NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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martedì 16 maggio 2023

Il primo tirocinio nella scuola

La vigilia delle nozze con la scuola.

 

Il Motel Palace era grande, pulito e confortevole. Il portiere educato. Mi assegnò una camera del sesto piano, la 64. Pensavo che ci sarei rimasto poche notti, e non perché volessi andare a vivere nell’albergo ristorante Centrale posto davanti alla scuola media Ugo Foscolo, ma per il fatto che speravo di ricevere un incarico di insegnamento anche da Bologna. Quell’anno si era potuto fare domanda  in due province e Padova era arrivata prima, ma  non era escluso che giungesse presto anche l’altra. Avevo bisogno di questa speranza. La prima sera mi avrebbe sconfortato l’idea di passare  mesi e stagioni in quel  motel fuori dalle umide mura di Cittadella e cinque anni a Carmignano di Brenta. Invece era il mio destino. E non era un cattivo destino, anzi. Comunque a poco a poco mi ci abituai, e verso la fine dell’anno scolastico, nel giugno del 1970, ne ero contento siccome sentivo che quel mio esilio non era vuoto di significato: avevo instaurato un ottimo rapporto, da educatore, con i miei ragazzini. Educatore e fratello maggiore.

Ne ho tuttora i riscontri indubitabili: con diversi di loro ho conservato rapporti di stima e affetto. Alcuni li ho frequentati anche dopo il mio ritorno a Bologna. Una sera di qualche anno fa mi invitarono a cena con il collega di Matematica  Giuseppe Graziani, un uomo buono, generoso, leale. Ha qualche anno più di me. Anche lui mi ha aiutato.

Ci dissero: “Gianni e Peppino: siete la nostra storia”. Avevano oramai sessanta anni. Loro. Noi una settantina.

 Ieri un’allieva della terza media di allora ha scritto nel mio facebook, dopo avere letto queste pagine: “La tua venuta a Carmignano è stato un regalo immenso!!!”.

 E’ stato un munus reciproco, carissima e ottima alunna di quando eravamo entrambi molto più giovani, un dono e un compito che voi mi avete contraccambiato accresciuto.

Oggi, dopo avere letto l’ultima revisione, Luciana, intelligente e dotata per l’arte, ha scritto: “In quel piccolo paese del Veneto c’ero anch’io, ero poco più che una bambina, ero lì ad aspettarti”. Grazie figliola, avevi solo 11 anni ma davi forti segni di ricchezza spirituale.

Davvero le mie fatiche umanamente spese non sono andate perdute.

L’inverno 69-70 fu tetro, difficile, duro, però potei superarlo bene perché gli allievi mi piacquero subito e mi piaceva aiutarli mentre loro aiutavano me imparando da me e con me. Io li invitavo a crescere, a maturare con l’aiuto dei libri raccontati, e loro, ascoltandomi con attenzione, mi motivavano a diventare meno superficiale, ignorante, egoista di quanto ero stato prima di quell’esperienza, educativa innanzi tutto per me.

La solitudine delle tenebrose giornate d’inverno dopo la scuola non fece scemare le mie energie spirituali, anzi le rafforzò, e proprio per il fatto che insegnare educando quei ragazzini mi piacque subito molto.

Tiravo fuori da loro e valorizzavo la parte migliore mentre gli allievi facevano lo stesso con me. Per avere qualcosa di bello, piacevole e utile da raccontare ai miei scolari, passavo i pomeriggi a studiare, scolaro io stesso a Carmignano di Brenta.

Così mi salvavo dall’ozio, dalla noia, dalla degradazione.  Non avevo letto ancora nulla di Dostoevkij ma già allora sentivo con ottimo istinto e capivo che i bambini mi curavano l’anima[1].

 

giovanni ghiselli

 

 Nota

[1] L’idiota I, 6.

