Ieri sera qui a Pesaro ho visto il film Effi Briest del geniale, rimpianto regista Fassbinder morto ante diem quaranta anni fa, a 37 anni.
Il film è tratto dal romanzo Effi Briest (1894) di Theodor Fontane che non ho ancora mai letto, ma potrebbe comporre una trilogia con Madame Bovary e Anna Karenina perché racconta la storia di un matrimonio non felice, di un adulterio e della morte dell’adultera. Un tema trattato con rara eleganza e delicatezza dal regista, un coetaneo che ammiravo già quando eravamo entrambi molto più giovani.
Brava anche la sua attrice pereferita Hanna Schygulla, la protagonista, interpre di Effi, una ragazza maritata troppo presto con un uomo che non amava, per convenienza presunta.
A proposito dei matrimoni di questo tipo devo ricordare anche I Buddenbrook di T. Mann.
L’adulterio della giovanissima Effi dunque deriva dalla mancanza di congenialità tra i coniugi. Lui ha venti anni più di lei ed è un uomo tutto teso a fare carriera, mentre il corteggiatore subentrato tosto, è più fantasioso, stravagante e comunicativo, insomma più simile a Effi. In certi casi il cosiddetto tradimento è un fatto naturale. Ma le convenienze e le convenzioni lo condannano e sono particolarmente severe contro la donna. In questi ultimi 20 anni è sopraggiunto un certo lassismo nei confronti di questa trasgressione: personalmente non credo che sia un male tale tolleranza. Tengo precisare però che quanti pensano di non potere mantenere la fedeltà promessa non dovrebbero nemmeno giurarla davanti a Dio chiunque egli sia.
Vediamo l’esempio storico e il paradigma mitico dell’adulterio.
Cambiare amante non è una scelleratezza: fa parte dell’eterno gioco erotico.
Augusto emanò diverse leggi in favore del matrimonio e contro l’adulterio e arrivò a condannare alla relegatio in insulam le due Giulie, figlia e nipote per la loo dissolutezza: l’imperatore voleva ripristinare gli antiqui mores che comprendevano la pudicizia della donna la quale doveva essere prima vergine poi univira.
Ebbene Ovidio Nasone scrisse dei simpatici versi in favore dell’adulterio che del resto aveva un paradigma mitico nel donnaiolo Zeus-Giove e in altri dèi.
Nelle Troiane di Euripide Elena si difende sfidando Menelao a punire Afrodite che l'ha trascinata, se ne è capace:" punisci la dea e diventa più forte di Zeus il quale ha potere sugli altri dèi, ma di quella è schiavo (keivnh" de; dou'lov" ejsti: suggnwvmh d j ejmoiv): per me dunque ci sia il perdono" (vv. 948-950).
Ecuba però, l'accusatrice, ribatte dicendo che le stoltezze (ta; mw'ra) sono tutte Afrodite per i mortali e correttamente il nome della dea comincia come quello della follia (ajfrosuvnh" , vv. 989-990).
il Discorso Ingiusto nelle Nuvole[1] di Aristofane consiglia a Fidippide: se ti sorprendono in adulterio, rispondi al marito che non hai fatto niente di male, poi fai ricadere l'accusa su Zeus, di’ che anche lui è più debole di amore e delle donne ( "kajkei'no" wJ" h{ttwn e[rwtov" ejsti kai; gunaikw'n", v.1081). Il riferimento è ai tanti adultèri di Zeus che possono coonestare quelli del giovane allievo istruito dall' a[diko" lovgo".
"La sofistica ne approfitta, raccogliendo dal mito gli esempi sfruttabili nel senso della dissoluzione e relativizzazione naturalistica ch'essa fa di tutte le norme vigenti. Se la difesa in giudizio tendeva in passato a provare che il caso era conforme alle leggi, ora si attacca la legge e il costume stesso, cercando di dimostrarli manchevoli"[2].
Nel prologo dell'Ippolito di Euripide la dea Afrodite entra in scena e si presenta come dea potente e non oscura sia tra i mortali sia dentro il cielo (vv. 1-2). Nel primo episodio la Nutrice cerca di spingere Fedra all'adulterio presentando Cipride come irresistibile (ouj forhtov" ) se irrompe in tutta la sua potenza (v. 443).
Nel terzo Stasimo dell'Antigone di Sofocle la dea Afrodite viene qualificata dal Coro come a[maco" (v. 800), ineluttabile.
Anche Virgilio usa questo topos nell' ecloga X che racconta le insuperabili pene amorose di Cornelio Gallo:"omnia vincit Amor, et nos cedamus amori " (v. 69) tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo.
Catullo ricorda i plurima furta Iovis (68 A, v. 140) per combattere la propria gelosia e accettare le scappatelle di Clodia:"Quae tamen etsi uno non est contenta Catullo,/rara verecundae furta feremus erae,/ne nimium simus stultorum more molesti./Saepe etiam Iuno, maxima caelicolum,/coniugis in culpa flagrantem cohibuit iram,/noscens omnivoli plurima furta Iovis " (vv. 135-140), se Clodia però non si accontenta del solo Catullo, sopporterò i tradimenti rari della riservata signora, per non essere troppo fastidioso, come sono gli stolti. Spesso anche Giunone, la più grande tra le dèe del cielo, frenò l'ira che bruciava davanti alla colpa del marito, ammettendo i moltissimi adultèri del marito prenditutto.
