noi: entro le otto il dio[1] sarebbe
sparito alle mie spalle, entro le nove sarebbe stato buio pesto. Calcolare,
conteggiare, riflettere mi è sempre servito a minimizzare l’angoscia, a
difendermi dai colpi bassi della fortuna e dalle fregature dei farabutti.
note
[1] Lo ministro maggior
della natura - che del valor del ciel lo mondo imprenta - e col suo lume il
tempo ne misura” (Dante, Paradiso, X, 18 - 20)
Da Budapest a Hajdúszoboszló,
“un paese dal nome lungo e difficile”
Lanciai la povera, stanca Seicento
verso la puszta, il deserto degli Ungheresi, coltivato del resto a girasoli,
verdure, grano e foraggio.
Il grano era stato già mietuto.
Pensai alla morte di Adone il giovane amato da Venere, ucciso dal cinghiale, e
alla rinascita di ogni vita, comprese quella del grano, e la mia[1].
I girasoli avevano le teste chinate
a terra. Mi sembravano fanciulle timide. Mai quanto me, pensavo quel giorno.
Più che timido allora ero goffo, insicuro, incapace di piacere a una donna, a
chicchessia.
Ero imbruttito parecchio dagli anni
buoni del liceo. All’ebbrezza dei successi erano succeduti tre anni oscurati
dalle lacrime. Ero appassito anzi tempo. Un fiore di ieri, di ieri l’altro,
un’erba falciata e già scolorita. Ero un giovane ferito, anche se non a morte
come Adone. Inoltre mi vestivo male e mi lavavo poco, e non per imitare Socrate
del quale all’epoca non sapevo che non curava l’igiene poiché non avevo ancora
letto Aristofane[2].
A metà strada fra Budapest e
Debrecen, cominciò a piovere.
Avevo sonno e avevo paura di
perdermi nella puszta infinita, o quanto meno di non arrivare in tempo per
inserirmi tra gli altri.
Pioveva sui girasoli reclinati,
sulle oche bianche, sui maiali neri che animavano quella grande pianura
semideserta. Per vincere almeno il sonno, mi fermai in una bettola di un
paesino, Abony. Volevo bere un caffè e domandare se procedevo sulla via giusta Non
ne ero sicuro. Tanto meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una sosta
trionfale, più volte tornando da Debrecen, ogni volta con una donna diversa, ma
sempre bella, fine e innamorata di me.
La sosta sarebbe diventato un
rito celebrativo di trionfi erotici.
Sperarlo quella prima volta sarebbe
stata follia.
Piuttosto
pensavo che potevo morire. Ebbi un fremito di raccapriccio. Poi però mi feci
coraggio ricordando e citando a me stesso, anche con un po’ di ironia, una
battuta della Cleopatra di Shakespeare: “the stroke of death is as a lover's
pinch [3], il tocco della morte è come il pizzicotto di un amante.
Quel pomeriggio del ‘66, passate da
un pezzo le cinque, avevo soprattutto il terrore di essere tagliato fuori
dall’amore e dalla felicità. Troppo grasso, sfiduciato e malvestito. E con
occhiali grossi e spessi. E con diversi denti cariati. Probabilmente mi puzzava
anche il fiato. E pioveva. E non era presto. Né mi sbrigavo.
Ma le mie riflessioni dolorose
avevano bisogno di indugi per osservare.
In
fondo al locale affumicato c’era un pianista terribile e miserando.
Suonava Mezzanotte a Mosca in maniera atroce. “Potrei fare una
fine del genere”, pensai. “Girare per taverne, soffrire le cimici, recitare
Leopardi: “O natura, natura, perché non rendi poi…” Oppure: “non compagni, non
voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi… oh giorni orrendi in così verde
etade!” E via lamentandomi con parole non mie. Mi sentivo come un verme
spaventato che si torce nella polvere. Oppure mi davo importanza e mi facevo
coraggio ricordando alcune parole dell’ Edipo di Sofocle: "tajma; ga;r kaka; - oujdei;~ oi|ov~
te plh;n ejmou` fevrein brotw`n”[4], i miei mali/nessuno dei mortali è capace di
sopportarli tranne me" .
Mi
aiutai anche con il ricordo di alcuni versi di Eschilo: "a volte il
terrore (to; deinovn) è un buon ispettore anche delle anime e deve restarci
a fare la guardia: giova giungere alla saggezza sotto l’angoscia - xumfevrei - swfronei`n uJpo; stevnei" (Eumenidi, vv. 517 - 519). Le verità che
dicevo a me stesso, anche le verità infelici che per anni avevo taciuto, mi
avrebbero aiutato a cambiare quella strada che portava all’inferno. L’aiuto più
grande però venne dalle persone buone. Fulvio in primis
Comunque sentivo che non ero una
persona comune, uno dei tanti, e speravo di risalire, una volta toccato il
fondo di quell’orribile abisso.
In effetti anche la melodia
sgangherata della bettola di Abony prediceva un poco di bene: qualche giorno
più tardi, a Debrecen, una ragazza russa cantò Mezzanotte a Mosca,
poi, parlando, mi diede animo dicendomi parole buone. Cominciavo a risalire la
china della sventura aggrappandomi a frasi benevole.
Mi rimisi in viaggio alquanto
disanimato.
A cinquanta chilometri dalla meta
riapparve il bellissimo volto del sole.
Mi rianimai. Sentivo entrarmi nel petto
una forza nuova.
Nonostante la paura di fare tardi,
mi fermai per chiedere aiuto al primo fra tutti gli dèi, l’occhio del cielo che
tutto vede.
“Se dopo tanta pioggia, sia pure intermittente,
arrivo in un momento di cielo sereno, questo viaggio termina con un auspicio
favorevole. Sono pronto a ricominciare. Aiutami Elio. Dio, non permettere che
una tua creatura, più buona che cattiva, soffra tanto per tutta la vita.
Stacca da me l’orribile aspetto di
suino immondo, rendimi al Gianni che sono!”[5]
Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì. Quel
viaggio nella terra dei Magiari, la Magyarország, era
voluto dal Fato. Mi avrebbe emancipato e staccato dal mio passato, dai parenti
disordinati, dall’ambiente meschino di Pesaro, e mi avrebbe messo in contatto
con le cose belle che spettavano alla mia natura prevalentemente buona e forte:
con le lettere della classicità che risana l’angoscia, con il meglio di questo
mondo, con le idee iperuranie, e soprattutto con le donne belle e fini che mi
erano predestinate. Sì, perché anche quando ero a terra le donne le pensavo al
plurale[6].
Avrei riformato il carattere,
cioè l’orientamento mio.
Il carattere buono si orienta sulla
stella polare del Bene, quello cattivo vede e ricorda solo il male. D’altra
parte un carattere buono è una cara esca[7] che
attira i buoni. Non per prenderli all’amo, questo no.
Un carattere cattivo attira e
cattura i deboli e i farabutti, come una calamita o una rete dalle maglie
malvage.
“O primo fra tutti gli dèi” ripresi
a pregare “, tu ora, dopo la pioggia, mi appari fulgente e benedici il mio
ingresso in questo nuovo mondo. Significhi che vuoi aiutarmi”.
Pensavo al dio Sole come a una una
donna bella e fine, una mamma che mi avrebbe fatto incontrare le femmine
davvero umane che mi spettavano e mi aspettavano.
Risalii nell’automobile. Il sole
calava nella puszta, a sinistra.
Non si vedevano uomini né alberi,
ma girasoli dalle teste un poco risollevate, almeno così mi sembrò, gambi di
spighe di grano,
pannocchie di granoturco che
spargevano un colore caldo e vitale,
poi foraggio, verdure, pozzi
strani, muniti di antenne lunghissime e scenografiche assai, oche e maiali
muniti di candide zanne.
Nel cielo volavano grandi uccelli
bianchi dalle ampie ali, cicogne dal becco crepitante.
note
[1] Nell’estate
del 362 Giuliano Augusto si affrettava verso Antiochia orientis
apicem pulchrum, culmine bello dell’oriente. In quei giorni si celebravano gli Adonēa, secondo
l’antico rito in onore di questo giovane amato Veneris, apri dente
ferali deleto, quod in adulto flore sectarum est indicium frugum ( Ammiano
Marcellino, Storie, 22, 9). La Morte di adone è il simbolo delle
messi tagliate quando sono mature.
[2] Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli
uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto tagliare i capelli
o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi:"oujd j eij"
balanei'on h\lqe lousovmeno""
(Nuvole , v. 837). Il Coro degli Uccelli più
specificamente qualifica Socrate come a[louto" (v. 1553), non lavato.
[3] Antonio e
Cleopatra, V, 2, 294
[4] Edipo re, vv. 1414 -
1415.
[5] Cfr. Apuleio, Metamorfosi , Depelle
quadripedis diram faciem redde me meo Lucio (XI, 2).
[6] Cfr. il personaggio
di Mefistofele nel di Goethe: “Ich sage: Fraun! Denn ein für allemal - Denk
ich die Schönen im Plural” (Faust II, 4, Alta montagna), dico
donne! poiché una volta per sempre, io le belle le penso al plurale
[7] Ecuba
consiglia alla nuora, vedova di Ettore, di offrire al padrone presente fivlon devlear sw`n
trovpwn (Troiane, 700) la cara esca dei tuoi costumi.
Andromaca stessa aveva detto che la sua reputazione di donna per bene l’ha resa
desiderabile tra gli Achei (v. 657).
A Debrecen. L’Hungaria.
Il Grande Tempio. L’ Aranybika
Arrivai a Hajdúszoboszló, “un paese dal nome lungo e difficile”, pensai come lo vidi
scritto. Un toponimo che per tanto tempo non seppi imparare e continuai a
chiamare “quel paese dal nome lungo alle porte di Debrecen”. Avrei vissuto un
amore furtivo nella grande piscina termale di quel paese nel 1970, e nel 2011
ci sarei tornato in bicicletta con Maddalena Fulvio e Alessandro amici
speciali, cioè della mia specie. Allora dimenticai il costume da bagno in una
di quelle cabine. Probabilmente speravo di tornarci. Finita la pioggia,
ricominciammo a pedalare verso Debrecen. E’ stata l’ultima volta.
Ma torniamo alla
prima. Erano le sette passate. Il sole si era già posato sulla pianura come un
uccello stanco del volo. L’aria ferma era inebriata dall’odore di miele dei
tigli.
Grazie a Dio
mancavano solo una ventina di chilometri.
Feci
un’ultima corsa e giunsi alla periferia della città quando Elio auriga aveva
già scolto i cavalli, ma solo da pochi minuti. Ci si vedeva ancora abbastanza.
Entrai nella via principale: una strada larga e battuta dal vento che sollevava
la polvere. Vi camminava gente malvestita. Anche gli edifici erano tenuti male.
Il luogo mi si addiceva, messo male com’ero anche io. Mi guardai intorno,
chiedendomi dove avrei potuto informarmi sull’ubicazione dell’Università. Vidi
un locale con una scritta comprensibile: Hungaria. Avrei preferito
il nome latino Pannonia, ma entrai. Aperta la porta, mi affacciai su una grande
sala piena di tavoli, quasi tutti occupati. Rumoreggiava un’orchestra piuttosto
chiassosa che musicale. Le pareti erano parzialmente coperte di tende bianche e
gialle tra le quali apparivano stucchi pompieristici, carta da parati
pretenziosa di raffigurare la puszta, colonne corinzie e pilastri.
Mi avvicinai a un
cameriere e gli domandai dove fosse l’Università che credevo parola
internazionale. Loro invece dicono Egyetem. Io non lo sapevo,
sicché non ci capimmo. Quello per giunta era assai affaccendato: nemmeno mi
guardava mentre cercavo di farmi comprendere, invano. Quando vide entrare un
folto gruppo di anziani, uomini e donne ilari come cinciallegre e ciarlieri, si
allontanò senza avermi risposto. Ci rimasi male assai, mi sentii umiliato da
quell’inserviente, ma gli andai dietro ripetendo la domanda in inglese e in
italiano. L’insolente, seccato, gridò: “Budapest!” accrescendo il mio
sconforto. Lo lasciai andare dietro lo sciame fitto di vecchie e di vecchi che
fingevano di non essere fuchi privi di pungiglione. Ebbi paura che nell’immensa
barbarie di quella landa remota non ci fosse alcuna università. Forse c’era
stato un equivoco colossale. Uscii con l’animo a terra. Oltretutto da Oriente
arrivava la notte.
Nella via
principale si vedevano, confuse tra loro, le ultime luci del giorno e le prime
artificiali del paese assediato dal buio. Camminai nella direzione del cielo
ancora rosso. Se avessi seguito la traccia lasciata dal sole, le sue palpitanti
vestigia per tre chilometri, sarei arrivato alla Nyári
egyetem, l’Università estiva.
“Tu scaldi il mondo, tu sovresso luci:/s’altra
ragione in contrario non pronta,/esser dien sempre li tuoi raggi duci”[1].
Questi versi però allora non mi vennero in mente.
Con il viso volto a terra cercavo orme non rintracciabili
mentre il cielo mi indicava la via vera. Guardare il cielo è sempre un buon
rimedio.
In fondo alla strada principale si trova il
grande tempio della città, una chiesa calvinista, come seppi più tardi. Era
giallo. Mi avrebbero detto che era il simbolo di Debrecen, chiamata, dicevano,
“la Roma calvinista”.
“Il cuore della città e, per quanto mi
riguardava, del mondo intero, era il tempio grande. Il tempio grande era
talmente grande che non riuscivo a misurarlo con il metro della realtà (…) La
sua facciata gialla terminava in un triangolo, le torri erano munite di occhi e
bocca con i volti umani, non ho più visto in vita mia un edificio che
palpitasse di tutta quella vita, sembrava persino che respirasse” avrei letto
queste parole cinquanta anni più tardi.[2].
Quella notte vidi solo che la chiesa era gialla e
turrita.
Mi fermai un momento.
Lì sembrava finire, anzi finiva, il centro di
Debrecen: al di là del Grande Tempio si vedeva una via deserta, alberata, buia
oramai. Un cane nero si confondeva e mimetizzava con l’oscurità. Non senza
abbaiare però. Mi fece paura quando si avvicinò. Come mi vide, fu quella bestia
a spaventarsi: tossì e vomitò.
Mi sentivo più o meno come Riccardo III: “so
lamely and unfashionable that dogs bark at me, as I halt by them”[3]
così claudicante e goffo che i cani mi abbaiano contro quando arranco vicino a
loro.
“Cane senza razza”, mi consolai.
Nel crepuscolo della sera la luce era passiva,
mentre l’oscurità attiva mi invadeva.
La tenebra mi fissava con mille occhi da
satanasso. Dovevo inserire i mostri della notte in un progetto di ordine:
armonizzare e cosmizzare il caos: lo sentivo dentro di me e temevo quello di
fuori.