Bologna 13 dicembre 2022 ore 16, 43

giovanni ghiselli

 

Il 69- 7- I propositi per il tirocinio

 

Avuta la stanza dunque, andai a posarvi i bagagli, poi uscìi per mangiare. Una cena non meritata dopo tutte quelle ore seduto. Mi proposi perciò la frugalità. Ero già in buona parte guarito dalla frenesia alimentare, dall’appetito disonesto dell’obeso. Nel cardo maximus di Cittadella vidi una scritta: Ristorante il Gobbo. Accipio omen, mi dissi: è di buon auspicio. Ordinai un secondo: bollito misto con zucchine; non patate e senza pane, per carità. Non senza un quarto di vino però. E acqua minerale gassata.

Mentre aspettavo la cena, triste ma non deformante, pensavo: “ domani comincerò a insegnare. Sono a una svolta a gomito della mia vita. Avrò uno stipendio di 118 mila lire al mese”.

Pochi giorni più tardi avrei saputo che era quanto prendeva Pinelli, il ferroviere anarchico ammazzato. La defenestrazione di Milano.

 “Altre 80 mila me le dà generosamente la zia Giulia grata forse perché andavo tutte le estati a Moena con lei, priva e desiderosa di figli. Quando ci andammo in automobile per l’ultima volta passammo per Cittadella appunto, quindi facemmo la Valsugana fino a Trento. Tutte le vicende della vita sono imparentate tra loro.

 Ora questa zia- nutrice  vorrebbe che facessi carriera nella scuola. Come studente sono stato bravo, soprattutto nel triennio liceale quando si traducevano gli autori greci e latini: devo tornare al liceo.

Quello era l’ambiente più adatto e congeniale a me. Anche qui alle medie del resto non dovrò limitarmi a insegnare la grammatica, l’analisi logica e quella del periodo. Lo farò come propedeutica alla lettura e al commento degli autori, quelli più bravi e più capaci di colpire la sfera emotiva dei ragazzini, quindi più memorabili. Anche i Greci e Latini potrò presentare tradotti da me. Essenziale sarà interessare gli allievi: farmi ascoltare. Non basterà ciarlare a vanvera o genericamente di ogni cosa anche mal conosciuta: bisognerà citare pure a memoria gli autori, in modo che i ragazzi sentano la loro bellezza, la loro importanza e se ne approprino imparando come funziona bene la  lingua nostra, la nostra koinh; divalekto~, la lingua toscana, oltre questo loro idioma,  e li aiuti a gustare l’eleganza della vita. Dovrò studiare molto ogni giorno.

Non è  tempo di chiacchierare a vuoto, e di vivere a casaccio.

Tutti i pomeriggi di quell’inverno remoto, più le mattine dei dì di festa, studiavo: la geografia e i tecnicismi della lingua italiana per dovere; poi

 rileggevo con gioia  Omero, Sofocle, Euripide, Catullo, Orazio, Dante, Machiavelli, Leopardi. Nei primi tempi però  mi concentrai su  Foscolo che mi pareva il più capace di entrare nel cuore e nella mente dei ragazzi, con l’eco dei classici del resto. Con il carme Dei  Sepolcri, solo nella mia stanza del Motel Palace, mi commuovevo fino alle lacrime. Piangevo perché nei versi splendidamente musicali del maestro educato anche lui dai Greci, trovavo il grado eroico dell’esistenza umana che cercavo anche dentro di me, mi commuovevo siccome ci trovavo il culto della bellezza, delle donne, della poesia, dell’amore, le illusioni gagliarde cui avevo sempre aspirato anche io considerandoli  valori veri e scopi più congeniali a me di quelli meschini della gente ordinaria, fangosa nel loro pantano, intesa al lucro, alla menzogna, a mettere al mondo altri individui dello stesso stampo.

Potevo insegnare quelle realtà squisitamente umane  mentre parlavo  a dei giovanissimi ancora cerei in virtutem flecti, capaci come la cera di prendere impronte buone se sapevo lasciarle. Volevo farlo.

