Tacito e il mito
Ut conquirere fabulosa et fictis oblectare legentium animos procul
gravitate coepti operis crediderim, ita vulgatis traditisque
demere fidem non ausim. die, quo Bedriaci certabatur, avem
invisitata specie apud Regium Lepidum celebri luco conse-
disse incolae memorant, nec deinde coetu hominum aut cir-
cumvolitantium alitum territam pulsamve, donec Otho se ipse
interficeret; tum ablatam ex oculis: et tempora reputantibus
initium finemque miraculi cum Othonis exitu competisse (Historiae, II, 50)
Come reputerei lontano dalla serietà dell’opera iniziata andare in cerca di miti e dilettare le anime dei lettori con delle invenzioni, così non oserei togliere credito a tradizioni diffuse.
Nel giorno in cui si combatteva a Bedriaco, gli abitanti ricordano che un uccello di aspetto mai visto si posò in un frequentato bosco sacro presso Reggio Emilia, e che non venne spaventato né scacciato di lì dalla grande quantità delle persone né degli uccelli che svolazzavano intorno, finché Otone non si fu ucciso; allora scomparve alla vista; e per chi tiene conto dei tempi, il principio e la fine del prodigio coincide con la fine di Otone.
Siamo nell’aprile del ’69.
Non sappiamo se Tacito abbia creduto alla sopravvivenza delle anime.
Però possono darci un indizio queste parole dell’ Agricola: “ Forma mentis aeterna (46) eterna è la figura dell’anima.
Cfr. mens cuiusque is est quisque del De repubblica di Cicerone[1].
Un altro argomento.
Il ricordo mitologico come rimedio dell'amore
È tipico dell'immaginario mitico dei Greci attribuire a figure femminili i tratti dell'alterità più mostruosa.
Ovidio fa come Lucrezio nel De rerum natura e consiglia di avvicinarsi al volto della domina "compositis cum linit ora venenis” (Remedia amoris, v. 351), quando si spalma il volto con intrugli velenosi, che hanno l'odore stercorario delle mense di Fineo insozzate dalle Arpie: "Illa tuas redolent, Phineu, medicamina mensas” (v. 355), quegli intrugli hanno il cattivo odore delle tue mense, Fineo.
Le donne dunque sono associare alle Arpie che insozzano; come le Erinni appartengono alla categoria dei mostri femminili vendicatori e vengono chiamate anche "cani del grande Zeus"[2].
Un altro ancora: Prometeo
Quello di Prometeo è "uno dei miti antropologici… che rendono ragione della condizione umana - condizione ambigua, piena di contrasti, in cui gli elementi positivi sono inscindibili da quelli negativi e ogni luce ha la sua ombra, giacché la felicità implica l'infelicità, l'abbondanza il duro lavoro, la nascita la morte, l'uomo la donna, e l'intelligenza e il sapere si uniscono, nei mortali, alla stupidità e all'imprevidenza. Questo tipo di discorso mitico sembra obbedire a una logica che si potrebbe definire, in contrasto con la logica dell'identità, come la logica dell'ambiguità, dell'opposizione complementare, dell'oscillazione tra poli contrastanti"(J. P. Vernant, Tra mito e politica, pp. 30-31.
Lucrezio e l’antimito
I tormenti cosiddetti infernali sono qui sulla terra
Tantalo rappresenta la paura degli dèi, Tizio (ha cercato di violentare Latona e un avvoltoio gli rode il cuore) simboleggia la sofferenza amorosa, Sisifo l’ambizione del potere, le Danaidi l’insaziabilità: le stagioni dell’anno ci portano frutti nec tamen explemur vitai fructibus umquam (1007).
La conclusione è hic Acherusia fit stultorum denique vita (III, 1023).
Torniamo a Nietzsche
Euripide può essere da noi considerato come il poeta del socratismo estetico: “Tutto deve essere razionale per essere bello, come proposizione parallela al principio socratico: solo chi sa è virtuoso”.
Socrate era quel secondo spettatore che non capiva la tragedia antica e perciò non l’apprezzava; in lega con lui, Euripide osò essere l’araldo di una nuova creazione artistica. Se a causa di essa la tragedia antica perì, il principio micidiale fu dunque il socratismo estetico; in quanto peraltro la lotta era rivolta contro il dionisiaco dell’arte antica, riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso, il nuovo Orfeo che si leva contro Dioniso e, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio. Quest’ultimo, come nel tempo in cui era fuggito[3] di fronte al re degli Edoni Licurgo, si salva nelle profondità del mare, cioè nei flutti mistici di un culto segreto, che a poco a poco invaderà il mondo intero”[4].
