Nel Gorgia c’è il racconto del giudizio delle anime. In questo dialogo platonico Socrate dice a Callicle, il sofista fautore del diritto del più forte, che al tempo di Crono e all’inizio del regno di Zeus, c’erano giudici viventi che giudicavano uomini ancora vivi, emettendo sentenze nel giorno in cui era destino che i giudicati morissero. Ma i giudizi erano errati (kakw`~ ou\n aiJ divkai ejkrivnonto, 523b). Così succedeva che nel carcere del Tartaro finissero i giusti e nelle isole dei beati i malvagi.
Zeus comprese che gli errori giudiziari dipendevano dal fatto che i giudici vivi emettevano sentenze su dei vivi, e questi potevano trarre in inganno poiché le anime malvagie erano rivestite con corpi attraenti, autorizzate da stirpi illustri, coperte da ricchezze, e aiutate da molti testimoni che davano false testimonianze (523c).
I giudici ne restavano impressionati e condizionati.
Allora Zeus disse che gli uomini non dovevano conoscere in anticipo il giorno della loro morte. Inoltre sarebbero stati giudicati del tutto privi di orpelli, cioè da morti. Anche il giudice doveva essere nudo e morto, così da penetrare direttamente con lo sguardo nell’anima di ciascun giudicato. E veniva vietato il seguito di parenti.
Zeus designò quali giudici tre figli suoi: Minosse[1] e Radamanto[2] provenienti dall’Asia, Eaco[3] dall’Europa. Il giudizio doveva avere luogo nel prato di asfodeli, ejn th`// triovdw/ ejx h|~ fevreton tw; oJdwv (524a) nel triodo dal quale si dipartono due vie: una porta all’isola dei beati, l’altra al Tartaro[4].
Socrate prosegue il racconto ricordando a Callicle che i cadaveri conservano segni della vita vissuta. Se uno da vivo aveva le membra rotte o contorte (kateagovta mevlh h] diestrammevna, 524c), tali deformità sono evidenti pure nel cadavere. Ebbene, questo avviene anche per l’anima che prende delle segnature secondo il modo di comportarsi degli uomini.
Quando il Gran Re d’Asia, per esempio, o un altro sovrano si presenta davanti a Radamanto, questo vede che l’anima di molti dinasti è piena di piaghe (oujlw`n mesthvn) causate da spergiuri e ingiustizia (uJpo; ejpiorkiw`n kai; ajdikiva~, 525a) che marchiano l’anima.
Tutto è distorto dalla menzogna e dalla impostura e non c’è nulla di retto poiché l’anima è cresciuta lontana dalla verità (panta skolia; uJpo; yeuvdou~ kai; ajlazoneiva~ kai; oujde;n eujqu; dia; to; a[neu ajlhqeiva~ teqravfqai).
Radamanto vedendo l’anima piena di disordine e bruttura (ajsummetriva~ te kai; aijscrovthto~ gevmousan), la caccia direttamente e con ignominia in carcere, dove subirà i giusti patimenti.
Le anime curabili, qui nella terra e nell’Ade, traggono giovamento dalle sofferenze e dai dolori. E’ il tw`/ pavqei mavqo~ di Eschilo[5].
Ma ci sono anche quelli che hanno coomesso ingiustizie estreme e per queste sono diventati incurabili (ajnivatoi525c), ebbene questi restano sospesi nel carcere dell’Ade a fare da esempi negativi: la visione delle loro pene diventa un monito per quelli che li vedono. La maggior parte di questi esempi negativi sono tiranni, re, dinasti e politici.
Omero ha voluto significare questo collocando tra i tormenti dell’Ade Tantalo, Sisifo e Tizio[6]. Tersite e altri che furono malvagi da privati cittadini, non subiscono pene eterne. Socrate ne deduce che i più malvagi appartengono al numero dei potenti, anche se non è detto che tutti i potenti siano dei farabutti. Alcuni sono delle eccezioni alla regola della loro casta e sono da ammirare poiché è meritorio vivere da persone giuste avendo la possibilità di fare del male.
Del grande re di Persia in precedenza Socrate aveva detto a Polo che ignorava se fosse felice in quanto non sapeva come stesse a educazione e a giustizia (ouj ga;r oi\da paideiva~ o{pw~ e[cei kai; dikaiosuvnh~ , Gorgia, 470e).
Sono questi i criteri di giudizio della felicità.
Note
[1] Cfr. Odissea, XI, 568-571, Virgilio, Eneide, VI, 432 e Dante Inferno , V, 34 e sgg.
2Cfr. Odissea, IV, 563-565
3Cfr. Pindaro, Istmica VIII, 26
4Cfr. Virgilio, Eneide VI: hic locus est, partis ubi se via findit in ambas,
Questo è il luogo dove la via si divide in due parti.
E continua:
la destra che tende sotto le mura del grande Dite,
per di qua la nostra via verso l’Elisio; ma la sinistra dei malvagi
mette in atto le pene e all’empio Tartaro invia”.
5Agamennone, v. 177.
6Cfr. Odissea, XI, 576-600.
Bologna 4 luglio 2022 ore 10
giovanni ghiselli
p. s
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[1] Cfr. Odissea, XI, 568-571, Virgilio, Eneide, VI, 432 e Dante Inferno , V, 34 e sgg.
[2] Cfr. Odissea, IV, 563-565
[3] Cfr. Pindaro, Istmica VIII, 26
[4] Cfr. Virgilio, Eneide VI: hic locus est, partis ubi se via findit in ambas,
Questo è il luogo dove la via si divide in due parti.
E continua:
la destra che tende sotto le mura del grande Dite,
per di qua la nostra via verso l’Elisio; ma la sinistra dei malvagi
mette in atto le pene e all’empio Tartaro invia”.
[5] Agamennone, v. 177.
[6] Cfr. Odissea, XI, 576-600.
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