Riferite queste parole, il portavoce di Lachesi gettò le sorti con il turno della scelta, e ognuno tirò su quella che aveva vicino. Er non poté farlo.
Quindi il prfhvth~ mise in terra davanti a loro svariati modelli di vite: umane e di animali.
C’erano vite di tutti i tipi, e anche mescolanze di tipi.
Il profhvth~ aggiunse che anche chi sceglieva per primo non doveva essere negligente, e l’ultimo non doveva scoraggiarsi ma scegliere con senno: mhvte oJ a[rcwn aiJrevsew~ ajmeleivtw mhvte oJ teleutw`n ajqumeivtw (619b).
Socrate che fa questo racconto dice a Glaucone che bisogna studiare soprattutto come scegliere la migliore tra le vite possibili.
Buona è la vita che tende alla giustizia, cattiva quella che va verso l’ingiustizia. Bisogna essere refrattari a lasciarsi colpire dalle ricchezze e da simili malanni come la tirannide. Bisogna fuggire tutti gli eccessi in entrambi i sensi (feuvgein ta; ujperbavllonta eJkatevrwse, 619).
Er raccontò che il primo scelse la tirannide senza accorgersi che questa racchiude il destino di mangiare i propri figli e altre sciagure. Poi se ne avvide e si mise a piangere. Quest’uomo veniva dall’apertura nel cielo poiché aveva vissuto la vita precedente in uno Stato bene ordinato praticando la virtù, per abitudine, senza filosofia (e[qei a[neu filosofiva~, 619d).
Era più facile che scegliessero precipitosamente e sbagliassero quelli scesi dal luogo beato, in quanto inesperti di travagli, non esercitati a superarli (a{te povnwn ajgumnavstou~), mentre quelli che venivano dalla terra, siccome erano tribolati e avevano visto altri soffrire, non facevano la scelta ejx ejpidromh`~ in modo affrettato.
Di nuovo il tw`/ pavqei mavqo~.
Così c’era una permuta di beni e di mali.
Ma se uno in vita filosofa, poi la sua scelta non cade tra le ultime, è facile che quest’uomo abbia due buone vite di seguito.
Comunque, dice Er, lo spettacolo era degno di essere visto, uno spettacolo pietoso, ridicolo e meraviglioso (qevan ajxivan ijdei`n kai; geloivan kai; qaumasivan, 620).
Vediamo però che la scelta non è del tutto libera siccome è condizionata dalle quantità di sorti rimaste disponibili quando tocca scegliere a ciascuno secondo il numero d’ordine raccolto in precedenza. Inoltre le anime erano condizionate dalle esperienza fatte nella vita precedente.
Vediamo come.
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Aiace Telamonio scelse la vita di un leone poiché rifuggiva dal nascere uomo in quando ricordava il giudizio delle armi (620b).
Agamennone, per avversione al genere umano, scelse la vita di un’aquila. Orfeo, scelse la vita di un cigno non volendo nascere da grembo di donna mivsei tou` gunaikeivou gevnou~ , in odio del genere femminile per la morte sofferta dalle donne[1].
Il buffone Tersite scelse la natura di una scimmia.
L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e amante del quieto vivere ("bivon ajndro;" ijdiwvtou ajpravgmono"", Repubblica 620c).
La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che l’avrebbe presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.
Quindi Lachesi diede a ciascuno come custode (fuvlaka) il demone (daivmona, 620d) che si era scelto. Poi Cloto Atropo e Ananche confermavano le scelte e le rendevano immutabili.
In seguito le anime venivano portate attraverso una terribile calura e arsura fino al fiume Amelete perché ne bevessero l’acqua. Una certa misura era obbligatoria. I meno prudenti ne bevevano più della misura (plevon tou` mevtrou, 621) e mentre bevevano scordavano tutto. Infine si addormentavano, scoppiava un tuono e le anime venivano spinte a una nuova nascita cui si lanciavano come stelle cadenti.