Questi erano i propositi per il mio tirocinio che del resto sarebbe continuato per tutta la vita. 

Gli insegnanti e ogni persone per bene, non dovrebbe smettere mai di  migliorare imparando:"semper homo bonus tiro est ", l'uomo onesto fa  tirocinio per tutta la vita[2]. 

 

 

 

1969- 8-. L’impatto con il preside della scuola media.

 

La mattina seguente il preside mi ricevette nel suo ufficio : una stanza oscurata da un albero enorme che protendeva i rami ancora frondosi davanti all’unica finestra non grande, esposta per giunta a nord. Mi presentai. Avevo camicia, giacca, calzoni, calze, mocassini e un impermeabile di buona marca. I capelli erano corti. Voglio dire che non  avevo assunto un abbigliamento che poteva dare nell’occhio  né alcun atteggiamento povocatorio per un benpensante come immaginavo fosse un preside del Veneto bianco, refrattario alla rivoluzione studentesca dalla quale venivo e avevo fatto parte.

Mi trattò comunque con una diffidenza vicina all’ostilità.

Mi chiese di dargli la nomina. Appoggiò gli occhiali sul naso, la guardò piuttosto a lungo, mi osservò con aria severa e contrariata, poi disse che ero arrivato in ritardo, che lui aveva già chiamato una supplente annuale, una di sicuro affidamento, una brava che a lui andava vene. Mi venne in mente l’ agrimensore del romanzo Il castello di Kafka.

 “Burocrazia ottusa, intrigante e prepotente”, pensai.

Poi dissi: “ A me no - replicai- a me, con rispetto parlando, non va bene. Ho ricevuto ieri mattina l’incarico dal Povveditorato di Padova e l’ho accettato subito. Nella nomina che lei ha sotto gli occhi sta scritto che ci sono tre giorni di tempo per presentarsi. Dunque sono arrivato qui per iniziare il mio lavoro in anticipo casomai, non in ritardo.

“Ah si?” fece con aria da finto tonto, come se non avesse voluto provarci a rimandarmi indietro.

“Sì, è proprio così”, ribattei.

Quindi mi rivolse un’occhiata severa e ordinò: “Allora vada subito a spedire un telegramma. Cosa aspetta?” 

“Facciamo finta di niente”, pensai.

Poi gli domandai: “Dove?”

“ Lo chieda al bidello”, rispose seccato.

“Non dov’è la posta è quanto vorrei sapere, ma dove e a chi devo inviare il telegramma e che cosa ci devo scrivere. Come le ho detto, ho già telegrafato ieri da Pesaro che accetto l’incarico, pur con la riserva che se ne riceverò un altro da Bologna, rinuncerò a questo. Non ci tengo a rimanere qui più del necessario, e meno che mai dopo avere visto di essere poco gradito da lei, preside!”

“Cossa vu to”, fece. Era un idiotismo che usava per chiudere le discussioni, Credo che significhi: “ ma lascia perdere!”

“Dunque a chi devo telegrafare e che cos’altro scrivere?”

“Telegrafi di nuovo al provveditorato di Padova. Scriva che è appena arrivato qui. Ieri pomeriggio ho comunicato che lei non si era presentato: la verità. E che avevo dovuto nominare una supplente. Una non ancora laureata ma con una lunga pratica di insegnamento. Lei ha mai insegnato?”

“Ho fatto solo una un paio di supplenza questa primavera”

“Val più la pratica che la grammatica. Poi che lei sappia la grammatica non è detto, tanto meno che sappia insegnarla. Vedremo. Verrò a controllare. Dunque vada subito a telegrafare, che cosa aspetta? La spesa non gliela posso rimborsare ma saranno pochi sghei, cinquecento lire al massimo. Più tardi telefonerò: se l’avranno accettata, le affiderò due classi: una terza e una prima. Diciannove ore che nessuno ha voluto tra quelli nominati dal Provveditore”.