Sulla sinistra, rispetto a chi guarda il tempio,
c’era un altro edificio grande, e pure animato.
Un palazzo di sei o sette piani, sormontato da
lunghi pinnacoli pseudogotici, quasi un castello, simile a quelli teatrali
fatti costruire in Baviera da Ludwig II, il lunatico re di Baviera.
Sarei andato in pellegrinaggio fino suoi castelli
teatrali quindici anni più tardi con Ifigenia, per Pasqua, in un estremo tentativo
di riconciliazione e resurrezione.
Sopra il portone dell’ingresso formicolante,
nereggiava un’insegna fatta di pezzi disposti a formare un cerchio. Mi
avvicinai. La semicirconferenza superiore era costituita dalle lettere H O T E
L, l’nferiore da quelle più piccole e fitte di una parola lunga e illeggibile.
Mentre cercavo di chiarirmi la scritta incompresa, questa si accese con
un’esplosione di luce. La parola strana era Aranybika, la figura interna
al cerchio quella di un toro. Significa “toro d’oro” come seppi più avanti. Mi
venne in mente la maxima victima di Virgilio[4].
Era un segno di sacrificio. Dovevo ammazzare la bestia dentro di me.
Entrai nell’atrio che brulicava di gente diretta
al ristorante con pista da ballo.
Andai dall’altra parte dove c’era il portiere, un
uomo d’aspetto civile. Gli domandai se parlasse italiano. Con mia sorpresa
rispose di sì. Contento di tale successo, gli chiesi dove fosse l’università.
Mi presentai quale studente borsista, dell’Università di Bologna.
Non sapevo ancora, ma lo speravo, che le vere
borse di studio sarebbero state le donne che avrei amato a Debrecen[5].
Il portiere mi rispose che di notte il collegio
era chiuso: potevo andarci la mattina seguente; lui mi avrebbe indicato la
strada. Intanto potevo dormire nell’hotel, per venti dollari.
“Con quell’ ambiguo sorriso da prosseneta, tira a
fregare” pensai. “Un collegio universitario dove gli studenti mangiano e
dormono, non può essere chiuso alle otto e mezzo. Però non ho scelta: in questo
paese da solo, di notte, non me la cavo”.
“Va bene”, dissi, “prendo una camera”.
Gli diedi il passaporto e il denaro. Poi gli
chiesi di spiegarmi comunque, subito, dove fosse l’Università. Mi allungò la
chiave, e, con riluttanza, disse che dovevo prendere il tram numero uno nella
direzione del grande tempio. Cercai la camera per posarvi il bagaglio ma non la
trovavo. Mi sentivo incluso in un labirinto di nuovo genere[6].
Dovetti tornare indietro per farmi indicare la
stanza una seconda volta. Dopo l’estorsione dei dollari, quel portiere di notte
mi era diventato antipatico. Anzi, tutto l’ambiente di quell’hotel pretenzioso
e pitocco mi era poco simpatico. Mi sarebbe diventato simpaticissimo dopo le
cene di corteggiamento ben fatto a Helena nel ’71 , poi a Kaisa nel ’72.
note
[1] Dante, Purgatorio.
13, 19 - 21
[2] Parole di Magda Szabó, la scrittrice di Debrecen cui è ora intitolato il caffè
dell’Arany bika. Non ricordo però da quale dei suoi romanzi abbia tratto questa
citazione.
[3] Shakespeare, Riccardo
III, I, 1
[4] Georgiche, II,146
- 147: "et maxima taurus/victima" .
[5] Cfr. Tess of
the D'Ubervilles di T. Hardy, dove Angel Clare si rivolge a Tess
dicendole: "darling, the great prize of my life - my Fellowship"
(XXXII), cara, il più grande premio della mia vita, la mia borsa di studio.
[6] Cfr il timore di Encolpio:"quid faciamus homines miserrimi et
novi generis labyrintho inclusi, quibus lavari iam coeperant votum esse? "
( Satyricon, 73), cosa possiamo fare uomini disgraziatissimi e
rinchiusi in un labirinto di nuovo tipo, per i quali lavarsi già cominciava ad
essere un miracolo ?
Si udivano lupi
ululare e iene sghignazzare nell’ombra
Pensai di verificare
subito l’informazione di cui diffidavo. Salii sul tram numero uno in
direzione dell’Università, ma, superato il grande Tempio, le rotaie si
allungavano in una strada spaventosamente nera e deserta. Scesi alla prima
fermata e tornai indietro di corsa, per quanto me lo consentiva l’obesità.
Durante il viaggio
avevo schiacciato qualche bestiola anche sotto le ruote e mentre correvo su
scarpe leggere temevo il contrappasso: che dei porcospini ruzzolassero sotto i
miei piedi dalle scarpe di tela e rizzassero i loro aculei dentro il calcagno
appoggiato e oppresso dal peso della mia pancia deformemente superfetata,
facendomi lanciare grida di dolore tanto forti da impietosire le stelle.
Sentivo delle cagne o
dei lupi ululare nell’ombra. Altri versi forse sghignazzi come di iene affamate
si aggiravano nell’aria con il canto di orrore dei gufi senza accompagnamento
della cetra che non suona mai presso chi è già vicino a morire . Ne ebbi paura.
Mancava solo lo strazio delle stridule strigi.
Per fortuna non
perdevo sangue altrimenti quei cacciatori feroci avrebbero potuto seguire la
traccia delle gocce dense sbranandomi come un cucciolo indifeso di cerbiatto.
Mi vennero in mente
dei versi che avevo appreso da una citazione di T. S. Eliot, morto il giorno
prima che io dessi finalmente l’esame di letteratura inglese: “But keep the
wolf far hence, that's foe to men,/For with his nails he' ll dig them up
again"[1].
Bastava dunque allontanarsi dai mostri della notte, uscire dal buio, tornare
nell’ambito dell’umano.
Finalmente arrivai
nella luce del corso. Il suo bagliore non era sinistro.
Non avevo la forza di
saltare la cena ma non volevo mangiare all’Aranybika.
Preferii
tornare all’Hungaria dove il cameriere era più rozzo del necessario, e
sgarbato, ma non truffaldino e ricattatorio. Così al primo impatto il toro
d’oro, mi diede un piccolo dispiacere. Provengo da gente parsimoniosa e lo sono
anche io, ma, più che per i venti dollari, ero dispiaciuto per la truffa e il
ricatto di quel guardiano ambiguo.
Eppure non ero del
tutto scontento: intanto avevo trovato una camera e un letto dove passare la
notte. Giunto sulla strada principale anzi mi consideravo salvo e mi sentivo quasi
contento Il laccio della mente si stava sciogliendo. Guardavo la scritta
luminosa Aranybika e stenebravo le lunghe ombre mentali della paura.
Forse già presagivo
il bene che mi avrebbe fatto quel luogo: con il passare del tempo, anni di tempo,
e nel lungo progresso della mia persona, proprio lì, nel grande hotel della
città universitaria, avrei vissuto diverse ore piacevoli e importanti per la
mia crescita, in compagnia di alcune delle donne belle e fini che dovevano
stimolarmi a maturare, a diventare una persona non infelice, non brutta, non
cattiva. Adesso il grande albergo di Debrecen è un monumento duraturo più della
sua materia, un tempio edificato dentro l’anima mia. Contiene la memoria di
alcune tra le ore più intense della mia gioventù, un ricordo che nei momenti
difficili in quanto deserti di affetti, mi incoraggia a procedere verso tempi
migliori che, come quelli meno buoni del resto, ricorrono sempre. Rebus cunctis inest quidam velut orbis[2].
note
[1] J.
Webster, Il diavolo bianco (del
1612), I, 2., ma tenete ma tenete lontano il lupo, che è nemico degli
uomini, altrimenti con le sue unghie li dissotterrerà.
Avevo
preparato maniacalmente questo esame, data la mia tragica insicurezza. Presi 30
e lode e il giorno dopo salii a San Luca a piedi. Cosa di cui oggi, ciclista
annoso, mi vergognerei. Quella salita piuttosto dura deve essere scalata in
bicicletta, nel minor tempo possibile.
[2] E’
l’idea del ciclo che Tacito applica ai costumi :"Nisi forte rebus cunctis
inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum
vertantur "(Annales ,
III, 55), a meno che per caso in tutte le cose ci sia una specie di ciclo, in
modo che, come le stagioni, così si volgono le vicende alterne dei costumi.
All’Hungaria tornai a essere preda
della dismisura insensata: mangiai molto, carne e tante patate in umido, senza
fame siccome durante il giorno, viaggiando, avevo inghiottito pane e
cioccolata.
“Mangiare - pensavo - è il verbo più negativo che
esista, e ingozzare come sto facendo è l’atto più tragico che esista. Ma
non posso farne a meno.”
Intanto dalla mia bocca usciva da una parte
e dall’altra una zanna come di porco[1],
e in più cariata.
Altra gente intorno a me ingoiava con ingordigia.
Unti entravano nelle fauci i bocconi. Per la
fretta frenetica alcuni pezzi cadevano dalle labbra nel pavimento[2].
Ogni tanto qualcuno entrava in bagno con la
pancia gonfia del cibo non digerito. Il più malandato di costoro non ne uscì
con le sue gambe[3].
Vennero a prenderlo degli infermieri e lo portarono via disteso, poi lo
caricarono sull’ambulanza.
A un certo punto i miei intestini cominciarono a
fare rumore e dovetti correre nella latrina. Nemo nostrum solide natus
est [4],
pensai liberando le budella dall’aria fetida. Sebbene degradato a condizione
bestiale, non avevo osato avvalermi dell’editto preparato dall’imperatore
Claudio , quo veniam daret flatum crepitumque ventris in convivio
emittendi [5].
Tornai nella sala da pranzo, ructabundus e
mezzo briaco.
Osservavo le facce attonite e rubiconde dei miei
vicini.
Le loro vite e la mia avevano lo scopo di fare da
filtro a cibi e bevande, fino che ci rendevano infermi, infarciti come eravamo
di schifezze e porcherie.
Il motivo di quel rimpinzarsi era
l’infelicità esistenziale, in particolare quella sessuale. I felici non sono
ghiotti. “Per me è impossibile chiamare vorace uno dei beati: me ne tengo
lontano”, avevo letto nell’Olimpica I di Pindaro[6].
Lo ricordai e lo riferii a me stesso, con pena.
Facendo così, mangiando da porco immondo, rendevo
sempre più difficile la soluzione del problema di fondo: il buon esito della
ricerca di una femmina umana. Non ne avevo chiara coscienza, ma ne sentivo
l’angoscia mentre mi ingozzavo senza fame né tregua. Non riuscivo a tenermi
lontano da quel vizio che faceva parte della generale perversione e contorsione
- diastrofhv - della mia natura: finito il liceo aveva perduto l’ojrqo;"
lovgo" la ragione che deve mantenersi diritta di fronte a qualsiasi
lusinga e pure a ogni dolore. Mi ero snaturato quasi del tutto. Il cibo
funzionava come un anestetico pessimo che toglie ogni sensibilità tranne quella
del dolore. Forse attraverso quel mangiare smodato volevo raggiungere il peso e
l’insensibilità di un bove, poi scoppiare.
"Semibovemque virum semivirumque bovem "[7],
mormorai.
Ci voleva una diovrqwsi", un
raddrizzamento, una correzione, e questa poteva venire solo dall’amore di
persone buone. Il seguito della storia di Debrecen me le farà conoscere e io a
voi. Per educarvi.
Quando quel cibo pesante mi ebbe riempito fino
alla gola, con fatica mi alzai e uscii.
Tornai all’Aranybika e andai a letto con
l’angoscia di non farcela il giorno seguente a trovare l’università, o, se pure
l’avessi trovata, a inserirmi tra le ragazze e i ragazzi: tutti certamente più
belli, meno infelici, meno grassi, meno miopi, meno cariati e sconciati, meno
colpevoli e soprattutto meno insicuri di me.
La mattina mi alzai e uscii dall’albergo per
tempo. C’era il sole e il corso brulicava di gente.
Con l’automobile mi avviai nella direzione
indicata seguendo i binari del tram numero uno, l’unico invero dell’unica linea
tranviaria, che, girando ellitticamente, collega la stazione all’università e
viceversa: Egyetem - Pályaudvar - Egyetem: i due fuochi dell’ellisse di
ferro.
La luce mi confortò. “jAnovrqwson seautovn” sussurrai, “raddrizza te stesso: ‘adesso mi chiama il
destino’, direbbe un personaggio della tue tragedie”.
Drammatizzarmi
mitizzandomi è sempre stata una mia tendenza, ereditata o presa per mimesi da
mamma e da zie. Le seduttrici mentali.
note
[1] Cfr. Dante Inferno XXII,
35.
[2] Cfr. Persio,
Satira III, 102 “Uncta cadunt laxis tunc pulmentaria labris”
[3] Cfr.
Giovenale, Satira I, 142 - 144
Poena
tamen praesens, cum tu deponis amictus,
turgidus
et crudum pavonem in balnea portas:
hinc
subitae mortes, però la punizione è presente, quando deponi le vesti gonfio e
porti nel bagno il pavone non digerito: di qui morti improvvise
[4] Satyricon 47.
Sono parole di Trimalchione
[5] Svetonio Vita di
Claudio, 32
[6] ejmoi;
d j a[pora gastrivmagon makavrwn tinj eijpei'n: ajfivstamai (52 - 55)
[7] Ovidio Ars
amatoria (II,24).
Al
di là del tempio cristiano la strada entra nell’ombra di grandi alberi che via
via si infittiscono fino a formare la foresta nel cui centro c’è il collegio
dove avrei passato il mese seguente cercando di restaurare la mia vita in
rovina.
Sarei
andato spesso a camminare nel bosco fitto di alberi antichi, il frequens
lucus, che circonda il complesso universitario.
Il
secretum loci, la solitudine del luogo arcano, mi avrebbe aiutato a
riflettere sugli errori fatti terminato il liceo, a correggerli, a risollevarmi.
Ero
venuto in odio a quasi tutti per il narcisismo mio deleterio.
Alla
fine del corso, una scuola di raddrizzamento della vita, sarei arrivato a
pensare: “Ora devo amare me stesso non più e non meno di quanto amo gli altri
della specie che è la mia: didici esse infelix” - ho imparato a
essere infelice, ho già sofferto tutto, e adesso voglio e devo apprendere quid
sit felicitas. Dal dolore ho capito e appreso tanto da poter diventare un
maestro rivelatore del male da evitare per giungere al bene. Il primo male che
devo indicare chiaramente, dei`xai
safw`" , e con dito diritto, è la deviazione da se
stesso, lo smarrimento della propria identità per mancanza del coraggio di
essere strano, diverso dai più”. Nel mese dell’Università estiva avevo incontrato
ragazze e ragazzi della mia razza spirituale. Mi avevano consentito di essere
me stesso, e incoraggiato a diventarlo del tutto.
