NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 5 luglio 2022

Il mito platonico della caverna


 
Nella Repubblica di Platone dove si narra il mito della caverna, la luce del sole nel visibile (ἔν τε ὁρατῷ φῶς) è generata dall’idea suprema del bene nel campo conoscibile (ἐν τῷ γνωστῷ τελευταία  τοῦ ἀγαθοῦ ἰδέα, 517b-c);  questa a fatica si vede, ma, una volta vista, va considerata quale causa per tutti di tutte le cose rette e belle.
È l’ idea del bene dunque che fa apparire il sole, fonte della luce, ed è lei la signora (κυρία) che nell’intellegibile (ἐν τε νοητῷ) elargisce la verità e l’intelligenza.
 
Vediamo dunque il mito della caverna (VII libro della Repubblica),
Socrate parla a Glaucone un fratello di Platone e gli dice: considera gli uomini rinchiusi in una specie di abitazione sotterranea, cavernosa (ejn katageivw/ oijkhvsei sphlaiwvdei, 514). L’ingresso è aperto alla luce ma poi, quando ci si inoltra, si trovano  uomini che sono prigionieri  fin da fanciulli, incatenati nel collo e nelle gambe in modo che possano guardare solo verso il fondo della caverna. Dietro di loro c’è un muro, poi dietro questo una strada. Sulla strada passano uomini che hanno sopra le spalle arnesi di ogni genere i quali sporgono oltre il muro: statue, animali di pietra e di legno  (zw`/a livqinav te kai; xuvlina).
Ancora dietro questi uomini c’è la luce di un fuoco alto e lontano fw`````" puro;" a[nwqen kai; povrrwqen (514b).
 
I prigionieri vedono solo le ombre riflesse dal fuoco sulla parete di fondo.
Costoro credono che quelle ombre (skiav") siano la realtà (to; ajlhqev").
Se uno di loro venisse slegato e costretto ad alzarsi e a guardare la luce del fuoco e gli oggetti, rimarrebbe abbagliato e riterrebbe le ombre più vere degli oggetti reali e tornerebbe a guardare le ombre perché gli farebbero male gli occhi.
Se poi questo prigioniero venisse portato fuori pieno di riluttanza non riuscirebbe a vedere niente. Ma, poi, un poco alla volta si abituerebbe a vedere prima le ombre, poi i riflessi nell’acqua, infine gli oggetti stessi, quindi il cielo notturno, la luna e le stelle. Infine il sole. E capirebbe che il sole produce le stagioni e gli anni, e sovrintende a tutto quanto c’è nel mondo visibile  (pavnta ejpitropeuvwn ta; ejn tw'/  oJrwmevnw/ ) ed  è la causa di tutto quanto si vede.
A questo punto si ricorderà dei compagni di schiavitù e li commisererà.
E penserebbe quello che dice Achille a Odisseo nell’Ade a proposito delle ombre consunte dell’Ade (Odissea XI, 489-491).
Se poi tornasse nella caverna, gli occhi gli si riempirebbero di tenebra.
Gli ottenebrati però direbbero che l’ottenebrato è lui, e se qualcuno cercasse di liberarli per farli uscire, addirittura ammazzerebbero.
Questo mito, spiega Socrate, significa che il mondo dove viviamo è una prigione, che il sole è quel fuoco e noi vediamo solo ombre (cfr. Pindaro,  Aiace, Shakespeare la Tempesta, e Dante)
Pindaro chiama l'uomo "sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo"", Pitica VIII, vv. 95-96 ).
Nell'Aiace di Sofocle, Odisseo esprime la convinzione che l'ombra sia la quintessenza dell'uomo e manifesta la compassione del poeta per tutte le creature umane cadute sulle spine della vita:"oJrw' ga;r hJma'" oujde;n o[nta" a[llo plh;n--ei[dwl j o{soiper zw'men h] kouvfhn skiavn", io infatti vedo che non siamo se non immagini quanti viviamo, o muta ombra (Aiace, vv.125-126).
Anche se non siamo delle ombre da vivi, lo diventiamo subito dopo.
Nell’Elettra di Sofocle, la protagonista, stringendo fra le mani l’urna dove crede siano state poste le ceneri di Oreste, conclude il compianto sul  fratello presunto morto dicendo: i nemici ridono (gelw'si d  j ejcqroiv) , smania di gioia la madre non madre di cui tu mi facesti sapere spesso con dei messaggi segreti che l’avresti punita. Ma il destino contrario tuo e mio ci ha tolto questo esito, e ora ti ha mandato a me in queste condizioni: invece della persona carissima cenere e ombra vana (ajnti; filtavth~-morfh'~ spodovn te kai; skia;n ajnwfelh'), vv. 1153-1159).
 
