Nel prologo il fantasma di Polidoro racconta l’antefatto.
Gli spettri
Gli spettri nell’Odissea sono teste svigorite ((" ajmenhna; kavrhna", XI, 29). Vogliono avvicinarsi al sangue degli animali sgozzati e devono berlo per esprimersi umanamente e veracemente.
Altrettanto nella Tebaide di Stazio vulgus exangue (IV, 519).
Platone e Cicerone sostengono il contrario: per Platone è proprio la psyché immortale a costituire la vera essenza di ciascuno, nel suo intimo, nel corso della vita[1]..
Cicerone ribadisce la posizione platonica con "mens cuiusque is est quisque non ea figura, quae digito demonstrari potest " (De Republica , VI, 26), la mente di ciascuno è quel ciascuno, non la figura che può essere mostrata con un dito.
Polimestore e l’auri sacra fames
Virgilio nell'Eneide vede il desiderio dell'oro come motore di efferati delitti e ricorda quello del barbaro re tracio:" …Polydorum obtruncat et auro/ vi potitur. Quid non mortalia pectora cogis , /auri sacra fames!... ", massacra Polidoro e con violenza si impossessa dell'oro. A cosa non spingi i cuori umani, maledetta fame dell'oro! (III, 55-57).
Ma veniamo all’Ecuba di Euripide
Lo spettro di Polidoro racconta che un altro spettro, quello di Achille, reclama il sacrificio di Polissena.
Su questo sacrificio c’era una divisione di pareri all’interno dell’ esercito greco, prima che l’artista della parola persuasiva Odisseo oJ poikilovfrwn (131) l’uomo dalla mente variopinta cioè scaltro, kovpi" imbroglione, hJduvlogo" dal dolce eloquio, dhmocaristhv" adulatore del popolo (vv. 132), avesse convinto la truppa a non rinnegare il Pelide, il migliore dei Greci: nessun caduto doveva andare a lamentarsi con Persefone del fatto che gli Elleni non onorano i caduti.
La paura di Polissena, come quella di Ifigenia in Aulide, si converte in eroismo.
La principessa soffre per la madre piuttosto che per sé.
Odisseo è il demagogo ingrato: Ecuba l’aveva salvato durante la guerra e non riceve il contraccambio della salvezza della figliola.
Agamennone non rifiuta di aiutare Ecuba ma deve stare attento alla propria reputazione.
Tu- dice a Ecuba che gli ha chiesto aiuto- hai in me una persona ben disposta e tale che sarebbe rapida nell’aiutarti tacuvn prosarkevsai , però io divento lento se verrò incolpato dai Greci-bradu;n d jjAcaioi'" eij diablhqhvsomai (863).
Da queste parole Ecuba inferisce che nemmeno il capo supremo il cui compito è il comando, neppure lui è una persona libera.
“non c'è tra i mortali chi sia libero oujk e[sti qnhtw'n o{sti" e[st j ejleuvqero",:/infatti si è schiavi delle ricchezze oppure della sorte-h] crhmavtwn ga;r dou'lov" ejstin h] tuvch", -/o la folla della città o le leggi scritte h] plh'qo" aujto;n povleo" h] novmwn grafaiv- / impediscono di usare l’orientamento del proprio giudizio"(vv. 864-865).
Sono versi chiave.
Segue la vendetta di Ecuba consentita da Agamennone.
Ecuba e le Troiane acciecano Polimestoe e ne ammazzano i figli. Anche Ecuba, come Medea, recupera l’identità attraverso l’assassinio. Ma l’acciecato profetizza che diventerà una cagna
Polimestore rivela a Ecuba che andando in Grecia salirà sull’albero della nave e di lì si getterà nel mare dove kuvwn genhvsh/ puvrs j e[cousa devrgmata (1265 cfr. devrkomai e dravkwn ) diventerai una cagna dallo sguardo di fuoco.
Cfr. Ovidio Metamorfosi XIII,
Troia simul Priamusque cadunt, priameia coniunx,
perdidit infelix hominis post omnia formam
externasque novo latratu terruit oras
longus in angustum qua clauditur Hellespontus (404-407) dove si restringe il lungo Ellesponto
quindi i versi 399-575.
Quando la folla dei Traci sdegnata per lo scempio subito da Polimestore le lancia contro sassi e dardi, Ecuba prende a morsi un sasso rictuque in verba parato-latravit conata loqui (568-569) preparate le fauci alle parole, cercando di dire, latrò
Cfr. Dante :
E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva
sì che ‘sieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane,
tanto il dolor le fe’ la mente torta (Inferno, XXX, 13-21).
Cerchio VIII, decima bolgia, Falsari continua
Bologna 7 luglio 2022 ore 18, 10
[1] “In questa stessa vita, ciò che costituisce l’io di ciascuno di noi non è altro che l’anima”, Leggi, XII, 959a, 7-8; cfr. anche Alcibiade, I, 130c; Fedone, 115 c-d; Repubblica, V, 469d.
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