Nietzsche pensa che la vera vitalità del mondo greco antico, il suo significato di modello per ogni cultura successiva, vada riconosciuto nel periodo che si chiude con la tragedia euripidea e con l’insegnamento di Socrate. La grande tragedia greca (Eschilo, Sofocle) era infatti l’espressione di una civiltà ancora profondamente radicata nel mito, che nelle storie degli dèi e degli eroi tragici costruiva una immagine luminosa della vita umana la quale però aveva senso nella misura in cui manteneva un sentimento profondamente pessimistico, tragico, del destino umano. La tragedia, sosteneva Nietzsche, era nata come sintesi di spirito (o elemento) apollineo - l’impulso alla forma definita, che dà luogo per esempio all’arte della scultura; e di spirito (o elemento) dionisiaco - che è invece l’immediato sentirsi all’unisono con la vicenda incessante della vita e della morte, dove i confini dell’individualità e della coscienza sono travolti come da un fiume in piena.
Il mito dell’amore in Leopardi e in Platone
Leopardi nella Storia del genere umano sostiene che il massimo della felicità e della forza amorosa è concessa da "Amore, figliuolo di Venere Celeste". E spiega: “Quando viene in sulla terra sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti nobili e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa del tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacergli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l'essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata condizione fosse in alcuno uomo ai migliori tempi".
A proposito di Giove che “non consente” cfr. il discorso di Aristofane nel Simposio di Platone (189 c 2-193 e 2).
Il personaggio che rappresenta il grande commediografo si esprime per immagini e, con un'antropologia fantastica, interpreta Amore come nostalgia della totalità della natura umana. Ogni persona è una creatura dimidiata che tende a ricongiungersi con la metà da cui è stata divisa. Una bella immagine significativa di questa sofferta dicotomia rappresenta ciascuno di noi mortali quale il segno di riconoscimento di un uomo in quanto siamo stati divisi come le sogliole: “e{kasto" ou\n hJmw'n ejstin ajnqrwvpou suvmbolon, a{te tetmhmevno" w{sper aiJ yh'ttai", quindi ognuno cerca l'altra metà del segno di se stesso: "zhtei’dh; ajei; to; auJtou’e{kasto" suvmbolon" (191 d).
" It was like the two halves of a countersign”, era come fossero le due metà d'un segno di riconoscimento"[5].
In origine gli uomini erano doppi rispetto a oggi: ciascuno costituiva un intero (o{lon 189d) di forma sferica con quattro mani, quattro gambe e due facce uguali. Inoltre i sessi erano tre: quello tutto maschile che traeva origine dal Sole, quello tutto femminile che derivava dalla Terra e quello misto, l'androgino, di origine lunare, costituito dalla natura maschile congiunta con quella femminile.
Dai primi due tagliati a metà sono derivati gli omosessuali, maschi e femmine, dal terzo gli eterosessuali poiché ciascuno tenta di ricomporre l'unità fratturata cercando ciò che gli è congenere.
Zeus tagliò l’intero di forma sferica che eravamo (to; ei\do" strovggulon), 189e) siccome quelle sfere erano deina; per forza e per vigore th; ijscu;n kai; th;n rJwvmhn e avevano grande superbia e, come Oto e Efialte in Omero (Odissea XI, 305-320), tentarono di scalare il cielo per assalire gli dèi.
Ogni mito possiede una pluralità di significati e si può declinare o coniugare come una parola del vocabolario.
In una recensione all'Ulisse di Joyce[6] Eliot chiamò mythical method, metodo mitico, questo "maneggiare continui parallelismi tra la contemporaneità e l'antichità… un modo per controllare e ordinare, per dare una forma e un significato a quell'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea". Si tratta di una sistematica collazione tra frammenti della realtà contemporanea e i loro paradigmi mitici che tagliano perpendicolarmente tutta la storia.
La teoria degli archetipi di Jung fu elaborata, non per caso, in questo stesso periodo
Il mito è più reale di ogni altra cosa. Chirone è il parallelo mitico di Pindaro. Il valore è innato. Chi possiede solo quanto ha appreso non avanza di un solo piede ma assaggia mille cose con animo immaturo (Nemea III). Il sapere non è sapienza (Euripide, Baccanti, 395)
Isocrate A Nicocle (380) Gli ingredienti più graditi alla gente sono il meraviglioso e le gare. Nell’ideale agonale si vede l’unità per noi perduta di anima e corpo. I particolari della gara si vedono meglio nell’Elettra di Sofocle. Il mito è il grande tesoro di paradigmi cui attinge la sua sapienza poetica
Pindaro, Olimpica I
Certo sono molti i portenti, e in qualche modo, credo, anche le favole,
diceria dei mortali oltre la verità,
intarsiate di iridescenti bugie,
traggono in inganno (vv. 30)
Esiodo e il mito che contiene la saggezza popolare.
Sono prediletti i miti che esprimono la concezione pessimistica e realistica della classe contadina: il mito di Prometeo (in entrambi i poemi), con il quale il poeta trova risposta al problema del lavoro e della pena; il mito delle cinque età del mondo (Opere), il mito di Pandora (Opere e Teogonia) dal quale traspare un apprezzamento crudo e malevolo della donna.