Pulvis et umbra sumus”, polvere e ombra siamo, secondo Orazio (Odi, IV, 7, v. 16). Nel Seicento questa idea va di moda, tanto che  Calderòn de la Barca intitola il suo capolavoro (del 1635) La vita è sogno, e, nel corso del dramma (I, 2), scrive:" il delitto maggiore dell'uomo è essere nato", mentre Prospero nel dramma La tempesta [1] afferma:"Noi siamo fatti con la materia dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno"(IV, 1). Quindi il duca si avvia con la mente alla sua Milano "dove un pensiero su tre, sarà la tomba" (V, 1).
Nel Macbeth il protagonista afferma:"Life's but a walking shadow " (V, 5), la vita non è che un'ombra che cammina.
 
Mattia Pascal/Adriano Meis passeggiando per Roma riflette sulla propria ombra: “Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affissarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, non potevo calpestarla, l’ombra mia. Chi era più ombra di noi due? Io o lei? Due ombre! Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto, l’ombra, zitta. L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…Ma sì! Così era! Il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma”[2].
Concludo  con Proust:"Ci si accanisce a cercare i rottami inconsistenti d'un sogno, e intanto la nostra vita con la creatura amata continua: la nostra vita, distratta dinanze a cose di cui ignoriamo l'importanza per noi, attenta a quelle che forse non ne hanno, succube di esseri senza nessun rapporto reale con noi, piena di oblii, di lacune, di ansietà vane; la nostra vita simile a un sogno" (La prigioniera, p. 147).
 
Ma torniamo a Platone.
Uscire dalla caverna significa salire eij"  to;n nohto;n tovpon (Repubblica,  517 b) nel mondo intelligibile.
Nel campo conoscibile ejn tw'/ gnwstw'/ è suprema l’idea del bene hJ tou' ajgaqou' ijdeva (517c) che a fatica si vede, ma una volta vista va considerata ojrqw'n te kai;  kalw'n aijtiva,  causa di tutte le cose belle e rette e nell’intellegibile (e[n te nohtw'/) largisce verità e ragione
Chi giunge a questo punto non vuole più attendere alle faccende umane ma le loro anime sono sempre spinte a soggiornare in alto (ajll j a[nw ajei; ejpeivgontai aujtw'n aiJ yucai;; diatrivbein 517 d).
Allora uno che viene da divine contemplazioni e scende alle miserie umane ajschmonei' fa brutta figura e sembra molto ridicolo kai; faivnetai sfovdra geloi'o"  quando non ancora assuefatto alla tenebra è costretto a combattere con delle ombre.
Gli occhi si turbano passando e[k fwto;"  eij" skovto" e viceversa. Così accade anche all’anima. L’educazione consiste in una conversione dell’anima che deve volgersi dalla parte giusta.
L’animula to; yucavrion 519a) dei malvagi sapienti ha la vista penetrante sulle cose cui si rivolge.
Al divenire sono congeniti pesi di piombo (519b)  che rivolgono in giù la vista dell’anima. Cfr. la Sfinge nell’Edipo re di Sofocle
Nel primo episodio di questa tragedia, Edipo domanda a Creonte
Ma quale male, caduta così la tirannide,
stando tra i piedi, vi impediva di sapere bene questo ? (vv. 128-129)
 
e il sui vice (cognato e zio)   risponde:
La Sfinge dal canto variopinto ci spingeva a guardare
quello che era lì tra i piedi, e a lasciare perdere quanto non si vedeva (130-131) 
 
 
La vista dell’anima deve convertirsi, cioè girarsi dalla parte dell’idea del bene. Chi è malvagio ma intelligente rimane comunque con un’animula (to; yucavrion) non convertita. Bisogna educare i migliori attraverso la conversione che li porti a vedere il Bene.
Questi educati dovranno armonizzare i cittadini: i filosofi devono occuparsi degli altri: devono essere come i capi di un alveare. Ora le città sono governate da gente che vede ombre e contende con delle ombre per il potere, come se fosse un vero bene wJς megavlou tino;ς ajgaqou' o[ntoς (520b). Devono governare i veri ricchi, non di oro ma di una vita buona e saggia plouvsioi ouj crusivou ajll j zwh'ς ajgaqh'ς te kai; e[mfronoς (521). E’ un male se vanno al potere dei poveri affamati di beni privati   ptwcoi; kai; peinw'nteς ajgaqw'n ijdivwn. Questi infatti tendono ad arraffare. Ci vuole dunque una conversione dell’anima yuch'ς periagwghv, non il voltare di un coccio ojstravkou peristrofhv.
L’anima deve girarsi da ciò che diviene a ciò che è.
 
Gli occhi si turbano passando e[k fwto;"  eij" skovto" e viceversa. Così accade anche all’anima. L’educazione consiste in una conversione dell’anima che deve volgersi dalla parte giusta.
Al divenire sono congeniti pesi di piombo che rivolgono in giù la vista dell’anima.  
Il filosofo deve cogliere l’essere (th'ς oujsivaς aJptevon) spogliandosi del divenire (genevsewς, 525 b).
 
Pesaro 5 luglio 2022 ore 9, 27
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Del 1612.

[2] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, pp. 234-325.

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