Dopo
circa tre chilometri, la mia scassata Seicento sbucò in una radura assolata
dove vidi un grande edificio di stle neoclassico con la scritta sesquipedale e
incomprensibile Orvostudomáyegyetem.
Sorgeva
in una piazza vasta dove il tram numero 1 era in sosta: non sapevo se voluta, o
dovuta a una qualche paralisi.
Pensai
di essere arrivato all’Università estiva della mia borsa di studio. Parcheggiai
l’automobile, attraversai un portone monumentale, entrai nell’atrio e proseguii
verso il giardino dove si affacciano porte e finestre. Cercavo una segreteria
plausibile dove presentarmi e ricevere l’alloggio che mi spettava. Ma tra i
fiori e le erbe camminavano a stento, o sedevano sulle panchine, diverse
persone per lo più anziane e malandate. In pigiama per giunta. Altri, meno
vecchi e malmessi, vestiti con camici bianchi, giravano affaccendati. Capii che
ero finito nell’ospedale di Debrecen, forse il nosocomio di tutta la puszta .
Ero ancora assai dubitoso.
Mi
domandai: “Buon segno o presagio sinistramente ominoso, annunciatore dello
sfacelo definitivo?”
Poi:
“Debrecen dove mi sono ospedalizzato senza volerlo, sarà il luogo della mia
guarigione, oppure la mia decadenza è irredimibile, la caduta precipitosa, a
testa in giù, è irreversibile, e la puszta è la meta
dell’ultimo viaggio? Ho percorso 1200 chilometri così laboriosi per arrivare a
una tomba sperduta?
Et
mihi tantum de funere iter?[1]
Chiuso
in una nicchia anonima di un colombario gelido e remoto chi mai mi dirà: “Vale,
passando, e ti sia lieve il suol?”.
Aggiunsi
altre domande del genere con un pizzico di ironia per non scivolare
nell’eccesso vociferante della posa tragica che rischia di assumere maschere
così deformate da apparire ridicola.
Ricordando
tali quesiti, ora sorrido di quella infelicità attenuata da un barlume di intelligenza
e dalla volontà di capire. Il tempo, invecchiando con me, mi avrebbe dato la
visione del panorama vasto e vario formato dagli anni passati. Ora comprendo
che i presagi sono sempre buoni per le persone buone e intelligenti, basta
capirne il significato notarne i nessi. Adesso capisco che è possibile
districare la rete dell’acciecamento e uscirne. Nulla avviene per caso. I fatti
interferiscono insieme. C’è una series causarum, una concatenazione
di cause, eiJrmo;"
aijtiw'n. Tutto è causato e accade necessariamente, nulla è
casuale. Quello che appare eventum , elemento accidentale, è
di fatto coniunctum, è una conseguenza ed è una nuova causa di
un’altra conseguenza, e così via. Lo capisce l’intelligenza, la suvnesi" che è la
capacità della mente di avvicinare cose anche lontane nello spazio e nel tempo.
Tutta la natura è congeniale a sé, imparentata con se stessa come mi ha
suggerito Platone[2].
I
libri mi hanno aiutato. Anche le donne, fin da bambino: in casa le zie, la
mamma e la nonna disprezzavano e maltrattavano i maschi adulti , ma tenevano in
pregio me perché ero bravo a scuola. Poi altre donne via via: grazie al mio
carattere formato anche sui libri buoni letti e imparati. Via via ho appreso a
parlare, ascoltare, comprendere.
Quella
mattina antica e piena di significati, ricordai la preghiera di Ecuba
nelle Troiane di Euripide portate all’esame di maturità tre
anni prima, la contaminai con un’espressione dell’Agamennone di
Eschilo, alzai gli occhi al cielo e mormorai:” Dio , chiunque tu sia[3], difficile da
conoscere, sia necessità di natura, sia intelligenza dei mortali [4], aiutami”.
Un
uccello dalle ampie ali attirò la mia vista: pensai che fosse una risposta,
un o{rni" profetico,
e chissà, forse pure ai[sio"[5].
Cinque
anni più tardi, nel 1971, in quell’ospedale accompagnai Elena che aveva
bisogno del mio aiuto e me ne fu grata assai, favorendo il mio definitivo riscatto
dall’infelicità. Ero tornato in quel nosocomio, ed ero entrato nel reparto
delle donne pregnanti e malate, non più per sbaglio ma per aiutare una donna
che a sua volta mi avrebbe aiutato. Le rimasi vicino, facendole animo, finchè
ne ebbe bisogno. L’immagine di lei è imasta sempre dentro di me.
Ora
comprendo che essere uscito subito dal nosocomio dopo esserci entrato per
sbaglio quella prima volta nel luglio del ’66 , non fu un fatto casuale ma il
segno che non volevo più rimanere adagiato sulle malattie del mio spirito
riempiendo la vita mia e quella prossimo mio con querimonie noiose, distruttive
e plebee. Ho voluto fartene parte lettore, per indurti a bandire la tue.
Ma
torniamo a quell’estate remota. A uno dei biancovestiti domandai dell’Università,
in inglese. L’ospedaliero con il dosso della mano destra mi fece segno di
uscire e di girare a destra.
“Segno
purgatoriale” [6] pensai. Ero
sulla strada buona: quella di intendere i segni.
note
[1] Cfr.
Lucano, Pharsalia V, 811
[2] Th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'"
ou[sh", Menone, 81d.
[3] Cfr.
Eschilo, Agamennone 160. E’ il canto del pavqei mavqo~ (v. 177)
[4] Cfr.
Euripide, Troiane, 886 - 887
[5] Favorevole .
cfr. Sofocle, Edipo re, v. 52
[6] Cfr.
Dante, Purgatorio, III, 100 - 102: “Così il maestro; e quella gente
degna/ ‘tornate’ disse; ‘intrate innanzi dunque’/coi dossi della ma faccendo
insegna”
L’alloggio
nel collegio nel 1966. Il ritorno in bicicletta nel 2011
Proseguii
a piedi. Fatti duecento metri vidi e riconobbi, riconosciuto a mia volta
sebbene fossi male in arnese, alcuni studenti della facoltà di Lettere di
Bologna che, arrivati la sera prima, si erano già sistemati.
Quindi
mi accompagnarono fino al collegio poco distante dandomi buone notizie
sull’ambiente, immagino per incoraggiarmi. Si vedeva che ne avevo bisogno. Nell’ultimo
breve tratto della lunga tasferta venni aiutato da quei Samaritani mossi
visceralmente[1] a compassione
dal mio aspetto devastato.
Ero
stato altresì assistito dal destino, poiché dietro a tutto c’è il Fato, "cum
fatum nihil aliud sit quam series implexa causarum" [2], dal momento che il
fato non è altro che la serie concatenata delle cause.
Sicché
tornai a recuperare l’automobile, e finalmente potei presentarmi alla
segreteria, quindi alla ricezione dove mi assegnarono un posto in una camera a
quattro letti. Il viaggio di 1200 chilometri iniziato a Pesaro due giorni
prima, e svoltosi tra alcune speranze e mille terrori, infine era giunto alla
meta.
Non
sarebbe stato tanto faticoso, mentalmente, quando lo avrei ripetuto in
bicicletta nel 2011, cioè quarantacinque anni più tardi quando pure precipitai
a testa in giù dentro un fosso profondo, con la bici sotto di me e sopra di me
lo zaino, oltre il buon Dio che mi protesse. Grazie a Lui, chiunque Egli sia, il
fosso era erboso, e l’avello suburbano di gianni ghiselli non si trova a
Nagykanizsa la cittadina situata tra il confine della terra magiara e il lago
Balaton. Forse l’eterno riposo sarà Sansepolcro.
Dopo
la caduta sollevai il fianco già antico e raggiunsi di nuovo la meta con
Fulvio, il vecchio amico, e i due amici giovani, gli ex allievi Maddalena e
Alessandro conforti della nostra vetustà.
Superati
gli anni della sciagura, anche grazie agli incontri fatti nell’Università
estiva di Debrecen, le cose mi andarono bene, sempre meglio. Quasi
invulnerabile come Achille sarei diventato. E vecchio per giunta.
Finito
il liceo, mi aveva oscurato la visione del mondo e di me stesso la mancanza e
la necessità della gioia amorosa. Chi ne è orbato perde di vista ogni gioia. Le
poesie di Leopardi sono belle per chi le legge, ma per l’autore furono
consolazioni piccole e momentanee, credo, tali che sicuramente non compensavano
il premio grande, davvero olimpico, cui il poeta aspirò per tutta la vita per
il suo genio: nei desideri dovette sostituire quella brama con l’amore della
morte, “bellissima fanciulla - dolce a veder” ma non tanto bella e dolce quanto
le fanciulle e le donne osservate, ammirate, pensate a Recanati e altrove,
sempre senza uno straccio di contraccambio.
Non
sente il gusto della vita chi non assaggia quel sapore che ci assimila agli
dèi, “perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve
intervallo superata dalla divina”[3].
Ma
torniamo a quel mattino antichissimo. Ti ricordo, lettore novello, che era il
luglio dell’anno di mia salvazione 1966. Quando ebbi ricevuto il posto del
necessario ricovero per il mese seguente, cercai ansiosamente di inserirmi tra
gli altri giovani del corso estivo. A cominciare dagli italiani maschi con i
quali per lo meno riuscivo a parlare senza incepparmi. Del resto non feci nulla
per nascondere la mia debolezza, non ne ero capace, né lo volevo, e mi resi
compassionevole manifestando le paure che mi assillavano da quando, terminato
il liceo tre anni prima, avevo smarrito la mia identità di ragazzo molto bravo
a scuola, ottimo pure nelle corse a piedi e in bicicletta, e non ne avevo
trovata un’altra. Non potevo: un’ identità altra era quella di altri o degli
altri, non era la mia. Un’identità gregaria che mi metteva a disagio e mi dava
dolore più di una maschera o una scarpa stretta. Dovevo ritrovare quella
originaria, adatta alla mia natura, a me congeniale: essere bravo in quanto
facevo, ossia fare quello per cui ero dotato, lo studio e lo sport, a livello
più maturo, più alto e proficuo. Primeggiare in favore degli altri, a partire
dagli ultimi disprezzati dalla canaglia che aveva maltrattato me per tre anni.
E
arrivare a piacere alle donne, le mie vere borse di studio, i premi reali delle
gare vinte. Per raggiungere questo podio davvero olimpico era necessario
incontrare persone, soprattutto femmine umane che apprezzassero le qualità mie
e mi motivassero a potenziarle. E’ bene sviluppare il proprio genio. Chi lo
tradisce va inevitabilmente in rovina. Quelle che mi hanno capito e amato di
più, le più intelligenti e congeniali a me, hanno detto “tu sei un genio”,
provocandomi a dimostrarlo con tutti i mezzi, con tutte le forze a
disposizione.
note
[1] Cfr. N.
T. Luca, 10, 33 “Samarivth" de;
ti" ojdeuvwn h\lqen kat j aujto;n kai; ijdw;n ejsplagcnivsqh”.
[2] Seneca, De
beneficiis, IV, 7
[3] G.
Leopardi, Operette morali, Storia del genere umano.
L’incontro
con i tre contubernali diventati e rimasti amici. Fulvio di Parma, Danilo
di Bassano del Grappa, Luigi di Roma
Entrato
nella camera 4 del III piano del collegio numero uno, dunque, scoprii subito le
mie carte bassissime che non volevo coprire con mano tremante; del resto non
sarebbe stato facile tenerle nascoste dietro l’aspetto rovinato dall’infelicità
e con il mio comportamento drammaticamente insicuro. La grande, totale carenza
di felicità traspariva da tutti i miei atti “d’allegrezza spenti”[1].
Ma
Dio che mi aveva guidato fin lì, mi aiutò: i miei contubernales [2] erano persone
buone: mi diedero la mano di cui avevo bisogno per cominciare la risalita
dall’abisso scosceso e dirupato della sventura. Tra questi c’era Fulvio di
Parma che sarebbe diventato il mio amico migliore, poi Danilo, un ragazzo
veneto, studioso eppure ebbro di incontenibile gioia, almeno così mi sembrò, e
Luigino un dolce ragazzo di Roma, molto sensibile, intelligente, colto e capace
di comprendere le difficoltà del prossimo suo, come le proprie. Fulvio mi
piacque subito molto. Mi sembrò che osservasse le cose e le persone per
meditarci sopra, invece di spiarle per impossessarsene, usarle o sottometterle,
come fa la gente volgare.
Aveva
due anni e mezzo più di noi altri e un modo di fare, uno stile assai più
maturo. Lo scelsi come l’educatore, il padre, il maestro e l’ amico di cui
avevo un grande, insoddisfatto bisogno. Le sue parole non erano mai prive di idee
e sentimenti: quell’uomo non era vago di ciance e ostile al pensiero, come
tanti omuncoli e diverse donnicciole incontrati sia a Pesaro sia a Bologna.
Anche Luigino e Danilo mi piacquero. Tutti e tre erano degli studiosi capaci di
apprezzare letture e cultura. Da loro capii di averle colpevolmente trascurate
per insensato timore della mia diversità dalla gente usuale.
“Una
gente - zotica, vil; cui nomi strani, e spesso - argomento di riso e di
trastullo - son dottrina e saper”[3].
Quei
ragazzi, se citavo un verso di Virgilio o di Euripide o di Leopardi, non mi
sbeffeggiavano, anzi mi approvavano e incoraggiavano a continuare o a ripetere.
Quando dissi a Fulvio che non fumavo, mi fece dei complimenti ripagandomi degli
insulti che ero solito ricevere dagli imbecilli per quella che secondo loro era
una colpevole carenza di virilità.
Fulvio
mi fece capire che la mia diversità dai più, la sensibilità alle persone, alle
parole e ai fatti, la memoria che mi consentiva di citare i poeti in italiano,
in greco, in latino e in inglese, erano qualità, non difetti come sostenevano
i rustici nimium del natìo borgo selvaggio dal quale ero
partito così desolato.
Fui
subito bendisposto verso queste persone tanto differenti da quelle che avevo
preso la cattiva abitudine di frequentare: queste non mi avrebbero umiliato né
deriso, né ferito, siccome non erano di uno stampo del tutto differente dal
mio. Fulvio era di destra, gli altri due di sinistra e avremmo fatto anche
discussioni accese, ma eravamo tutti e quattro tendenzialmente, anzi
sostanzialmente diversi dal borghesuccio che pensa a fare denaro e a combinare
affari. A loro tre, come a me, interessavano l’amore, la bellezza, le idee, più
delle cose materiali: vestiti, automobili, mobili padelle, o altre minuzie[4]. Avevamo bisogni
spirituali innanzitutto e nessuno di noi è diventato un filisteo un “a[mouso" ajnhvr", un uomo
estraneo alle muse”[5], uno di quegli
individui “continuamente affaccendati nel modo più serio attorno a una realtà
che non è tale (…) Di conseguenza le ostriche e lo champagne[6] sono il punto
culminante della sua esistenza”[7].