Per i suoi versi Ovidio fu accusato di essersi fatto maestro di immondo adulterio:"arguor obsceni doctor adulterii " (Ars Amatoria. II, 212).
Il bell'aspetto secondo il poeta peligno contiene la promessa di un' indulgenza pressocché plenaria riguardo agli eventuali difetti o vizi morali: il poeta di Sulmona negli Amores[3] è comprensivo riguardo all'instabilità e alla non affidabilità delle giovani donne: il tradimento infatti non sciupa la bellezza e perfino gli dèi lo concedono:" Esse deos credamne? Fidem iurata fefellit,/et facies illi quae fuit ante manet/...Longa decensque fuit: longa decensque manet./Argutos habuit: radiant ut sidus ocelli,/per quos mentita est perfida saepe mihi./Scilicet aeterni falsum iurare puellis/di quoque concedunt, formaque numen habet " (Amores , III, 3, 1-2 e 8-12), devo credere che ci sono gli dèi? Ha tradito la parola data,/eppure le rimane l'aspetto che aveva prima...Era alta e ben fatta; alta e ben fatta rimane./Aveva gli occhi espressivi: brillano come stelle gli occhi,/con i quali spesso la perfida mi ha ingannato./Certo anche gli dèi eterni permettono alle ragazze/di giurare il falso, e la bellezza ha una potenza divina.
Ovidio conclude dicendo che dio è un nome senza sostanza, oppure, se esiste, ama le belle fanciulle e certamente ordina che solo loro abbiano tutto il potere:"si quis deus est, teneras amat ille puellas:/nimirum solas omnia posse iubet " (Amores , III, 3, 25-26).
Augusto lo punì relegandolo a Tomi-oggi sul mar Nero, in Romania dove hanno eretto una statua del poeta- ma le diverse leggi dell’imperatore Augusto non poterono impedire il dilagare dell’adulterio poiché corruptissima republica plurimae leges (Tacito, Annales III, 27).
Negli Amores leggiamo il discorso esortativo du una lena:"Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae/noluerint habiles pluribus esse viris;/nunc Mars externis animos exercet in armis,/at Venus Aeneae regnat in urbe sui./Ludunt formosae: casta est quam nemo rogavit;/aut si rusticitas non vetat, ipsa rogat (I, 8, 39 sgg.), forse le sporche Sabine sotto il regno di Tazio non avranno voluto essere disponibili per più uomini; ora Marte tiene occupati gli animi in guerre straniere, ma è Venere che regna nella città del suo Enea. Le belle si divertono: è casta quella cui nessuno ha fatto proposte; oppure se non lo impedisce la selvatichezza, è lei che fa le proposte.
E ovviamente non sono sempre proposte decenti.
Seneca, notando la diffusione dell'adulterio nel De Beneficiis [4] , ripropone l'idea contenuta in casta est quam nemo rogavit con altre parole sarcastiche e sdegnate:"Argumentum est deformitatis pudicitia" (III, 16, 3), la pudicizia è indizio di bruttezza. La pudicizia rende manifesta (arguit) la deformità.
Torniamo agli Amores del poeta di Sulmona.
Vito un passo di III 4 (37 sgg.), l'elegia dove si vuole dimostrare che è meglio lasciare le puellae senza sorveglianza: Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx ,/et notos mores non satis Urbis habet,/in qua Martigenae non sunt sine crimine nati,/Romulus Iliades Iliadesque Remus " (p. 186).
Aggiungo la traduzione e un poco di commento.
E' davvero rozzo quello che una moglie adultera offende, e non conosce bene i costumi di Roma nella quale i figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il figlio di Ilia Remo.
Insomma il marito che, tradito, si adonta, è un ignorante integrale.
“D’altra parte il Marito ahi quanto spiace!
E lo stomaco move ai dilicati
Del vostr’orbe leggiadro abitatori,
qualor de’ semplicetti avoli nostri
portar osa in ridicolo trionfo
la rimbambita Fe’, la Pudicizia
Severi nomi!
” (Parini, Il Mattino , vv. 292-298).
"Per Ovidio Roma non è la regina delle città che detta legge al genere umano: è invece principalmente la città dell'amore. Tutto invita ad amare: strade, piazze, portici offrono mille bellezze giunte dai quattro punti cardinali per conquistare i loro vincitori…Persino l'antico Foro diventa luogo di appuntamenti e tende trappole ai giureconsulti:"et fora conveniunt-quis credere possit-amori"[5]"[6].
Ma il luogo più indicato per corteggiare le belle donne è il teatro.
Le donne più raffinate si precipitano agli spettacoli ben frequentati:"Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae/; ille locus casti damna pudoris habet" (Ars, I, vv. 99-100), vengono per osservare, vengono per essere loro stesse osservate; quel luogo contiene perdite del casto pudore.
Pesaro 6 luglio 2022 ore 10, 05
giovanni ghiselli
[1] Del 423 a. C.
[2]W. Jaeger, Paideia 1, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1978, p. 630.
[3] Raccolta di elegie in tre libri. La prima edizione è di poco posteriore al 20 a. C.; la seconda, rielaborata, uscì quasi venti anni dopo, intorno all' 1 a. C.
[4] Del 64 d. C.
[5] Ars amatoria, I, 79. Anche i fori si confanno all'amore, chi potrebbe crederlo?
[6] P. Grimal, L'amore a Roma, trad. it. Aldo Martello, Milano, 1964, p. 140.
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