Ho capito, vado-risposi- ma sono io che accetto la nomina a tempo indeterminato dovuta al mio punteggio, non il provveditorato che accetta me. Tanto meno lei”

“Cossa vu to!”.

Uscìi dalla presidenza pensando che una volta inserito nel nuovo contesto non avrei più obbedito a un dirigente del genere siccome non era più educato né più colto di me. 

 

 

 

 

9 L’inappagato, doloroso bisogno di giustizia del giovane pincipiante.

 

Andai a cercare l’ufficio da dove mandare il telegramma che il preside mi aveva imposto, senza dirmi dove si trovasse. Domandai a un bidello, un uomo più educato e cortese di lui. Avevo capito che il capo della scuola del mio debutto era contrario al mio stile,  alla mia persona e mi sarebbe stato nemico a lungo anche perché oltretutto  avevo tolto il lavoro a una sua protetta.

Per strada ripetevo un ritornello del movimento studentesco che mi aveva aperto la mente: “Ce n’est qu’ n début, continuons le combat”. Avrei dovuto lottare contro quel dirigente malevolo.

 Non era  una previsione e una presofferenza sbagliata: in cinque anni che ho lavorato nella  scuola di tale capo istituto, colui tutte le volte che ha potuto mi ha dato dei fastidi. All’inizio è stata una prova dura per me. Ero giovane allora, ero del tutto solo nel Motel di Cittadella: non avevo altro che la scuola, i ragazzi tutti molto cari, i colleghi, in gran parte buoni, e quel preside, un cinquantenne democristiano che poteva essermi padre e avrebbe dovuto aiutarmi, per carità se non altro cristiana, invece di ostacolarmi. Di questa ostilità soffrivo come di un’ingiustizia tremenda. Ancora non ero abbastanza disincantato sui rapporti umani. Ne rimasi deluso e ferito. Avrei potuto volergli bene come a un padre e lavorare meglio. Per fortuna quando iniziai a insegnare nel liceo classico trovai due presidi galantuomini: Davide Ciotti al Rambaldi di Imola, poi Piero Cazzani al Minghetti di Bologna. Il primo mi incoraggiò a studiare con tutte le forze dicendomi che la scelta di insegnare latino e greco dopo i diversi anni di oblio dei quali mi ero autodenunciato, mi faceva onore siccome stavo iniziando bene, con impegno serio;  il secondo mi affidò due classi da preparare per l’esame di maturità, siccome era sicuro, disse, che le avrei informate e formate bene. Aggiunse che i ragazzi mi avrebbero ammirato, e ancora di più le ragazze in quanto ero studioso e avevo un mio stile non ordinario.

Li vissi come due figure paterne.

 

 A Carmignano per fortuna, quando mi ebbe conosciuto quale ero, mi aiutò la vicepreside della scuola, Antonia Sommacal,  che mi fece da  mamma. Siamo rimasti amici finché visse. E’ stata anzi l’amica più cara che abbia mai avuto. Più cara e generosa di tante amanti poco o per niente amiche.

Avevo bisogno di affetto e aiuto dai presidi e dai colleghi. Ho voluto bene a quanti mi hanno dato una mano. Mentre ho detestato e contraccambiato con mercede adeguata quanti hanno ferito la mia persona e offeso il mio senso della giustizia. Ora, a distanza di decenni, ho imparato a soffrire di meno perché mi sono incallito, e so perdonare di più, siccome impietosito davanti a tanta miseria; nei furori giovanili invece ricorrevo al contrappasso, quello formulato dai miei autori

 

 Ne riferisco tre esempi perché non posso fare a meno di insegnare-educare anche quando scrivo.