Spero
che questi amici, Fulvio già defunto con mio grande dolore, quindi Luigi e
Danilo, ancora al mondo grazie al buon Dio, dove prego che ci conservi tutti e
tre ancora a lungo, non me ne vorranno se ricordando i nostri vizi e le nostre
virtù non ho cambiato i loro nomi a me cari come le loro persone. Un abbraccio
forte a tutti. Vi chiedo di nuovo scusa se più avanti, dopo queste parole di
affetto, non vi risparmierò canzonature e motteggi. Lo facevamo anche allora
dopo avere preso confidenza, e volendoci bene. Del resto il motteggiare
l’abbiamo preso dai nostri autori greci e io non l’ho mai risparmiato a me
stesso, prima di tutti.
note
[1] Cfr. F. Petrarca,
XXXV, sonetto XXVIII.
[2] Compagni di
camerata . Cfr. Seneca Ep. 47, quella su gli schiavi.
[3] G.
Leopardi, Le ricordanze, 30 - 33
[4] Plutarco,
nella Vita di Solone, racconta che il saggio legislatore ateniese
disprezzava la ajpeirokaliva,
l'ignoranza del bello e la mikroprevpeia (27,
20), la meschinità di Creso che si era presentato coperto di gioielli e
d'oro. Luciano in Come si deve scrivere la storia (scritto tra
il 163 e il 165) fa questa osservazione: “Vi sono alcuni che
trascurano completamente, o appena sfiorano, fatti grandi (ta; megavla) e invece, per
rozzezza (uJpo; de;
ijdiwteiva"), mancanza di gusto (ajpeirokaliva"), e ignoranza (kai; ajgnoiva") di quello che
va detto o quello che va taciuto, si attardano a descrivere nei minimi dettagli
le cose più trascurabili (ta; mikrovtata,
27)”. L’ajpeirokaliva è
lo stesso difetto che il filosofo Nigrino di Luciano attribuisce ai ricchi
Romani, i quali si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro
cattivo gusto: pw'" ga;r ouj
geloi'oi me;n oiJ ploutou'nte" aujtoi; ta;" porfurivda"
profaivnonte" kai; tou;" daktuvlou" proteivnonte" kai;
pollh;n kathgorou'nte" ajpeirokalivan; “Come fanno a non
essere ridicoli i ricchi con le loro stesse persone dal momento che mentre
mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita delle mani,
denunciano il loro cattivo gusto?” (Nigrino, 21).
[5] A. Schopenhauer
[6] Peggio ancora
quel vero e proprio “anticibo” che qui a Bologna amano e chiamano “lasagne”.
Nelle Marche “vincisgrassi” che sono meno mangiati e pure meno schifosi e nocivi
Quando me lo portano a casa, dico che non ho fame e rimasto solo, lo butto
nella spazzatura. Ndr.
[7] Schopenhauer
Op. cit., p. 463
Il
prato tra i due collegi dell’Università di Debrecen
Sistemai
alla meno peggio la roba, piuttosto brutta poiché in quel tempo le imperiose
donne di casa mi avevano concesso, per carità, la vecchia automobile e un poco
di soldi, però continuavano a mandarmi in giro malconcio, quando invece la mia
insicurezza tragica avrebbe tratto conforto dal potermi presentare meno
malmesso. Mentre mi avviavo a uscire dalla stanza, salutai i tre compagni
dicendo che ci saremmo rivisti all’ora di pranzo. Fulvio ricambiò cordialmente
e sobriamente con “Ciao gianni, ci vediamo più tardi”, rendendomi lieto solo
con il nominarmi, siccome allora ero disgraziato al punto che quasi nessuno mi
chiamava per nome quando esigeva la mia attenzione o voleva impormi dei
servigi, ma usavano il cognome o nomignoli spregiativi cui rispondevo tanto ero
precipitato in basso, spinto da vari colpi, compresi quelle che mi infliggevo
da solo. Erano i pizzicotti della morte e oramai volevo sostituirli con quelli
di un’amante.
Luigi
mi salutò con un triplice ciao e con gesti teatrali della mano sinistra,
dandomi altro coraggio; Danilo accompagnò la mia uscita con una fragorosa
girandola di “caro da Dio, Dio caro, vieni benedetto, vieni a pranzo con noi,
così faremo la bevutina della conoscenza degli scavezzacolli bevitori. Dobbiamo
festeggiare e consacrare con Dioniso questo incontro benedetto da Dio!” Fu in
quel momento preciso che cominciai a vedere il lui il tipo o la maschera tipica
del veneto, vini avidum genus, ma non mi dispiacque, e anzi
continuavo ad apprezzare in lui una forma gioiosa di ebbrezza, messa per giunta
in rilievo dal rosso del volto che credevo acceso dal sole.
Uscii
dal collegio per esplorare l’ambiente e guardare le studentesse arrivate da
ogni paese non fascista d’Europa. Mancavano infatti solo le Iberiche e le
Greche, non invitate nella repubblica popolare Magiara per via dei loro regimi.
Speravo che i miei sguardi da accattone, mendicante dell’amore, venissero
contraccambiati. Come si raccomandavano gli occhi con tutta la loro miopia!
Sapevo che l’avverarsi di quel desiderio era possibile solo molto remotamente,
ma ero pur arrivato in un mondo davvero strano e remoto, un luogo dove mi
avevano invitato a pranzo chiamandomi per nome, trattandomi da essere umano,
non da bestia sacrificale o da mostro da rigettare nell’inferno come facevano
quasi tutti negli ultimi anni, perciò nulla era del tutto impossibile, nemmeno
che una donna bella e fine guardasse me imbruttito e avvilito parecchio.
Ma
le speranze vennero contraddette dal fatto che le fanciulle italiche, galliche,
o scitiche, o iperboree che fossero, non mi guardavano punto, né mi facevano
torto siccome avevo la pancia, una linea da pinguino rimbecillito,
un’espressione torbida dietro gli occhiali con lenti simili a fondi di
bicchiere da cucina povera, i capelli luridi misti a festuche e forse pure a
zecche, e la pelle tutta foruncolosa. Per giunta avevo indosso una maglia rossa
sgualcita e sdrucita, il purpureum vestimentum di chi è stato
maltrattato a lungo dagli uomini e dalla vita. Non avevo in testa la corona
spinea del Cristo, tuttavia un’anziana di passaggio, forse una
professoressa, indicandomi a un tale e disse: “Ecce homo”[1]. Non me ne offesi,
anzi, nell’ottimismo del momento, pensai “ buon segno: significa che tra pochi
giorni risorgerò”.
Non
mi guardavano dunque le giovani donne, ma io le ammiravo lo stesso. Mi venne in
mente “non io, non già ch’io speri vi ricorro allo sguardo”[2], ma ricacciai presto
il pensiero malato e lo corressi con il farmaco buono che Fulvio, Luigi e
Danilo mi avevano donato.
Guardando
le femmine umane pensavo: “la terra è in mezzo alle stelle e qui sulla terra ci
sono tali creature variopinte come la vita, profumate non meno dei fiori che
costellano i prati. Non cederò, non rinuncerò mai alla speranza di partecipare
a tanta bellezza, a tanta grazia di Dio. Mi erano venute in mente di nuovo
queste due parole del’irriducibile eroe figlio di Tetide, cedere nescius.
Sul
prato davanti al collegio si trovava un gruppo di fanciulle. Erano giovani
femmine umane policrome poiché avevano non solo gli abiti estivi variopinti con
diversi colori, ma di colori diversi avevano anche i capelli folti e le
epidermidi, pur tutte lisce e splendidamente abbronzate.
Le
ragazze sedute o distese, o inginocchiate, o erette sull’erba venivano da varie
parti d’Europa: dalla gelida Scandinavia, dalle grandi distese sarmatiche,
dalle bianche, piovigginose scogliere del nord, dalle calde, brunite penisole e
isole del mare nostro solare. “Diverse - pensai - ma belle son tutte kalai; de; pa'sai[3], creature di gioia e
di poesia”.
Quel
prato così variegato dalle ragazze e illuminato con forza dai raggi del sole,
quel verde screziato dai fiori, perfino le dense ombre meridiane stampate dalle
femmine stesse, dai bassi cespugli e dalle alte querce, alberi antichi, di
maestà dodonèa, vocali e profetici quando le foglie venivano mosse da un vento
di paradiso che poi accarezzava anche i lunghi capelli delle fanciulle simili
ai fiore del croco o del giacinto[4], tutto quel luogo
sarebbe diventato nella memoria uno dei sacrari del mito, della poesia di
Debrecen e della mia gioventù.
Lì
avrei giocato a palla e mi sarei abbronzato a mezzo il giorno dopo le ore di
lezione, lì avrei cantato con gli amici e le amiche sotto la luna rugiadosa che
cospargeva di perle le nostre teste contente, di lì avrei guardato le donne
belle e fini che volevo tutte per me: Eva, Helena, Kaisa, Paivi, prima con
ansia, poi rassicurato dal loro comportamento, con gratitudine a Dio, a me
stesso e soprattutto a quelle creature. Ed ero felice.
Ma questa
meravigliosa situazione dovevo provocarla e costruirla con il tempo utilizzando
le occasioni, impiegando l’intelligenza e la volontà.
note
[1] Cfr. N.
T. Giovanni 19, 5
[2] Cfr.
Leopardi La sera del dì di festa, 20
[3] Odissea, VI,
108
[4] Cfr. Odissea,
VI; 229 – 231
L’Università
estiva di Debrecen. L’interno e l’esterno. La carezza. Il bacio. L’utilità
del latino
Avevo
bisogno di tempo per rifarmi. Infatti il 16 luglio del 1966 nessuna delle
aulenti creature fiorite sul prato, nemmeno una, mi degnò di uno sguardo.
Mentre mi avvicinavo, mi accorsi che quelle ragazze non erano poi tutte così
soavi, fresche e aulentissime come mi erano apparse al primo sguardo poco
lungimirante, data la mala luce dei miei poveri occhi.
Una
zitella già più che matura inarcò le sopracciglia come due corna, estrasse dal
rostro una fila di denti aguzzi, drizzò un dito verso il collegio da dove ero
uscito indicandolo a un’altra con sdegno da attrice tragica, e le versò nelle
orecchie parole sicuramente non buone né belle. Probabilmente non si riferiva a
me, tuttavia non osai procedere.
Temevo
che quella Erinni, o Arpia che fosse, avrebbe risposto a qualsiasi approccio
digrignando quei denti feroci e lanciando contro chiunque le si accostasse
pugni e piedi pesanti come massi scagliate da catapulte possenti.
Sicché
mi mossi in direzione della linea tranviaria nella ricerca e nell’attesa di
qualche visione meno inquietante. Passai davanti alla
facciata dell’Università Kossuth Lajos: una villa grande e bella di fine
Ottocento, di stile che forse si può chiamare neoclassico asburgico o Kaiser
Königlich, imperial regio, tipico della Kakania.
Mi
fermai un momento per osservare intanto l’esterno come preludio. Quindi entrai.
Vidi
le aule delle lezioni, il bar dove avremmo preso il caffè negli intervalli, la
grande sala dove avremmo ballato nelle sere delle feste solenni, sempre
osservandoci con interesse a vicenda, poiché sicuramente non ero l’unico io, né
uno dei pochi a essere andato là proprio per cercare amicizia e amore , anche
se, forse, ero stato il solo a dichiararlo appena arrivato facendomi compatire probabilmente.
Sapevo
già che Eros prepara tali luoghi di incontro tra noi umani per renderci amici o
amanti, diventando nostra guida nelle feste, nelle danze, nei sacrifici[1].
Mi
diedi a osservare ogni cosa con attenzione cercando di cogliere segni latori di
significato per il seguito della mia vita.
Nel
mezzo della grande villa c’è un vasto cortile, così lo chiamano loro, in lingua
ungherese díszudvar, precisamente “cortile d’onore”, una sala
enorme che va dal pavimento all’altissimo soffitto dell’edificio occupandone la
parte centrale. Le ali sono costituite da servizi vari situati nel piano
interrato e da una quarantina di aule disposte sui quattro piani ai quali si
sale per grandi scale di pietra. Le robuste ringhiere delle monumentali scalee,
i parapetti e le balaustre, alcuni balconi e le tante lapidi incise con nomi di
eroi e di poeti magiari, a partire dal poeta eroe Petőfi, che tappezzano i
muri, tutto questo forma il confine del grande vuoto centrale dove vaneggia
l’immenso salone nel cui fondo ogni anno, all’inizio e alla fine del corso, si
celebravano le due feste serali più importanti e solenni: Ismerkedési
est, sera della conoscenza e Búcsú est, sera dell’addio.
Il
megaron quella mattina era stato in parte già preparato per la serata iniziale.
Ci avevano collocato decine di tavoli ai quali avrebbero aggiunto due centinaia
di sedie, e, sotto la scalèa due tavolate: una con cibi dolci e salati, l’altra
con bevande non alcoliche, alcoliche e superalcoliche.
Ero
ancora quasi astemio ma quell’estate mi forzai a bere del vino per infondermi,
con l’alcol, il coraggio necessario, che mi mancava, per affrontare il
prossimo, massime le ragazze. Si beveva un po’ tutti a dire il vero siccome non
ero soltanto io in difficoltà negli approcci, come potei osservare. Il punto di
vista sui giovani di mezzo mondo offertomi da questa università estiva mi aiutò
a superare i pregiudizi negativi sul mio conto assorbiti dal conformismo
provinciale, perbenistico e bigotto della gente frequentata nei precedenti due
decenni della mia vita.
I
seguenti saranno via via sempre più liberi, quindi meno insicuri e meno
infelici. Devo molto a queste antiche borse di studio, doni davvero celesti.
Nel
1966, conciato com’ero, non trovai l’amore da fare né il sesso, tuttavia
qualche passo di risalita lo feci: una brunetta carina e gentile, una ventenne
di Kiev, non sdegnò di parlare con me. Una sera arrivai ad accarezzarle le mani
con un’audacia che non fu biasimata né provocò la ritrosia della fanciulla
inorridita da tanta impudicizia, come temevo e credevo. Pure da così poco presi
comunque coraggio.
Avevo
capito che in un approccio, se non si attrae a pima vista con l'aspetto,
bisogna per lo meno mostrare dei significati suscitando un’idea o un ricordo.
Chi
significa niente, continua a imputridire da solo.
