Difficile e tardiva è la distinzione tra mito e storia:
“l’età eroica, che coinciderebbe press’a poco con l’età micenea dei nostri libri di storia, era caratterizzata, secondo i Greci, da certi elementi divini, che nessun “razionalismo” poteva eliminare. Ecateo[1] stesso riferisce che gli Egiziani calcolavano ben 345 generazioni di soli uomini, generazioni che non avevano avuto contatto con gli dèi. Ma non riusciva a buttar via, per questo confronto egiziano, la sua convinzione che gli dèi avessero avuto rapporti con gli uomini, in Grecia, fin verso un’epoca che coinciderebbe, grosso modo, con il nostro 1100 a. C. (la fine dell’età micenea-submicenea). Infatti, imperturbabile, continuava ad affermare, per esempio: “A Danae si unisce Zeus”… questo “genealogo”, cioè studioso del mondo eroico, non può negare il presupposto fondamentale di quella storia eroica ch’egli tratta: il commercio, cioè, fra uomini e dèi. All’incirca nello stesso tempo, l’ateniese Ferecide trattava anch’egli “genealogie”; esse arrivavano giù fino alla piena età storica (per lo meno fino a Milziade il Vecchio, ecista del Chersoneso verso il 540 a. C.); ma prendevano le mosse dall’età degli dèi, e difatti la sua opera si chiamò anche Teogonia, oltre che Storie. Al solito: fra mito e storia non c’era distinzione. Persino Tucidide ricorderà, con rispetto, tradizioni eroiche: per esempio, quella di Alcmeone colonizzatore delle Echinadi, le isole derivate dai detriti dell’Acheloo”[2].
Nel mito parastorico possono entrare i racconti della cui veridicità dubitano gli stessi storiografi che li riferiscono. Vediamone alcuni esempi. Erodoto fa questa dichiarazione metodologica a proposito della diceria secondo la quale le ragazze indigene con penne di uccello spalmate di pece traevano pagliuzze d’oro da un lago situato in un’isola posta davanti alla costa africana: “tau'ta eij mh; e[sti ajlhqevw~ oujk oi\da, ta; de; levgetai gravfw” (4, 195, 2), queste cose non so se sono vere, ma quello che si dice lo scrivo. E più avanti a proposito di un’intesa tra i Persiani e gli Argivi: “ejgw; de; ojfeivlw levgein tav legovmena, peivqesqaiv ge me; n ouj pantavpasin ojfeivlw” (7, 152, 3), io sono tenuto a dire le parole dette, a credere a tutte invece non sono tenuto.
Tito Livio nel suo proemio scrive: “Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decōra fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat” (Praefatio, 6), i racconti tramandati che risalgono al periodo precedente la fondazione della città e quelli addirittura anteriori alla città da fondare, racconti che si addicono più alle narrazioni poetiche che ai seri documenti storici, non ho intenzione di confermare né di smentire. Alle antichità si concede questa licenza di rendere più venerabili i primordi delle città mescolando l’umano con il divino.
Quindi Curzio Rufo: “Equidem plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec subducere, quae accepi” (Historiae Alexandri Magni, 9, 1, 34), per conto mio riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la sento di confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle che ho ricevuto. Quindi, a proposito del cadavere di Alessandro che giaceva nel sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo estivo, non ancora degenerato: “Traditum magis quam creditum refero” (10, 10, 12).
Pure Arriano a proposito della morte di Alessandro riporta una notizia alla quale non crede, della quale anzi afferma che dovrebbero vergognarsi quanti l’hanno scritta: che il macedone, sentendosi morire, voleva gettarsi nell’Eufrate per sparire accreditando la fama di una sua assunzione in cielo, in quanto nato da un dio. Glielo impedì Rossane ed egli le disse che lo privava della gloria di essere nato dio. Ebbene lo storiografo di Nicomedia precisa che ha riportato queste notizie wJ" mh; ajgnoei'n dovxaimi perché non sembri che io le ignori, più che per il fatto che esse sembrino pista; ej~ ajfhvghsin, (Anabasi di Alessandro, 7, 27, 3) credibili a raccontarle.
Inoltre Tacito a proposito della morte di Otone
Ut conquirere fabulosa et fictis oblectare legentium animos procul
gravitate coepti operis crediderim, ita vulgatis traditisque
demere fidem non ausim. die, quo Bedrĭaci certabatur, avem
invisitata specie apud Regium Lepidum celebri luco conse-
disse incolae memorant, nec deinde coetu hominum aut cir-
cumvolitantium alitum territam pulsamve, donec Otho se ipse
interficeret; tum ablatam ex oculis: et tempora reputantibus
initium finemque miraculi cum Othonis exitu competisse (Historiae, II, 50), come reputerei lontano dalla serietà dell’opera iniziata andare in cerca di miti e dilettare le anime dei lettori con delle invenzioni, così non oserei togliere credito a tradizioni diffuse.
Nel giorno in cui si combatteva a Bedriaco, gli abitanti ricordano che un uccello di aspetto mai visto si posò in un frequentato bosco sacro presso Reggio Emilia, e che non venne spaventato né scacciato di lì dalla grande quantità delle persone né degli uccelli che svolazzavano intorno, finché Otone non si fu ucciso; allora scomparve alla vista; e per chi tiene conto dei tempi, il principio e la fine del prodigio coincide con la fine di Otone.
Concludo relativizzando ogni affermazione con Calvino: “Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori”[3].
Giovanni Ghiselli 1 luglio 2022 ore 11, 25
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[1] Ecateo di Mileto, il primo logografo, nato verso il 550, scrisse Genealogie che volevano contrapporre una visione razionale a quella tradizionale: "Ecateo di Mileto dice così: scrivo queste storie come a me sembrano vere; infatti le tradizioni dei Greci sono molte e, a parer mio, anche ridicole ("oiJ ga; r JEllhvnwn lovgoi polloiv te kai; geloi'oi, wJ" ejmoi; faivnetai, eijsivn", fr. I Jacoby).
L’altra opera è Perihvghsi" gh'" (o Perivodo" gh'"), comunque una Descrizione della terra con una carta allegata.
Era una descrizione etnica e geografica del mondo conosciuto divisa in due libri: uno dedicato all'Europa, l'altro all'Asia (ndr).
[2] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, pp. 78-79.
[3] I. CALVINO, Leggerezza, in Lezioni, americane. Sei proposte per il prossimo millennio, p. 8-9.
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