Nel canto che precede l'epilogo dell'Agamennone di Eschilo il Coro dice queste parole:"paga chi uccide (ejktivnei d j oJ kaivnwn)./Rimane salda la norma, finché Zeus rimane sul trono/che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina"( mivmnei de; mivmnonto~   jen qrovnw/ Diov~-paqei`n to;n e[rxanta: qevsmion gavr”, vv. 1562-1565).

 

 C’è una ripresa di questo nelle Coefore: dravsanta paqei'n,- trigevrwn mu'qo" tavde fwnei' (313-314), subisca chi ha agito, un  detto tre volte antico suona così.

 

Nell’Eracle di Euripide Anfitrione indirizza queste parole a Lico inconsapevolmente incamminato verso la morte: ” (727) prosdovka de; drw'n kakw'"-kakovn ti pravxein” (727-728), aspettati facendo del male di averne del male..

 

 

Non ho mai inflitto violenza a nessuno, sia chiaro, ma usando solo l’arma della parola, ho sottolineato l’ingiustizia e l’ignoranza dei malfattori “uomini a mal più che a ben usi”[3]. Li ho provocati, li ho fatti cadere pubblicamente nel ridicolo e nel discredito. Non è stato difficile poiché le persone cattive non sono intelligenti. Mai fino in fondo.

 

 

 

 

La canzonatura culturale del principiante al preside aguzzino

 

I primi tempi l’iniqua ostilità del preside Umberto Zanini mi tolse parte dell’ ottimismo relativo alla scuola come istituzione, ma non il mio entusiasmo educativo. Non ero inesperto del male, e negli anni del liceo, poi in quelli dell’università, avevo imparato a difendermi dai malevoli.

Talora la sera dopo avere ripassato la lezione per il giorno seguente, spengendo la fioca lampada della terrazza che rispondeva alla pianura veneta, ripetevo le parole sentite nel film Fuoco fatuo che il regista Louis Malle ha tratto dal romanzo di Pierre Drieu La Rochelle.

 “Domani mi uccido”, mormoravo.

Per scherzo, certo. Mi veniva in mente quando lo facevo nel collegio di Debrecen, ad alta voce, e Claudio ribatteva: “perché non ti uccidi subito, borsa!”. Nel Motel di Cittadella aggiungevo un antidoto tratto da Virgilio: “O passus graviora, dabit deus his quoque finem[4]. Né tralasciavo di aggiungere: “ revoca animum  maestumque timorem- mitte; forsan et haec olim meminisse iuvabit (…) dura et te rebus serva secundis”[5]

L’ultima pillola contro lo sconforto di tanta solitudine  in sì verde età me la forniva Ovidio:  Perfer et obdura: dolor hic tibi proderit olim/saepe tulit lassis sucus amarus opem[6].

La buona letteratura degli ottimi autori ha sempre avuto un effetto anche terapeutico su di me. Poi il sentimento della natura. E, importantissime, le donne. Queste sono state le sponde della salvezza quando il naufragio incombeva.

 

Andai dunque alla posta per il telegramma da inviare. Scrissi “Carmignano sul Brenta”. L’impiegata mi corresse: “di Brenta; sul Brenta è Piazzola”. Sbagliavo anche il nome. Forse aveva ragione il preside che non mi voleva: nemmeno io volevo restare. Comunque non ci sarei rimasto tanto a lungo. Dovevo tornare a Bologna, nel mio ambiente.

 Il preside venne a ispezionarmi più volte. Entrava in classe senza bussare e rimaneva qualche decina di minuti a fissarmi, ad ascoltarmi, senza togliersi il cappello. Infine riconobbe che ero preparato “anca masa”-aggiungeva- per questi putei

Tuttavia alla fine dell’anno mi diede la qualifica di Valente invece di Ottimo, togliendomi in questo modo due punti. Volli vedere la motivazione. Era di fatto un giudizio politico: aveva scritto che assumevo atteggiamenti che non si confanno alla dignità della scuola.