Quando
il gruppo degli Sciti fu partito, un’altra ventenne, questa un’inglese, si
chiamava Elizabeth, si lasciò addirittura baciare. Sentite un po’ come feci,
privo di esperienza com’ero.
Andammo
a vedere un film. Usciti dal cinema dove la Britanna aveva appoggiato la testa
sulla mia spalla destra riempiendomi di commosso stupore, lanciai nervosamente
la scassata Seicento verso il margine occidentale del grande bosco; arrivati
che fummo, frenai di colpo davanti a un albero antico, spensi di scatto il
motore, e senza dire verbo né guardare in faccia la ragazza, mi piegai verso di
lei e la baciai sulla bocca. Questo fu il mio debutto nel gesto commovente di
due persone destinate alla morte e alla putrefazione.
Dopo
questo contatto divenni curioso della sua anima e continuai a frequentarla.
Quella
notte ero assai contento di un avvenire vago, eppure non più del tutto vuoto di
promesse. Consideravo Elizabeth la compagna di quanto restava di quel mese in
terra magiara se non di tutta la vita, e la portai a vedere la campagna con la
scassata Seicento. Una volta questa rimase senza benzina in un villaggio non
lontano dal confine sovietico. Ci vennero intorno alcune persone curiose di
quel veicolo senza fiato e senza cavalli. Non conoscevano l’inglese né
l’italiano, né noi due riuscivamo a spiegarci con il nostro poverissimo
ungherese. A un tratto provai a domandare - loqueris latine? Uno di
loro, forse un prete spretato, rispose Ita, loquor.
Riuscimmo
a farci capire e venimmo aiutati. Sicché provai l’utilità pratica dei miei
studi di lettere antiche e sentii la solidarietà della coppia, un fatto non
ovvio, tanto è vero che ne ho fruito poche altre volte in questa mia vita
mortale: più frequentemente la compagna di sventura si lagna o lancia aspri
rimbrotti, senza dare aiuto. Soprattutto se è italica e viziata da maschi
imbecilli. Elizabeth non si lamentò, né mi rimproverò, ma si adoperò con tutti
i mezzi fino a collaborare al trasporto del bidone poiché la tanica io non
l’avevo. Britanna gentile, solidale, amica.
Per
antitesi ti anticipo lettore che intorno al 1990 sarei andato in Grecia in
bicicletta con Fulvio e una ragazza italiana. Sbarcammo a Igoumenitza e facemmo
la salita che porta al santuario antichissimo di Dodona per interrogare le
querce vocali e profetiche. Ebbene la compagna di quell’estate faticava molto e
sbuffava sulla dura salita. La spinsi da dietro con la mano destra appoggiata
sulla sua schiena per diversi chilometri con una fatica titanica. Credete che
arrivati in cima mi abbia ringraziato? No: mi maledisse. L’amico Fulvio
trasecolò nella boscaglia.
Le
querce avevano dato questa risposta chiarissima.
Tornai
sull’ingresso.
Davanti
alla facciata c’è una grande vasca rettangolare con al centro una fontana
vivace che lancia nel cielo zampilli dove di giorno si specchiano i raggi del
sole con innumerevoli sorrisi. Nei giorni successivi mi sarei fermato a
osservare quella vasca anche di notte quando l’acqua, sprizzata in alto e
illuminata da fasci di luce variopinta, fa piovere gocce multicolori sulla
vasca e sulla terra, mesta dal tramonto all’alba per la sua condizione di
vedova che la graziosa luna e tutte le vaghe stelle non bastano a consolare
dell’assenza notturna del radioso marito. Tutto l’ambiente sarebbe diventato il
tempio dove vidi l’inizio delle mie gioie. E, grazie a Dio, non ne ho ancora
visto la fine.
Qualche
anno più tardi l’aspra zia Rina volle profanare questo mio sentimento del santo
e del sacro dicendo che dovevo perdere il vizio di recarmi “in quel casino di
Debrecen”. Era il capo della casa di Pesaro tanto che la madre la
soprannominava “badessa”, e considerava empia la mia religione e da sconsacrare
gli altari dove suo nipote pregava offrendo sacrifici agli dèi: Zeus, Apollo,
Elio, Dioniso, Eros non senza Priapo.
Dèi
per niente “falsi e bugiardi” come sosteneva la zia autorizzandosi con un poeta
grande sì, per carità, eppure, e pure completamente pazzo.
note
[1] Cfr.
Platone Simposio, 197d
La
grande foresta di Debrecen
Dopo
avere osservato il luogo dove avevo riposto la speranza del mio risorgimento,
uscii dall’Università e mi incamminai per il bosco che da qualche sentiero era
segnato. Era una grande foresta di querce dall’altissima chioma e di bassi
cespugli, Nagyerdő la chiamano loro. E’ davvero grande (nagy),
folta e bella, tanto da farmi venire in mente “la divina foresta spessa e viva”
del paradiso terrestre di Dante[1].
Notai
coppie di innamorati dai sorrisi contenti e dalle voci sommesse, quanto diversi
dai rumorosi turisti tesi a declamare per fare sapere a tutti quanto si
divertono nella strameritata vacanza.
Sicché
non rimpiangevo più l’estate di Pesaro confusa e assordata, pure assai meno
della costa romagnola gremita di vacanzieri amanti del caos che poi è il vuoto
dove volteggiano i mostri ibridi.
Mi
guardavo intorno con l’attenzione che si presta a un mondo nuovo nel momento
della scoperta: osservavo gli alberi antichi dalle radici giganti, dal fogliame
aereo, i cespugli bassi dalle ombre dense, l’erba fitta costellata di fiori
variopinti, come le ragazze sul prato ignare di me. Notai dei gambi dritti come
falli di maschi bisognosi di amore.
Non
si udivano rumori molesti di automobili o motociclette che allora in Ungheria
scarseggiavano e comunque erano escluse dalla grande foresta circondata dalla
linea del tram numero uno, dai passaggi frequenti ma silenziosi.
Sicché
si potevano ascoltare le voci della natura.
Udivo
gli uccelli fischiare contenti, le cicale stridere pazze di sole, i batraci
gracidare da un laghetto situato al centro di una radura assolata.
Volavano
sciami di farfalle dai vari colori e tante libellule azzurre. Come mi avvicinai
all’acqua, vi saltarono svelte le rane scattando come molle non più compresse.
Nel lago nuotavano piccoli pesci rossi e alcuni neri un poco più grossi: gli
uni e gli altri aprivano e chiudevano frequentemente la bocca muta, come tante
persone vaniloquenti.
Tutto
era pieno di significati. Dovevo legittimare la mia vita togliendola dal
pantano dove era caduta infangandosi e peggio: dovevo associarla di nuovo a una
realtà superiore fatta di studio, di amore, di sport. Quel mio ultimo
sembiante, offeso da me stesso per primo e poi da tanti altri, era una maschera
orrenda che dovevo buttare via perché nel volto si potesse vedere la mente e il
cuore che rimanevano dentro di me pur troppo celati. “Mevga" ejn touvtoi" qeov", oujde;
ghravskei
Quel
laghetto brulicante di vita era accarezzato dalle foglie e dai rami sottili dei
salici ai bordi, e varcato nel mezzo da uno stretto ponte di legno: vi sarei
passato sopra tante volte, in compagnia degli amici, poi delle amanti, con lieto
rumore di passi contenti, di giorno per andare nella piscina, di notte per
entrare in un locale sull’altro lato: il Vecchio Vigadó da dove si diffondeva e
aleggiava nel bosco la musica dei violini e dei cembali che si accordava con il
versi dei grilli e delle rane lontane, con l’arpeggiare dei rami mossi dal
vento che di tanto in tanto faceva oscillare la vasta chioma degli alberi
antichi scoprendo la luna con le stelle del cielo. Ed erano tutti presagi d’amore.
Sentivo
e già capivo che ero arrivato in un cosmo ben disposto, idoneo alla mia natura
vera che non avrebbe cozzato con il suo ordine provocando la scintilla e il
fuoco della tragedia come aveva fatto con il mondo caotico dal quale venivo.
note
[1] Purgatorio,
XXVIII, 2
[2] Sofocle, Edipo
re, 872.
Gli
aiuti dei buoni: Galla et Britanna. L’intermittenza mentale dei
primi giorni
La
bellezza e bontà del mondo creato dall’ottimo demiurgo divino, il migliore di
tutti gli artisti, arrivai a notarla, apprezzarla e amarla a mano a mano che
smettevo di spregiare me stesso. In questo processo di riabilitazione mi
aiutarono alcuni umani incontrati nei giorni seguenti in quella università
estiva. Piccole cose ma immensamente benefiche per me che venivo da anni di
calpestamenti subiti nella mente e nel cuore.
Avevo
suscitato parecchi risentimenti negli anni dei successi liceali e ciclistici.
Me ne ero inorgoglito e vantato troppo perché non avevo avuto altro di cui
essere contento e andare fiero, fin da bambino.
Ricordo
che mi inondò l’anima di gioia una biondina francese che mi fece un sorriso
mentre cantavamo in corriera uno dei giorni seguenti, in “gita scolastica” nei
dintorni di Debrecen. Basta poco per aiutare un disgraziato. La fanciulla della
Gallia mi infuse coraggio lanciandomi quel leggero, istantaneo segno di
simpatia. A volte, pedalando la mia bicicletta da solo, ripeto quella canzone
[1] e, ripensando al sorriso amabile, spontaneo e gratuito della compagna di
corso, piango, piango di consolazione e di gioia. Anche tu ragazzina ventenne,
creatura benedetta da Dio e da me, sei viva nei canti dell’aedo di Debrecen.
Poi
la già ricordata Britanna che mi permise addirittura di baciarla dopo il film.
Che tu sia benedetta, Elizabeth cara. Dal tuo bacio ho tratto succhi che hanno
contribuito a salvarmi la vita. Questo avvenne nei primi giorni di agosto quando
procedevo metodicamente sulla strada della salvezza.
Chi
è per strada? Chi è per strada? Chi?[2] Io ero per
strada.
Tornato
a Pesaro, ogni giorno, dal tocco alle due, invece di desinare correvo digiuno
sulla sabbia della costa in direzione di Fano.
A
sinistra il fragore del mare, a destra si allungavano ogni giorno di più le
ombre del monte Ardizio. Era già autunno quando, con lo spuntare del grano,
inizia la resurrezione, ritorna la vita.
Appena
giunto a Debrecen invece invece l’oscuro velo dell’angoscia poteva ancora
calarmi sugli occhi e discolorare, almeno con intermittenza, le cose belle
della natura e della vita. Il laghetto in certi momenti, quando terminava l’intervallum
insaniae, mi appariva quale palude fetida sotto un ponte sgangherato e
rumoroso di cigolii sinistri: una specie di lago morto dove la vegetazione
priva di succhi vitali si dissecca e disintegra in una cenere nera dispersa dal
vento [3].
Nei
tramonti che tanto amavo e sarei tornato ad amare come annunci di resurrezione
e segni di eternità, vedevo altrettanti assassinii del sole.
Attraversato
il ponticello, camminai fino al regi Vigadó, un locale contiguo
alla piscina, un ristorante dall’aria antica, quasi nobile, con un giardino
coperto da un tetto di legno incoronato di edera come le baccanti seguaci di
Dioniso [4].
L’amore
della letteratura per lo meno era ancora vivo dentro di me.
Bevvi
una birra e ne rimasi stordito, ma non mi dispiacque: in quel tempo la mia
lucidità era spesso falsa e maligna, volta a denigrare me stesso, il prossimo
mio e la vita intera. Un orientamento negativo, un carattere guasto, uno
sguardo bieco nel ceffo reso deforme da pensieri sciagurati.
Il
sopravvenuto rimbambimento, ostacolando la lucidità maligna dello spirito che
invaso dal diavolo voleva negare ogni cosa buona, rivalutava la vita
opponendosi a quel perverso, doloroso gioco al massacro. Ma lo stordimento
derivato dall’alcol, se concede un momento di pausa, poi passato quell’istante,
invecchia gli infelici e aggrava le loro miserie.
note
1 Chevalier
de la table ronde…
2 Cfr.
Euripide, Baccanti, v. 68: “tiv"
oJdw`/, tiv" oJdw`/ ti";
3
Cfr. Tacito, Historiae, V, 7: “atra et inania velut in cinerem
vanescunt”
4
Cfr. Euripide, Baccanti, 702 - 703: “ ejpi; d j e[qento kissivnou" - stefavnou"”
La
passeggiata pensosa di mezzogiorno
“Mi
piacerebbe incontrare una ragazza che come me aspira all’arte e al bello”,
fantasticavo inebriato, mentre tornavo in collegio costeggiando la rete che
separava la piscina dal bosco. Vedevo le gambe, i costumi, i capelli delle
ragazze agognandone i corpi come nessun’altra cosa bella di questo mondo. Negli
ultimi tre anni di vita avevo invocato la Morte che annullasse ogni mio grande
dolore, ma l’ambiente nuovo mi spingeva a muovermi con passi lungimiranti verso
suo fratello Amore da cui “nasce il piacer maggiore/che per lo mar dell’essere
si trova”. Non mi ero mai svestito dell’ abito letterario. Avevo trascurato
solo lo studio senza anima che veniva imposto da molti professori. Al liceo mi
ci ero sottoposto pensando che, eliminato il conteggio dei numeri e la
memorizzazione di formule astratte, iscrivendomi a Lettere antiche, le parole
piene di idee e di sentimenti avrebbero tolto di mezzo i tecnicismi fine a se
stessi. Invece questi prevalevano anche all’Università. Credevano di tirar su
la verità dal pozzo, servendosi di ajnav e
di katav. [1]
Non
osai entrare da solo nella piscina. Avevo bisogno di appoggi. Sicché mi diressi
verso il collegio. Ma arrivato nella stanza che dividevo con Danilo, Fulvio e
Luigino, non li trovai.
Non
era ora di desinare, sicché, giunto alla mensa, procedetti dall’altra parte,
sempre cercando segni che mi indicassero la direzione da prendere per attenuare
il peso dell’infelicità che mi gravava di nuovo addosso come l’Etna sul
maledetto Encelado o il il mostro ejkatokevfalo", Tifone[5].
Anche
da quella parte, l’occidentale, avrei vissuto esperienze felici senza le quali
la mia vita sarebbe stata diversa e peggiore. Non lo sapevo ma lo speravo.
Episodi
belli che ne hanno causati altri ancora più belli, poi questi altri ancora,
fino a formare una serie di fatti sempre più ricchi di conoscenza e di luce,
una collana di gioie che hanno adornato questa mia vita mortale.