A Er era stato impedito di bere e non sapendo come, si era trovato il mattino sulla pira. Socrate commenta il mito con poche parole dicendo che per entrare nell’apertura e nella via che va in alto bisogna praticare sempre la giustizia in modo da essere cari a noi stessi e agli dèi qui in terra e dopo, nel viaggio millenario di cui si è detto (621d)
Questo mito è un’immagine concentrata del nostro destino di mortali. A me piace molto, e pur essendo una fantasia, credo che la sua bellezza contenga anche una verità: che noi dobbiamo vivere in sintonia con il nostro daivmwn che è il destino ed è pure il carattere.
Eraclito con il suo stile ieratico e lapidario insegna che l’uomo e il suo destino coincidono: “ h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[2]”.
Se davvero noi abbiamo scelto sia pure con delle limitazioni, il verso di questa vita prima di nascere, non lo so. So però che ciascuno di noi eredita delle predisposizioni e che sta in ciascuno di noi assecondarle o contrastarle secondo la direzione (trovpo~) che intendiamo dare alla nostra vita. Voglio fare notare che la parola greca trovpo~ significa tanto “verso”, “direzione”, quanto carattere.
Il nucleo dell’infelicità è tradire il proprio destino. Se veniamo rinnegati dal nostro demone, non c’è scampo all’infelicità.
"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[3].
"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[4].
“Nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell’uomo che è sfuggito al suo genio”[5].
Sconcio in greco si dice ajeikhv~, ossia non eijkov~ che è la cosa neutra che non assomiglia, è l’uomo oggetto non somigliante a se stesso.
Ognuno deve individuare il proprio destino, o ricordarlo secondo il mito di Er, quindi amarlo poiché ciascuno è il proprio destino e l’uomo, se vuole realizzarsi, deve diventare quello che è.
Lo prescrive la somma del pensiero educativo di Pindaro: “gevnoio oi|o~ ejssiv” (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
Sentiamo anche Nietzsche
“ Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist meine innerste Natur ”[6].
“L’individuo è un frammento di fato da cima a fondo”[7].
"Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate (…) In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato (…)Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[8].
Inoltre: "La nostra origine è nei miti: tutti i miti sono di origine"[9].
Può trattarsi dell’origine di un’usanza, di un nome, di un culto, di una città, come spesso nella poesia ellenistica, ma può riguardare anche la nostra genesi di persone.
Il mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone ci ricorda che prima di venire sulla terra ci siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità è, etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn. Se non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~” (Repubblica, 617e), responsabile è chi ha fatto la scelta, il dio non lo è. E’ quello del resto che afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea: “ Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il destino" (vv. 32-34).
Durante la vita terrena "ci resta accanto un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell'anima…Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[10].
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[11].
Bologna 4 luglio 2022 ore 11, 16
giovanni ghiselli
[1] Cfr. Virgilio, Georgica IV: spretae Ciconum quo munere matres-inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi-discerptum latos iuvenem sparsere per agros” ( vv. 520-522) spregiate da questa fedeltà (a Euridice)) le donne dei Ciconi fra riti religiosi e le orge di Bacco notturno, sparsero per i vasti campi il giovane fatto a pezzi.
[2] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo
[3] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.
[4] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.
[5] Schopenhauer come educatore, III inattuale (1874), capitolo 1
[6] F. Nietzsche, Ecce homo (del 1888), Il caso Wagner, capitolo 4
[7] Crepuscolo degli idoli, Morale contronatura 6.
[8]Nietzsche, Umano troppo umano II, Il viandante e la sua ombra, 61.
Uscito nel 1878. “Fu concepito come una quinta “considerazione inattuale”, intitolata Il vomere,, ma poi fu trasformato nel libro di aforismi che conosciamo” (S. Giametta, Introduzione a Nietzsche, p. 236).
[9] J. Hillman, Il piacere di pensare, p. 52.
[10] James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53-54.
[11] J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.
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