Di fatto nei pomeriggi di maggio, il maggio odoroso e sereno del 1970, feci alcune gite ciclistiche a Marostica con gli allievi della mia terza media:  nel prato verde smeraldo del castello alto ripetevo con loro il programma che dovevano presentare all’esame di giugno.

Andavamo e tornavamo in bicicletta. Per strada talora cantavamo Bella ciao o canzoni di Fabrizio de Andrè.  Con noi veniva il collega di matematica, l’amico Peppino Graziani, un uomo buono e intelligente, anche lui amato dagli allievi.

Una mattina di giugno il preside mi convocò nel suo ufficio rallegrato di luce in questo mese, come tutto il nostro emisfero.

Ma lui con gravità tetra e riprovazione disse: “Professore, il paese mormora contro di lei e contro di me che non intervengo”

“Che cosa ha da mormorare ?”, domandai   

“Mormora, mormora. Voci. Una parola qua una à. Lei, Graziani, le vostre gite a Marostega con le ragazze in bicicletta. Professore la gente qui non è cieca, non è sorda, non è stupida. Noi ne abbiamo piene le tasche della sua politica e della sua sicologia”.

 “La scienza dei fichi” pensai.

“Immagino che lei ha votato Psiup”,  continuò.

“Sì è il partito più a sinistra nel parlamento della Repubblica italiana”.

“Carmignano non è la Russia, non è nemmeno la rossa, dissoluta Bologna. Ci torni, Qui noi siamo religiosi e morali. Torni da dove viene, appena possibile. Comunque lasci stare queste passeggiate ciclistiche ambigue”.

“Ma che ambigue!-replicai- Io e il professor Graziani teniamo alcune lezioni supplementari all’aperto. Io amo la bicicletta da almeno venti anni, da quando ne avevo cinque. Le ragazzine della scuola media tra l’altro non hanno niente a che vedere con le donne spartane biasimate da Peleo nell’Andromaca di Euripide![7]

Cossa vu to!”

Canticchiai dentro di me: “Ah! chi mi dice mai quel barbaro cos’è?”[8]

Quindi risposi:

“ Voglio Sapere che cosa hanno da mormorare i furfanti bigotti di questa Vandea refrattaria. E lei in sostanza che cosa vuole impormi contro la libertà di insegnamento?”

Quindi, per spiazzarlo di nuovo citai una frase della Buona Novella: “oJ ojfqalmov" sou ponhrov" ejsti, o{ti ajgaqov" eijmi;[9]”. Così in greco gli diedi del tu.

Quel barbaro non capì di nuovo e bofonchiò un’altra volta: “Cossa vu to”.

Poi disse: “Professore, lei è perseguibile da me 24 ore su 24.

Et persequemini de civitate in civitatem[10], pensai

 “La smetta di andare a Marostega con gli alunni se non vuole che le mandi una censura scritta, una nota di biasimo che può rovinarle la carriera scolastica”

Dat veniam corvis, vexat censura columbas[11] replicai

Cossa vu to” borbottò

 

Note

1 Cfr. Eneide, 1, 199. O tu che hai sostenuto difficoltà più pesanti, un dio porrà fine anche a queste

-2 Cfr. Eneide, 1, 202 sgg, chiama di nuovo il coraggio e caccia il timore che ti rattrista, forse un giorno ti piacerà ricordare anche questo.

 In effetti avrei incontrato difficoltà assai più gravi nei due licei di Bologna con due presidi molto più malevoli e malefici di questo e me la sarei cavata bene di nuovo. Forse più avanti le racconterò.

-3 Amores, III, 11, 7-8, sopporta e tieni duro, un giorno questo dolore ti servirà: spesso una pozione amara ha portato aiuto agli affaticati

4 Peleo, il nonno di Neottolemo, esecra le Spartane e i loro costumi: neppure se lo volesse potrebbe restare onesta ("swvfrwn", v. 596) una delle ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case con le cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"",  v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me non sopportabili " (Andromaca, vv.595-600).