Camminavo
in direzione dello stadio dove avrei corso tante volte i 5000 metri perdendo lo
schifoso rivestimento porcino indossato negli anni del dolore cieco. Capivo già
che di questo abito orrendo dovevo svestirmi. Sebbene ottenebrato, avevo già
visto che con quella carne non mia addosso sarei dispiaciuto alle donne senza
il cui aiuto non potevo redimermi.
Centocinquanta
metri dopo il collegio, sulla destra, vidi un grande cancello chiuso, ma non a
chiave. Su un cartello c’era scritto Botanikus kert.
Incuriosito
e incoraggiato dalla desinenza latina, entrai per vedere se potevo trovarci
qualche reliquia dell’antica Pannonia. In fondo Aquincum dista poco più di
duecento chilometri da Debrecen.
Invero
era l’orto botanico dagli alberi strani e dai fiori esotici acclimatati come
certe finlandesi o svedesi sposate in Italia.
Cosa
da evitare tutto sommato. Come sposare chicchessia del resto.
I
pretendenti alle nozze, i proci sono predestinati male. Non solo quelli di
Penelope. Quasi tutti. Vanno a caccia di nozze non augurabili, poi se ne
pentono. Questo ho visto, sempre, nella mia vita mortale.
L’effetto
dell’alcol stava passando: rivedevo la vita attraverso una grossa rete
metallica, tipo la grata dei confessionali: una cortina sudicia, nera che mi
nascondeva l’aspetto ordinato del mondo con la splendida epifania della donna
la cui figura talora mi era apparsa mentre danzava fra le trecce verdi della
terra e i sorrisi azzurri del cielo. Bella, sensibile all’arte, generosa, colta
e sportiva. La kalokajgaqiva in
persona.
Corrispondeva
all’immagine ideale di me stesso, al paradigma mitico della mia vita: quello
che potevo diventare se non fossi stato avversato dal destino ostile che mi
inceppava il cammino.
Forse
ce la facevo a restituirmi a me stesso. Era il 16 luglio del 1966: avevo ventun
anni otto mesi e due giorni. Non era già troppo tardi.
La
lurida grata nascondeva o stravolgeva le immagini belle. Ma non del tutto e per
sempre.
note
[1] Cfr Nietzsche, Sull'avvenire
delle nostre scuole, terza conferenza .
[2] H. Hesse, Sotto
la ruota, del 1906, p. 90.
[3] To;
sofo;n d j ouj sofiva (Baccanti , 395)
[4] Callimaco
vorrebbe spogliarsi della vecchiaia che gli pesa addosso quanto l’isola
tricuspide sul maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35 - 36). Nell’Eracle di
Euripide i vecchi coreuti vecchi compagni d'armi di Anfitrione biasimano la
vecchiaia che grava sul loro capo dei con un carico più pesante delle rupi
dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo" - baruvteron
Ai[tna" skopevlwn - ejpi; krati; kei'tai" ( vv. 638 - 640).
[5] Eschilo, Prometeo
incatenato, 369.
Il
giardino era pieno di vita, eppure non la sentii vivere anche dentro di me fino
alla notte magica in cui lo percorsi abbracciato alla Sarjantola biancovestita
che adunava nel volto sereno la luce della graziosa luna e di tutte le vaghe
stelle, e, mentre cantava Summertime con voce calma,
manifestava l’armonia che finalmente mi aveva accolto offrendomi le sue
meraviglie impersonate da lei, donna dotata di stile, capace di infondermi
nell’anima la verità semplice bella e santa che vivere, soprattutto d’estate, è
facile, piacevole e gioioso, se non abbiamo commesso delitti inespiabili o
sbagli irrimediabili.
Allora
pensai: “sum, o superi, beatus, nullique potestas hoc auferre homini” ,
sono felice e nessuno ha la possibilità di togliermi questo.
L’orto
botanico divenne un pezzo di paradiso terrestre solo dopo la conoscenza di
quella femmina umana rara. Helena mi aprì la strada verso le altre muse di
questa mia vita mortale. In lei ho previsto le seguenti e nelle migliori di
queste ho ricordato lei. Perché la Sarjantola che una sera mi disse: “io non
sono materia” e mi fece provare vergogna dell’ ingiustizia che stavo per
infliggerle, ha risvegliato in me l’idea dello spirito, e attraverso il suo
petto, il suo cuore, mi ha fatto auscultare i palpiti dell’universo. Ma questo
sarebbe avvenuto cinque anni più tardi, nell’estate felice del 1971.
Nel
luglio del ’66, mentre percorrevo i sentieri ghiaiosi dell’orto botanico, le
piante, le erbe e i fiori dei quali pure leggevo con curiosità superficiale e
distratta i nomi latini incisi nei cartelli di latta inchiodati su pezzi di
legno piantati nella terra contigua al sentiero ghiaioso dove camminavo con
passo stanco, da vecchio anzi tempo, quei vegetali denominati Heuchera
Sanguinea, o Campanula Karpatica, per me erano soltanto materia
e non risvegliarono la mia fantasia, né mi infusero il gusto della vita con cui
potessi difendermi dal marcio sapore di morte che avevo in bocca e nel cuore.
L’anima
mia storpia era sempre gravata dalla paura di non trovare una donna, né alcun
affetto, e, in quel momento in particolare, di non inserirmi nel nuovo ambiente
pieno di giovani meno infelici e disperati di me. La mente sciancata dal
peggiore dei vizi, l’autodisprezzo, era diventata uno spettro svigorito,
desolato inquilino di un corpo gonfio e infiammato dal cibo.
Con
l’amore di Helena, invece, nell’ orto botanico avrei visto trionfare la vita:
alberi strani e altri già noti, piccole piante esotiche irretite da ragnatele
azzure filate con arte, stagni vivaci dove nell’acqua guizzavano pesci pieni di
vita come gli uccelli contenti che sfrecciavano nel cielo, e rane abbicate alla
terra che ripetevano il loro verso ringraziando il creatore. Quella donna mi ha
fatto capire che la vita stessa mi amava, la vita che è la verissima amante degli
uomini buoni i quali non possono non contraccambiarla.
Prima
di Helena non ero in grado di notare la parentela di tutto con tutto: non mi
accorgevo che le ninfee distese sopra lo stagno sembravano pezzi di un mosaico
strano, né assomigliavo le tartarughe a soldati vecchi ma ancora validi,
collocati a difesa del luogo con lo scudo dorsale che non avrebbero mai potuto
abbandonare. Mi sarebbero venuti in mente i Germani di Tacito e dissi a Elena
che pure quelle testuggini dovevano avere tale senso dell’onore militare: “scutum
reliquisse praecipuum flagitium”1.
“Sei
intelligente e colto - fece lei - Ho fatto bene ad amarti”.
“Hai
fatto molto bene a me”, le risposi.
“E
tu a me”. Pauca sed bona dicta.
note
1
Tacito, Germania, 6.
Uscito
dall’orto botanico, proseguii verso occidente, camminando sempre in mezzo al
grande bosco finché sbucai nella luminosa piana dove si trovano i campi da
tennis, il casotto del tennis e lo stadio con la pista di 400 metri che mi
avrebbe restituito il gianni che ero stato prima di deformarmi nella orribile
caricatura cui mi ero ridotto mangiando e vivendo come un porco in brago.
Quando
raggiunsi la piena coscienza e il sommo disgusto di tanto male e di tale
malvagità verso me stesso, ripetei le parole dette da Nerone in fuga come seppe
che il Senato l’aveva dichiarato nemico pubblico: “vivo turpiter, deformiter”.
Quindi “ouj prevpei jIwavnnh/, ouj
prevpei”[1], aggiunsi.
Poi,
però, invece di suicidarmi come fece il matricida, cominciai a mangiare di meno
e tornai a correre in qualunque pista trovassi a disposizione, a pedalare la
bicicletta in pianura e nelle salite, e a mangiare in modo umano, cioè solo il
necessario.
Non
esse voracem bona valetudo est et formae dignitas.
Per
quanto riguarda la difformità dalla fine dell’imperatore romano, la mia
sopravvivenza dipese anche dalla mancanza nelle mie vicinanze di uno come il
liberto segretario alle suppliche che aiutò Nerone a morire: “iuvante Epaphrodito
a libellis”.
Fulvio
viceversa mi aiutò a vivere. Il nuovo amico mi infonderà prima forza e
coraggio, poi il sentimento del compito di primeggiare nel fare del bene: lo
dovevo a me stesso, date le mie qualità. Amico prezioso. Ancora oggi il ricordo
indelebile dell’aiuto che mi ha dato mi spinge a procedere, spesso non senza
fatica, su per i duri tornanti di questa gara davvero olimpica per non tornare
indietro con passi retrogradi verso lo stato miserando nel quale ero caduto sui
ventanni.
Ora
c’è la vecchiaia che incalza e cerca di infliggere umiliazioni, ma sono certo
che gli dèi premiano le donne e gli uomini buoni mantenendoli sani, forti e
felici fino alla morte che mi coglierà, spero, mentre corro, o pedalo, o
scrivo, o tengo una conferenza o, meglio di tutto, mentre faccio l’amore, d’un
tratto, assai dolcemente. Il più tardi possibile però.
Sulla
pista dello stadio di Debrecen dunque avrei corso proteso verso le mie donne,
per rendermi sempre meno indegno di loro, per le studentesse borsiste
all’università Debrecen, le finniche già ricordate, poi per altre, fino alla
supplente che era rimasta nel carnaio di Rimini e non mi scriveva: correvo i
5000 metri in meno di 19 minuti per sfuggire alle punture dolorose dell’assillo
odiosissimo che mi tormentava perché colei non si curava di me e non mi dava
dei compiti.
Allora
me li assegnavo da solo.
Le
mie pretendenti erano state dei fiumi, come Acheloo mnhsthvr, di Deianira[2], fiumi e soli, ed
erano rimaste tutte poco tempo con me, e mi andava bene così: siffatte le
cercavo perché sapevo che immergersi due volte nello stesso fiume è impossibile[3], e pure che il sole
è nuovo ogni giorno[4].
Tutto
questo e anche altro avrebbe significato il campo sportivo. Sarebbe diventato
un luogo epifanico: rivelatore di verità occultate da uomini avvezzi più al
male che al bene, e messaggero di segni mandati dal cielo che facevano
presagire il futuro.
Eppure
nel 1966, chiuso com’ero nel mio straziante egoismo, quel tevmeno", il terreno sacro
degli anni successivi, mi lasciò indifferente.
note
[1] Cfr. Svetonio, Neronis
vita, 49.
[2] "Mnhsth;r ga;r h\n moi potamov", jAcelw'/on levgw"
(Sofocle, Trachinie, v. 9), il mio pretendente era un fiume, dico
l'Acheloo
[3] Cfr. Platone
Cratilo 402a: “ di;" ej"
to;n aujto;n potamo;n ouk a]n ejmbaivh", non
potresti entrare due volte nello stesso fiume. Parla Socrate rivolgendosi a
Ermogene e ricordando Eraclito (cfr. frammento 52 diano).
[4] Cfr. Eraclito
fr. 43 Diano
Contiguo allo stadio c’è quella casetta o casinetto[1]
che ho già ricordato nella storia di Helena, particolarmente nell’episodio di
una notte simile a quella di Valpurga con la tentazione mia da parte di Josane
quando ni comportai come un santo evitando umiliazione e dolore alla
Sarjantola[2]. Eravamo nel 1971.
E’ una casa non grande, a due piani[3], con due
terrazze, una per piano, come quella di Eufileto, il marito becco e vendicativo
omicida difeso da Lisia.
Nel 1966 sedetti sulla terrazza più bassa per
trangugiare un caffè e ingozzare dei pasticcini, indifferente a quel luogo che
sarebbe diventato uno dei più significativi della mia vita mortale.
Al secondo piano il custode abitava; al primo teneva
un bar con seggiole e tavolini, sia nell’interno sia nella terrazza, dove ci
sarebbero state alcune feste intermedie tra quella della conoscenza e quella
dell’addio dove Afrodite riuniva ragazze e ragazzi perché si conoscessero nella
prima, e si salutassero per sempre, con gratitudine eterna, nell’ultima. Là si
sarebbero consolidate oppure avrebbero vissuto ore di crisi i miei rapidi amori
pellegrini; là donne straniere e pure italiane, come vedremo, mi avrebbero
approvato o redarguito, esortato o confutato insegnandomi buona parte di quello
che ora so.
Su uno di quei tavolini piansi lacrime catartiche alla
fine della storia di Päivi [4] che forse già conosci, lettore.
Nel luglio del ’66 però, imbestiato com’ero, in quel
casinetto vidi soltanto un bar dove sedermi per bere un caffè assai zuccherato
e perdere altri dieci minuti di questa rapida vita mortale oziosamente, ossia
senza agire, né osservare, né meditare in modo costruttivo, ma solo cercando di
tenere a bada l’angoscia e assecondare l’ingordigia animalesca del ventre.
Trangugiato il lungo caffè pieno di zucchero non senza delle paste dolciastre
che avevo aspettato a lungo con impazienza frenetica, si era fatto il tocco,
come dicevano a casa mia, cioè l’una, insomma l’ora di desinare. Un pranzo del
tutto immeritato da parte mia. Mi avrebbe fatto meglio una bastonatura da
bestia quale ero.
note
1 Cfr. Mozart - Da Ponte, Don Giovanni, I,
9: “Quel casinetto è mio: soli saremo, e là gioiello mio, ci sposeremo. Là ci
darem la mano, là mi dirai di sì”.
2 Capitolo intitolato “La festa al casinetto del
tennis. Josiane: la tentazione”.
3 Cfr. l’orazione giudiziaria di Lisia Per
l’uccisione di Eratostene, l’amante punito: “oijkivdiovn ejsti diplou`n, i[sa e[con ta; anw
toi`" kavtw”, 9. E’ una casetta a due piani che ha gli ambienti
di sopra simmetrici a quelli di sotto.
4 Capitolo XIX intitolato Il pianto. L’aedo di
Debrecen, dove tutto è pieno di dèi. Pensieri di un cervello ebbro al tramonto.
Sollevai il corpo gonfio e mi mossi verso la mensa
situata di fianco al collegio numero uno, l’alloggio dei Russi e dei
Finlandesi, più femmine che maschi a dire il vero, dato che eravamo tutti
letterati, ossia studenti di materie amate e studiate dalle donne più che dagli
uomini, come si diceva allora, e forse ancora si dice. Io credo sia vero.
Le lettere sono preferite ai numeri dalle donne
e dai donnaioli, che sono tali in quanto attirati da creature simili a
loro, siccome dotati di una sensibilità più fine e forte rispetto a quella del
cosiddetto vero maschio il quale passa le serate a guardare le partite di
calcio con i suoi eroi che sgambettano, oppure ammazza il tempo giocando a
carte con altri maschi. Costui spesso, in realtà è un omosessuale per lo meno
latente. Non pochi tra i mariti scimuniti che riempiono le serate con il
football e la briscola o il biliardo si sono ammogliati, a parer mio, per
dissimulare la loro omosessualità.