Zeus si era sdegnato poiché Prometeo l’aveva ingannato"ejxapavthse"(Opere, 47-48). Una volta gli uomini potevano vivere senza lavorare, ma Zeus li punì per colpa di Prometeo: il dio supremo nascose il fuoco, kruvye de; pu'r (50) che poi Prometeo rubò. Così decise che agli uomini in cambio del fuoco avrebbe dato un malanno: "Toi'" d& ejgw; ajnti; puro;" dwvsw kakovn", 57. Efesto fece la donna mescolando terra con acqua con le quali formò un incantevole corpo di vergine.
Atena le insegnò l'arte di tessere, le diede il cinto e gli ornamenti;
le Grazie e la Persuasione le posero collane d'oro intorno al collo;
le Ore la incoronarono con i fiori di primavera;
Afrodite le versò sul capo la grazia e la passione struggente"cavrin (…) kai; povqon ajrgalevon (66) e gli affanni che fiaccano le membra, (cfr. Teogonia, 120-121: “ [Ero" ... lusimelhv"”)
Ermes infuse in lei un animo sfacciato e un costume da ladro (Opere, 67), menzogne, discorsi seducenti e un carattere scaltro, inoltre le diede la parola e la chiamò Pandora poiché tutti le avevano dato un dono (81).
Epimeteo non ascoltò il consiglio di Prometeo di non accettare doni da Zeus e si lasciò rifilare Pandora. Ella tolse il coperchio dell'orcio "pivqou mevga pw'ma" e fece disperdere i mali che vi stavano racchiusi. Dentro rimase solo la Speranza (96). Le malattie arrivano agli uomini tacitamente (sigh'/) poiché metiveta Zeus (Opere, 104) ha tolto loro la parola, affinché l'uomo non possa sfuggire (1O5).
Considerare la donna causa di ogni male è un apprezzamento estraneo alle concezioni cavalleresche. La Nausicaa di Omero, il virgulto ammirato presso l'altare di Delo (Odissea, VI, 162-163), è più simile alla donna angelicata di Dante: "e par che sia una cosa venuta/da cielo in terra a miracol mostrare"(sonetto Tanto gentile della Vita Nuova, 1294).
La donna di Esiodo invece è una cosa bella e cattiva: "kalo;n kakovn" (Teogonia, 585). È piena di grazia, ma ha una mente da cane e un carattere ingannevole (Opere, 67). Le donne partecipano solo alle opere malvagie (Teogonia, 601 sgg.), e chi sposa una donna cattiva ha un'angoscia costante.
Il mito della natura, scrive Pasolini, è un “mito antihegeliano e antidialettico, perché la natura non conosce i “superamenti”. Ogni cosa in essa si giustappone e coesiste… la “mitizzazione” della natura implica la “mitizzazione” della vita quale era concepita dall’uomo prima dell’era industriale e tecnologica, all’epoca in cui la nostra civiltà si organizzava intorno ai modi di produzione agraria”[7]
Bologna 2 luglio 2022 ore 19, 02
p. s.
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[1] Nel Somnium Scipionis l’Africano dice che i veri vivi sono i beati che liberati dal corpo dimorano nella via lattea: “ hi vivunt, qui e corporum vinclis tamquam e carcere evolaverunt, vestra vero, quae dicitur vita, mors est (VI, 14). Infatti non è meortale la persona ma solo il corpo: “neque enim tu is es, quem forma ista declarat, sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura quae digito demonstrari potest (VI, 26)
25 Per le Arpie cfr. Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 289; poi Virgilio, Eneide, III, 225-258 e Dante, Inferno, XIII, 64-66. Per le Erinni cfr. le Eumenidi di Eschilo, vv. 130-132.
[3] Invero Dioniso è una di quelle figure mitiche e divine che assumono diversi aspetti. Arriano avverte che gli Ateniesi venerano un altro Dioniso, rispetto a quello tebano figlio di Zeus e Semele. Il dio ateniese è figlio di Zeus e di Core, e il canto Iacco dei misteri viene intonato a questo, non a quello tebano (Anabasi di Alessandro, 2, 16, 3). Anche Nietzsche riconosce questa duplicità: “Dal sorriso di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In quell’esistenza in quanto dio smembrato Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvagio e di un dominatore mite e dolce” (La nascita della tragedia, p. 72)
Così forse si spiega la differenza tra il Dioniso feroce delle Baccanti e quello di Omero cui allude Nietzsche, un dio impaurito (Iliade, VI, 135 Diwvnuso" de; fobhqeiv") e infantile, che, minacciato da Licurgo, si getta in mare dove Tetide lo accolse in seno, spaventato e tremante per le grida dell’uomo feroce. Poi c’è il Dioniso pauroso e ridicolo delle Rane di Aristofane. Questo dio fugge, terrorizzato da Empusa, tra le braccia del suo sacerdote (v. 297), quindi viene apostrofato dal servo Xantia con: " oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uomini!"(v. 486). Il dio se l'era voluta, cacandosi addosso dalla paura (v. 479) n. d. r.
[4] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. XII
[5] G. Orwell, 1984, parte II, capitolo 4.
[6] Ulysses, Order and Myth", "The Dial", nov. 1923.
[7] Saggi sulla politica e sulla società, p. 1461.
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