Plutarco dà un'interpretazione non malevola dello stesso fatto: il legislatore volle che le fanciulle rassodassero il loro corpo con corse, lotte, lancio del disco e del giavellotto..per eliminare poi in loro qualsiasi morbidezza e scontrosità femminile, le abituò a intervenire nude nelle processioni, a danzare e a cantare nelle feste sotto gli occhi dei giovani (Vita di Licurgo , 14). E' interessante il fatto che   Erodoto  (I, 8)  viceversa fa dire a Gige:"la donna quando si toglie le vesti, si spoglia anche del pudore". 

5Cfr. Mozart -Da Ponte , Don Giovanni, I, 5.

-6 N. T., Matteo, 20, 20. Il tuo occhio  è cattivo perché sono buono?

-7 N. T., Matteo, 23, 34 E perseguiterete di città in città.

-8 Giovenale, II, 63. La censura perdona i corvi e tormenta le colombe.

 

 

Riflessi e riflessioni sull’acqua del fiume Brenta

 

“Mi dia un’aula soleggiata-gli chiesi-. La scuola è arrivata agli ultimi giorni ma io e i miei allievi vogliamo continuare a studiare insieme fino agli esami”

“Non voglio che lei trasformi questa scuola onorata in un club di sovversivi” rispose.

“Casomai sarebbe il tiaso  di una confraternita santa la cui religione è lo studio”

Cossa vu to. Lei può vedere le ragazze solo nelle ore scolastiche secondo il calendario ministeriale e l’orario ricevuto da me. Altrimenti si aspetti una censura che la rimanderà da dove è venuto.”

“E dei ragazzi miei allievi che cosa vuole fare?”

Non rispose e fece spallucce.

“Ho capito, ho sentito” conclusi.

Continuai a tenere lezioni pomeridiane nello spiazzo davanti alla scuola, sotto la finestra del preside, dove c’erano i tavolini del bar Centrale.

Seguitai a studiare e a fare lezione fino alla vigilia dell’esame.

Sapevo che lo stipendio non bastava a ripagare il mio lavoro, anzi non sarebbe bastato nemmeno a mantenermi dignitosamente così lontano da casa. Per la dignità morale e intellettuale ci voleva lo studio con l’impegno educativo, per quella materiale l’aiuto della zia Giulia di cui ho detto.

Il preside, che non voleva o non sapeva essere nemmeno del tutto  cattivo, non mi mandò la censura però mi diede Valente invece di Ottimo dato agli altri insegnanti,  con tutto che in marzo ero stato l’unico dei giovani docenti a superare lo scritto dell’abilitazione.

 

La mattina del 29 ottobre 1969, dopo il telegramma kafkiano, tornai dal preside che mi disse: “Comincerà domani. Per oggi rimane la professoressa che lei ha messo in mezzo alla strada”. Prendeva tempo: forse sperava ancora di trovare il modo di allontanarmi.  Seppi poi che quella supplente nominata e sostenuta da lui non era laureata. Non che la laurea trasformi un cretino e un ignorante in un educatore colto, ma le leggi che possono costringere i furfanti a essere  cauti erano dalla mia parte e lui ebbe il coraggio di violarle solo penalizzandomi, di due punti, con la qualifica che era un giudizio politico del tutto immotivato.

 

Quella mattina libera andai dunque a esplorare i dintorni con la Mini minor regalatami dalla zia Rina. Sorelle Materassi le chiamava la mamma, pure lei amante della letteratura e del cinema e un poco svitata come me.

 

A Tezze sul Brenta fui attirato dall’acqua del fiume che rifletteva il campanile del paese e la santa faccia del sole, immagine visibile di quella divina. Mi fermai a fissare la corrente lenta  come facevo a Moena con quella precipitosa del torrente Avisio. Pure io ero diventato meno precipite.