Perdonate questo mio strano pensiero. Ho voluto
rispondere a chi dice di me che sono una donna poiché non mi interessa il
calcio, come non piace alle femmine appunto, e ho giocato a carte solo un paio
di volte in vita mia, da giocatore trasognato[1], quindi mai più. Pensavo
troppo alla donna “mistero senza fine bello!”, enigma simile a quello della
vita, particolarmente questa qui vissuta da me come mi pare.
Ma torniamo al giorno di quel luglio lontano. Entrai
nella mensa.
I tavoli erano già tutti pieni. Mi aggirai tra i banchettanti
lieti, ansiosamente, già quasi certo dell’esclusione, meritata del resto dal
ritardo accumulato per l’empio aperitivo, nel tempo che ora chiamano happy
hour ed è invero qualche cosa di turpe se tale antefatto è un
antimisfatto seguìto da un pranzo o da una cena pomposa, magari non senza una
copiosa merenda nel mezzo. L’obesità non viene per caso, né senza colpa.
La snellezza è una forma di pulizia oltre che di
bellezza.
I porci ingrassano, i levrieri no.
Dopo qualche minuto di ispezione angosciosa,
supplichevole, mi accorsi con dolore che i miei tre contubernali non mi avevano
tenuto un posto al tavolo dov’erano seduti contenti, incuranti della parola
data e di me. Il loro quarto commensale era uno sconosciuto più attempato di
noi. Forse un professore di Debrecen. “Maledetti!”, pensai, provando delusione
e paura dell’isolamento per tutto il mese seguente. Fui tentato di ripartire
tosto per Pesaro.
Se non avessi avuto il vizio del cibo eccessivo, avrei
colto l’occasione per saltare il pranzo e non peggiorare il mio aspetto e il
mio umore; invece, ricevuta questa piccola frustrazione che la mia anima vuota
e malata ingrandì a tragedia o quanto meno a infausto annunzio di futuri danni,
la fame nervosa aumentò. Mangiare in quella maniera disumana era un tentativo,
il peggiore possibile, di riempire il vuoto di affetti e di interessi nel quale
precipitavo da anni, come i mostri del Caos primigenio.
Mi mancava il rispetto che ogni figlio della luce deve
a se stesso. Insisto su questo poiché. passati quasi cinquantacinque anni da
quella lugubre mattina, vedo l’obesità diffondersi tra uomini, donne e bambini
che mangiano ossessivamente a tutte le ore senza praticare alcuna ascesi
somatica, né, tanto meno, spirituale. Condannerei a multe pesanti i genitori grassi
che spingono i figli già obesi a mangiare. Se la multa non bastasse, toglierei
la dignità genitoriale a tali diseducatori. L’obesità è contrassegno di
infelicità, di caos, di vuoto dell’anima.
Ma torniamo al tragico, immeritato, colpevole
pranzo del 16 luglio del 1966.
Il mio vuoto spirituale agognava l’ingozzamento,
sicché continuai ad aggirarmi tra i tavoli con l’anima in pena e l’aria
implorante, sperando di sentirmi chiamare o almeno di trovare una seggiola
vuota. Fulvio, da gentiluomo qual è, si accorse della mia difficoltà, mi
raggiunse e si scusò dicendo che non era stato possibile tenere occupata la
quarta seggiola, siccome una cameriera imperiosa aveva imposto a un romano
appena arrivato, Ulderico, di sedersi al loro tavolo. Comunque dopo mangiato ci
saremmo trovati tutti in piscina. Non dovevo mancare. Gentile, gentiluomo di
Parma. Nell’età tragica della mia vita, Fulvio mi ha aiutato come nessun altro.
Basta poco per dare una mano a un infelice, eppure quel poco i più non me lo
hanno dato. Se ci sono state delle mani, hanno cercato di spingermi sempre più
in basso. Dal dolore comunque ho imparato assai. Devo parte della mia
intelligenza a tanta sofferenza.
Più avanti Fulvio mi aiutò ancora quando disse che non
capiva perché mi lamentassi tanto, dato che non mi mancava niente: se avessi
avuto un male incurabile, mi avrebbe compatito, ma poiché non l’avevo, se
avessi continuato a lagnarmi, mi avrebbe preso prima sberle, poi a calci.
Sacrosanta, meritata minaccia.
Immeritato invece era il mio pranzo che avrei dovuto
saltare. Ecco perché non avevo trovato il posto che speravo.
Mi era stato mandato un segno da Dio: diceva, chiunque
egli fosse, che non dovevo mangiare, che ingozzarmi era il maximum
scelus per me, ma io non colsi l’avvertimento, siccome avevo ancora
Satana con tutto l’inferno dentro la mia disgraziata persona.
Ringraziai Fulvio, gli dissi che sarei andato in
piscina verso le due e mi allontanai rinfrancato. Quindi trovai una seggiola
libera a un tavolo di gente straniera dall’incomprensibile idioma. Uzbeki
forse. o Circassi, o Ciuvassi. Sedetti e, senza nemmeno abbozzare un saluto, chinai
la testa sul piatto, mi ingozzai in gran fretta di enormi patate unte, di carne
con sugo grasso dove inzuppai pure non piccoli tozzi di pane lasciati lì da
qualcuno e sfuggiti al cane che si aggirava famelico. Glieli avrei strappati
dal ceffo ingordo se avesse provato a saltare per involarmelo. Il ceffo mio era
ancora più ingordo del suo.
note
1 Cfr. G. Gozzano, La signorina Felicita,
ovvero La Felicità v. 107
2 Gozzano, poesia citata sopra, v. 269
3 Dante, Inferno, XXX, 102
Il ragazzo si vergogna della propria deformità
meritata con due anni di vita malvissuta
Quindi tornai in collegio e nella stanza, ansimando,
pieno di sensi di colpa e di inferiorità. Salivo le scale a suon di singhiozzi
e di rutti ripugnanti esalati dallo stomaco guasto, pieno di cibo, disgusto,
rimorso e paura di tutto
Dovevo cambiarmi e indossare il costume prima che
giungessero gli altri tre, e questo non per pudicizia, poiché trovata la mia
ottima forma in progresso di tempo, e di me stesso, mi sarei spogliato ogni
volta fieramente e trionfalmente davanti alle mie amanti, mentre quel giorno
remoto non volevo mostrare l’obbrobrio della pancia superfetata, l’orrore
dell’epa croia, e anche perché all’epoca temevo di avere piccolo il pene.
Tale in effetti appariva o addirittura spariva sotto
la pancia del ragazzo deforme che ero diventato ingozzandomi continuamente.
I primi giorni andavo addirittura a fare la
doccia in costume; poi, vedendo altri ragazzi nudi, in alcuni casi mi
ricredetti sulle dimensioni del mio apparato, in altri mi rassegnai. La
vergogna della pancia tesa, dura e prominente invece l’avrei abolita più tardi
nell’unico modo possibile: eliminandola con lo sport anche agonistico e con un
nutrimento essenziale.
Quantum mutatus ab illo![1].
Allora Fulvio mi avrebbe fatto, di mente e di cuore, tutti i complimenti che
meritavo. Eravamo arrivati al ‘68, anno di salvazione mia e di molti altri,
soprattutto di tante donne liberate da secoli di repressione e sottomissione
sessuale. Qualche anno più tardi una dottoressa, un medico donna, mia amante,
assai esperta, mi avrebbe fatto caldi elogi per tutta la mia consistenza
corporea.
Note
1 Cfr. Virgilio Eneide, II, 274. Detto a
proposito dell’immagine onirica di Ettore quale appare a Enea durante la notte
dell’eccidio di Troia, mutato in peggio però.
Indossato il costume e dei calzoni lunghi fino al ginocchio per
mostrare i polpacci che soli conservavano i muscoli belli dell’antico agonismo,
e tirata la cintola fino sopra la vita larga per nascondere almeno in parte il
ventre obbrobrioso e delinquenziale di cui avevo vergogna e rimorso, mi
avviai in direzione della piscina . Attraversai di nuovo il bosco
pieno di ombre, di enigmi non ancora risolti, e varcai il laghetto
camminando adagio sul ponticello che, invece era assolato e cominciava a
essermi familiare. Un chiaro punto di riferimento in quell'intrico boschivo
insomma.
La piscina di Debrecen allora era bella, grande, ricca di alberi,
prati, cespugli, fiori, chioschi e, naturalmente, di vasche. Queste avevano
l’acqua fredda, o tiepida, o calda fino a scottare. Erano rettangolari, o
circolari; grandi, piccole e medie; alcune avevano un trampolino per i tuffi,
altre le onde artificiali per il gioco dei bambini, in altre ancora si poteva
soltanto nuotare.
Insomma era un bel luogo, attrezzato bene, pulito, confortevole e
frequentato da persone rispettose le une delle altre.
Quando ci sono tornato 45 anni più tardi, in bicicletta, illudendomi di
ritrovarlo qual era, vidi invece con dispiacere che, quel giardino d’estate
aperto al popolo di Debrecen, era diventato parte di un albergo, ed era stato
completamente modificata in peggio: privo di vegetazione, di giochi per
bambini, di varietà di vasche: da luogo di incontro e svago popolare quasi
gratuito, era stato ridotto a ritrovo squallido e piuttosto costoso di
borghesucci pretenziosi, trasformato in merce e affare volgare. Brutto assai
dunque anche se non tanto quanto l’Hungaria ridotto a MacDonald.
Dopo avere girato in lungo e in largo osservando la gente, soprattutto le
donne giovani e belle, nel centro di una vasca circolare dall’acqua caldissima,
sopra un’isoletta di pietra, vidi raggruppati Fulvio, Danilo, Ulderico,
il Romano nuovo arrivato, più un paio di sconosciuti, tutti intorno a una
ragazza sola, bellina quanto si vuole, ma che non li degnava di uno
sguardo. “Bella e sdegnosa!” pensai ricordando con ironia un luogo comune
dell’epoca quando i maschi corteggiavano accanitamente le femmine e queste
mostravano, o simulavano, riluttanza come le femmine di molti altri animali.
Dopo esserci ambientati a Debrecen, avremmo chiamato la vasca in
questione “piscina dei sifilitici”, poiché la sua acqua termale, quasi
bollente, faceva bene a diversi malanni, e molti dei coricati là dentro erano
un po’ malandati, smozzicati [1] perfino. Vincendo dunque la ripugnanza
dell’acqua caldissima e zigzagando tra i mutilati distesi in quella bolgia
rovente, resistendo anche al dolore iniziale dei piedi e dei polpacci lessati
[2], mi avvicinai ai miei contubernali e salii sull’isoletta del
corteggiamento inopportuno.
Volevo osservare da vicino la scena che da lontano mi era sembrata folle.
Danilo, inebriato e rubicondo, gridava: “Bea tosetta, cara da Dio, perché
non rispondi, Dio caro? Rispondi, ungheresina bella!”
Quella non solo non rispondeva ma non gli rivolgeva nemmeno una rapida
occhiata. Fulvio provava a interessarla con cenni del capo e ammiccamenti vari;
Ulderico, le agitava davanti al volto le mani con alcune dita dritte, forse per
suggerirle un appuntamento appartato a una certa ora.
Gli sconosciuti della seconda fila parlavano tra loro e ridevano: dovevano
essere ragazzi autoctoni divertiti dalla comicità della scena. I mezzi
impiegati dai miei connazionali non erano adeguati al fine.
Io, ragazzo disgraziato assai, non avevo esperienza di corteggiamento,
ma desideravo talmente tanto le femmine umane, da capirle ancora prima di
conoscerle, e da comprendere che quel modo di procedere non aveva alcuna
possibilità di successo. Allora, incoraggiato da tanta follia, osai
intromettermi con forza, e atteggiandomi a intenditore, dissi: “Salve, ragazzi,
è un piacere grande incontrarvi, però, se permettete, state facendo un grosso
errore: non si corteggia una sola donna in tre alla volta e in tale maniera
goliardica, per non dire infantile o addirittura ferina”.
Danilo mi guardò bieco, e disse: “Cossa vu to? Stai poco bene? Se vuoi,
vieni avanti a darci una mano, se no, tirati indietro, o tirati su con una
graspa. Cosa c’è che non va? Non vedi che bea che xe? Non sarai mica finocio
anca ti? Non vedi che bea, cara da Dio? Non è il tuo tipo?”
“Sì - risposi - è bellina assai, è cara da Dio, piace molto anche a me, è
quasi il mio tipo, però io sto dicendo un’altra cosa”.
“Cossa vu to dire” gridò il veneto, sempre più rosseggiante e sfavillante
tra i vapori dell’acqua rovente e i fumi interni dell’alcol.
Temevo una sua invettiva; invece la voce emessa dalla faccia trascolorata
[3], si contrasse in un singhiozzo, poi tacque. Quindi con miglior labbia
[4], il giovane infatuato prese una grossa borsa messa al riparo sul
vertice dell’isoletta lapidea, l’aprì, tirò fuori una bottiglia di palinka,
ne bevve un paio sorsi, poi me l’allungò, dicendo quietamente: “ Manco male che
non sei finocchio. Mi saria dispiaso! Non fare storie, bevici sopra anca
ti, pesarese caro da Dio!”.
Pensai che la piscina calda nel pomeriggio offuscato eruttasse una oscurità
capace di ottenebrare le menti dei miei compagni di stanza, ma non lo dissi.
Anzi, assaggiai la palinka all’albicocca offerta da quel
ragazzo di Bassano del Grappa che dopo tutto trovavo simpatico: il liquore
ungherese mi sembrò più caldo dell’acqua rovente che mi aveva scottato le
gambe. Più avanti purtroppo tale brace liquida arrivò a non dispiacermi. Però
per fortuna, mi emancipai presto da quella strana consolazione. Grazie alle
donne mie benedette.
Note
1 Cfr. Dante, Inferno, XXIX, 6.
2 Cfr. Dante, Inferno, XXI, 135.
3 Cfr. Dante, Paradiso, XXVII, 21.
4 Cfr. Dante, Inferno, XIV, 67.
La secessione dalla compagnia che “in due si
scema”
Sorseggiata la palinka, conclusi la mia
lezione di pedagogia erotica dicendo con aria professorale: “ le ragazze non
amano il chiasso e le scene infantili, ma parole precise, corrispondenti a
fatti concreti. Cercano sicurezza non priva di tenerezza e ciascuna vuole
sentirsi prescelta, anche se di fatto scelgono loro, quando ne hanno la
possibilità”.
Non avevo ancora quasi nessuna esperienza di
femmine umane amanti, ma le donne ero già predisposto a capirle: mi avevano
fatto scuola quelle di casa: maestre imperiose, dure che non perdonavano
l’insuccesso del maschio.
Davanti a loro ero uno scolaro che deve
trovare e difendere la propria identità con una lotta continua e strenua. Tale
palestra era un luogo non soltanto di fatica e dolore ma anche di addestramento
e ammaestramento prezioso. Avevo detto parole non prive di senso riguardo ai
gusti delle femmine umane.
Danilo però se ne risentì, e, perduta la
pacatezza acquisita durante il breve simposio, gridò: “Tu sei proprio malato
mio caro, caro da Dio. Hai studiato troppo. Oppure non hai bevuto abbastanza.
Non vedi che bea che xe?”. Le sue parole mi parvero ebbre e non seppi cosa
rispondergli.
Fulvio, che aveva ascoltato con attenzione le
parole mie e le aveva capite, disse: “ Hai ragione, Gianni. Anzi, facciamo una
cosa: andiamo a cercarne due da un’altra parte. La piscina è grande e pullula
di belle ragazze. Noi qui perdiamo tempo “curando”[1] in quattro una che
nemmeno ci degna”.
“E’ ovvio - replicai - sempre più
incoraggiato - non può rispondere a tutti. Vieni Fulvio: andiamo in giro a
puntare come si deve”.
Veramente non sapevo come si fa, ma oramai
avevo preso la posa del logico, dell’intenditore, e dovevo sostenere la parte.
Intanto improvvisavo bluffando, poi l’avrei imparata sul campo. Così Fulvio e
io cominciammo a muoverci, mentre Danilo, rivolto a Ulderico gridava: “Cosa
hanno quei due da bravare? Dimmi tu se con una toseta tanto bea, e una bocia di
graspa a disposision, si deve criticare facendo i fighetti saccenti! Borghesi
padani! Non sanno cosa significhi vivere un’esistenza marxista leninista! Io
bevo palinka magiara, vodka russa, tutt’al più polacca, e fumo solo roba
albanese!”
Poi si placò un’altra volta e con labbia rabbonita
di nuovo, ripresa in mano la bottiglia diletta, concluse: “Be’, d’altra parte
facciano come gli pare, cari da Dio, benedeti putei. Adesso qui c’è più spasio
e meno concorrensa”. Non so se si riferisse alla fresca ragazza o alla palinka
all’albicocca. “Beviamoci sopra”. Quindi s’attaccò alla bottiglia e tacque.
Mentre ci allontanavamo da lì, Fulvio mi
domandò se avessi già avuto esperienza di sesso. Non l’avevo, e non volevo
simulare con lui né dissimulare, anzi aggravai il peso che mi opprimeva rispondendogli:
“No, mi fanno troppa paura”. Poi, con aria desolata, gli chiesi: è grave?”.
Fulvio, per sua umanità, mi rispose
senza irrisione né biasimo: “No, non avrai ancora incontrato una congeniale. Ma
qui ti rifai. Guarda che mare di passera c’è in questa piscina”.
Così cominciammo a scrutarle, ad avvicinarle,
ad abbordarle, per invitarle a uscire con noi, magari di sera.
Eravamo goffi però e, per avere successo,
contavamo, tristissimamente, sul fascino dello straniero, occidentale per
giunta e dotato di un’automobile: la scassata Seicento che nell’Ungheria di
quegli anni era comunque cosa rara, quasi da ricchi. Del resto tra noi e le
ragazzette di Debrecen, non c’era dialogo per la diversità degli idiomi.
Compresi subito che per il “puntaggio” era terreno
più adatto quello delle studentesse, le compagne di scuola dell’università
estiva.
In quel mese lontano capii molte cose sulle
donne e pure sugli uomini. Volevo imparare a qualsiasi costo: anche pagando con
grandi dolori e con l’espormi al ridicolo suscitato dall’ostensione dei miei
grossi difetti, la conoscenza delle creature senza le quali sentivo di non
poter vivere umanamente e felicemente qui sulla terra.
Tra i ventenni della mia generazione
sessualmente infelice, molti non avevano avuto esperienze erotiche; i maschi
però vantavano gran copia di amori e di femmine. Si gloriavano perfino delle
prostitute. Io invece capivo che la miseria e l’infelicità sessuale ci
riguardava tutti più o meno, maschi e femmine, perciò, mentre mi esponevo al
ludibrio degli altri pitocchi del sesso con l’epifania e l’apocalisse della mia
infelicità estrema, li compativo siccome avevo capito che loro, negando le
debolezze e le angosce comuni, dovevano averle ancora più grosse delle mie:
immense dovevano essere, ossia non più misurabili né attraversabili per
giungere a rive e porti di salvezza. Io invece volevo varcare quell’oceano di
tempestoso dolore, anche se avevo a disposizione soltanto un canotto bucato, o
una zattera dal legno infradiciato e rischiavo non uno ma cento naufragi. Per
l’esame di “greco uno” avevo dovuto leggere tutta l’Odissea e avevo
imparato dal “poeta sovrano (…) che sovra li altri com’aquila vola”[1] non solo i
tecnicismi linguistici richiesti dai professori dell’epoca.
Insomma volevo percorrere, a qualsiasi
costo, qualunque tragitto mi avrebbe portato prima dentro il corpo, poi nella
mente e nel cuore delle femmine umane belle e fini.
La mia Itaca era un’isola con tante
donne amorevoli nei miei confronti.
Come la mamma, la nonna e le zie dopotutto.
note
[1] Un vocabolo rivelatore della parmensitas
mai dissimulata da Fulvio. In questo contesto significa “corteggiare” che
però è meno espressivo. Fa parte del carattere sano la fedeltà alla propria
nascita linguistica. Vivo a Bologna da più di 55 anni ma conservo la mia
pisaurensitas nel parlare. La riconoscono dal fatto che allunghiamo le vocali,
tipo : “cosa diiici, cosa faai, sei maatto?”. Sono i plebei mentali quelli che
dopo un paio di mesi di trasferimento in età adulta scimmiottano penosamente e
ridicolmente la pronuncia della nuova città per sentirsi integrati e
“arrivati”. E’ un segno di miseria.
[2] Cfr. Dante Inferno,
IV, 88 e 96. Ho fatto queste due citazioni come pure altre, non per misero
sfoggio delle mie modestissime conoscenze, ma per significare che gli autori
accrescitori della nostra umanità, devono ancora e sempre venire letti e
ricordati se vogliamo evitare l’imbestiamento. Con buona pace degli animalisti.
Ogni specie ha una sua funzione nel mondo creato dall’ottimo Demiurgo.
La lezione di Fulvio
Fulvio mi fu di aiuto non piccolo: mi incoraggiò a
pensare con la testa mia, ad abbattere le lunghe mura dei luoghi comuni,
l’erta, scivolosa, restrittiva barriera dei pregiudizi inculcati dall’ambiente
chiuso di mia provenienza. L’amico parlava esprimendo idee, non preconcetti.
Allora erano vere e proprie scoperte per me.
Una volta disse, ricordo, che la bellezza fisica è un
valore reale, una forza potente poco riconosciuta, a parole, dai più, perché
solo pochi possono attribuirsela plausibilmente, mentre il valore
dell’intelligenza che molti ardiscono ascriversi senza suscitare risate, almeno
finché stanno zitti, viene celebrato quasi da tutti, perfetti imbecilli
compresi.
Decisi allora di migliorare il mio aspetto e iniziai
presto a farlo.
Fulvio mi induceva a riflettere e mi insegnò a influenzare
le donne belle e fini. Infatti la rara capacità del pensiero autonomo, una
volta coltivata con esperienze vissute e altre letture, mi fu indispensabile
per interessare e commuovere le migliori femmine umane cui già in quel tempo
aspiravo, sebbene sprovveduto ancora di mezzi adeguati. Quelle cui agognavo con
tutte le brame infatti non si sarebbero accontentate di filastrocche costituite
da stupidi e nauseanti luoghi comuni, né di sciocchezze infantilmente
insensate, in quanto esigevano a buon diritto un uomo dotato della capacità di
pensare, parlare, comportarsi con autonomia, intelligenza, sicurezza. Oltre che
di un aspetto attraente, beninteso. Tale tipo di donna in grado di individuare
e scegliere il meglio sarebbe stata due anni più tardi Helena di Praga, poi
dopo altri tre anni l’Helena finlandese e l’anno seguente Kaisa e altri due
anni dopo Päivi delle quali racconterò le storie grandi e meravigliose; tra
loro ci furono persone insignificanti, quindi dopo altri quattro anni di
paccottiglia scarsa di significati, conobbi meravigliosamente Ifigenia, e, in
seguito, altre creature di valore vario.
Contro i razzisti che vogliono dare il potere alle
donne comunque esse siano, purché biologicamente femmine, ribadisco che le
donne, come gli uomini, non sono tutte uguali. Ne ho conosciute di colte e di
ignoranti, di buone e di cattive, di generose e di egoiste, e così via. Non so
se siano disoneste o solo cretine quelle che esultano perché una tale ancora
del tutto sconosciuta, è salita al potere. Mi intendo un poco di ministri e
ministre della pubblica istruzione e li valuto uno per uno. Non credo che
quella mai neppure maturata alle medie superiori, non ne ricordo il nome, o la
Azzolina, pur non antipatica e belloccia, siano state più brava di Tullio De
Mauro. Né che la Pivetti sia stata all’altezza della Iotti come presidente
della Camera. Né ritengo che Cicciolina valesse quanto Tina Anselmi quale
parlamentare. Così le mie amanti si trovano in una scala che va dalle ottime
qui ricordate alle mediocri innominate, alle pessime innominabili.
Lo stesso dico degli uomini che ho conosciuto e
perfino dei miei parenti.
Chi vuole negare l’individualità di ogni persona è il
mediocre, il quale assume il conformismo dogmatico del gregge dove si imbranca,
un mucchio uniforme dove la persona dotata di spirito critico non entra, quindi
non può smascherarlo né confutarlo.
Costui, il conformista, Si sente tutelato e protetto
dall’identità gregaria che ha preso dal branco.
Sia chiaro che sono contento se una persona capace e
onesta arriva al potere. Donna o uomo che sia. Molto bene ha detto Antonella
Polimeni dal primo dicembre Magnifica Rettrice dell’università la Sapienza di
Roma: “Il mio motto sulla questione di genere è ‘pari opportunità per pari
capacità”.
Il ritorno. La liberazione dal terrore
dell’identità frantumata
Il beneficio più grande di queste prima
esperienza nell’università estiva di Debrecen fu che, tornato a Pesaro poi a
Bologna, mi sentii meno insicuro e infelice di quando ero partito in cerca di liberazione.
Il viaggio di ritorno lo feci con Fulvio e Luigi nella
Seicento; veramente questa arrivò soltanto a Lova di Campagna Luppia, e di lì
dovemmo proseguire in corriera fino alla stazione di Bologna, quindi prendemmo
strade diverse per tornare alle case materne, ciascuno alla sua. L’automobile decrepita,
dopo averci preannunciato la propria morte ansimando sfinita sulle rampe del
Tarvisio, superato a fatica il passo, aveva fatto altri duecento chilometri
aiutata dalla strada più pervia, poi verso sera era spirata, lì, al confine tra
la laguna veneta e la grande pianura padana, dove vedemmo tramontare un sole
esausto, offuscato dai moscerini e dalle brume dell’estate morente anche lei.
Non potevamo chiedere aiuto perché il “maledetto e
abominoso ordigno”[1] ossia il cellulare
che avrebbe invaso il pianeta adulterando i rapporti umani ancora non esisteva,
sicché passammo la notte in una locanda campagnola scambiandoci impressioni e
riflessioni sul mese passato insieme aiutandoci a vicenda e volendoci bene. Se
ci fosse stato il telefonino e posto uno di noi tre, letterati ipotecnologici
lo avesse avuto[2], avremmo perduto un
simposio e uno scambio proficuo di pensieri non volgari né banali, anzi ricchi
di pathos e di logos. Contento di ciò, saltai la cena. Mi ero già avviato sulla
strada della resurrezione.
La fine della vecchia automobile ebbe una conseguenza
positiva siccome il male viene per giovare quando il destino prende il verso
giusto, quello che favorisce la vita.
Poco tempo dopo infatti la zia Rina mi regalò la Mini
Minor da cui trassi altra libertà e nuovo coraggio. Fare il povero poi divenne
una posa anche non priva di qualche eleganza, ma la persona mia non si
presentava più trascurata e addirittura rattoppata. In casa avevano capito che
non favorivano i miei studi e la mia carriera, lesinandomi tutto, anzi mi
gettavano nell’inerzia dello sconforto. Ora non trarrei coraggio da
un’automobile, anzi ne ho una che lascio sempre in garage, e giro sempre in
bicicletta, ma nella mia debolezza di allora, uscito dalle ristrettezze nelle
quali mi avevano tenuto, ebbi un aiuto anche da quell’automobile che in quel
tempo era di moda.
Salutati gli amici che non avrei più perduto e, terminato
il viaggio sapendo più cose, mi ritrovai a Pesaro già piuttosto cambiato, e non
in peggio: non ero più certo che la mia vita sarebbe trascorsa tutta tra le
umiliazioni, lo squallore e il dolore come era caduta di degradazione in
degradazione dopo il liceo: fino all’età del ferro arrugginito quando aveva
trionfato la brutalità calpestandomi il cuore e il cervello, l’anima insomma.
A Debrecen avevo incontrato ragazzi buoni che mi
chiamavano per nome, non con epiteti carichi di ludibrio, mi parlavano senza
insultarmi e mi ascoltavano con attenzione; poi avevo trovato giovani donne che
mi avevano sorriso e si erano lasciate avvicinare da me in vari modi, tutti
positivi e accrescitivi per me; avevo conosciuto persone che avevano riso e
scherzato con me, non di me, e mi ero convinto che quel rispetto era giusto
siccome io non ero stupido, ignorante e cattivo: lo erano piuttosto quanti mi avevano
maltrattato dopo il liceo per risentimento del mio essere stato egregio nel
Terenzio Mamiani di Pesaro e per la soddisfazione di vedermi smarrito,
disorientato, abbattuto. Avevo del resto capito che quel rancore era stato
scatenato non solo dal mio essere bravo ma anche dal narcisismo egoista con cui
mi ero presentato per anni. Dovevo dunque tornare a primeggiare non per
vantarmene, bensì per fare del bene: il mio bene e quello degli altri, insomma
volevo diventare benefico con l’aiuto di amici e ancor più di una donna del mio
stampo, della mia levatura, della mia razza spirituale. Ma questa dovevo
incontrarla. Un grande aiuto mi verrà dal movimento studentesco dei due anni
seguenti.
note
[1] Ariosto, Orlando
Fuioso, IX, 91, 1
[2] Fulvio e Luigi
resistettero a lungo, io non l’ho mai avuto.
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