 Sul greto sassoso c’erano due cacciatori con dei cani che correvano su e giù. Erano snelli, muscolosi, vitali. Come me, cercavano qualche cosa. Volevo trovare la mia parte di giovane uomo nella vita siccome quella del ragazzo studente, prima studioso poi gaudente, l’avevo già recitata tutta dalle elementari di Pesaro alle Università di Bologna e di Debrecen. Scuole di studio e di vita. Dovevo interpretare bene il nuovo ruolo che il destino mi aveva assegnato in quel paese lontano, tra gente diversa e strana. L’acqua  non era torbida. Si potevano contare le pietre sommerse.

“Come un sasso che l’acqua tira giù”. No, non era l’Avisio che osservavo negli anni Cinquanta. La corrente del Brenta era tranquilla come la morte di quell’estate meno lontana.

Il sole galleggiava nel fiume come un canotto rotondo e risplendeva in cima al campanile come la mela, e ragazza, di Saffo troppo elevata per essere còlta. Helena distava due anni, Kaisa tre, Päivi cinque; la ventura significativa , Ifigenia, nove, con diverse altre in mezzo.

 Le tre finlandesi sono state le donne più importanti della mia vita mortale  con un mese di amore ciascuna.

Ho raccontato quelle storie perché contengono l’universale dell’amore con l’intesa, con la trasfusione delle anime.

Allora sarei riempito di gioia se avessi previsto quella grande felicità tripartita ma in quei momenti antivedevo, e non vanamente, solitudini grandi e lunghe, mesi di ascetismo da anacoreta.

Salìì al castello di Marostica. Era circondato da tanti voli di uccelli. Le foglie dei ciliegi erano vizze però ancora verdi, i pampini delle viti arancioni o purpurei. Nell’aria aleggiava  la malinconia, oltre gli uccelli meno contenti che in primavera. Era finita  la stagione dei tripudi, e un’epoca della mia vita mortale. Il giorno seguente sarebbe iniziata l’era del gianni ghiselli professore di lettere in una scuola media.

 

Antefatto 51. L’ultimo giorno del mio primo anno di scuola

 

 

Avrei avuto allievi tra gli undici e i quattordici, massimo quindici anni. Dovevo essere una guida per loro, i miei ragazzi. Non potevo più fare soltanto il giovanotto ghiribizzoso sul mio palcoscenico, sebbene non avessi ancora compiuto venticinque anni.

“La morte non esiste” pensai continuando a guardare l’acqua del Brenta. “Questa scorre continuamente da sempre. Se sarò bravo con gli alunni, se sarò una buona guida e saprò educarli, continuerò a vivere in loro, nei loro figli, nei figli dei loro figli e così via. Devo lasciare delle impronte buone. Sono ancora cerei  in virtutem flecti[12]. La morte, se c’è, non riguarda lo spirito, non il mio.

 Dopo questi pensieri, ero salito al castello di Marostica.  Nel successivo maggio odoroso sarei tornato in quel luogo ameno circondato e allietato da voli di rondini,  e avrei fatto lezione su quel prato smeraldino, cinto da mura, tappezzato qua e là di fiori bianchi caduti volteggiando dai lisci, neri ciliegi, come in una notte d’estate scendono scivolando dal cielo  le stelle nelle insenature del golfo di Corinto, e invece di inabissarsi spente nell’imo[13], galleggiano trasformate in barche da pesca  luccicanti sul mare. Questo avrei detto a Ifigenia la notte fatata di Galaxidion dodici anni più tardi durante il nostro viaggio ciclistico in Grecia.

Tutta la vita è collegata con se stessa, come la letteratura e l’arte.

Sul prato del castello invece sarei andato con il collega Peppino e la nostra terza media nella primavera seguente. Ero contento di pedalare con altre persone contente, felice di parlare con loro, di ascoltarle, di comunicare la mia gioia di vivere con l’umanità rigogliosa degli adolescenti. Stavo trovando la mia strada.

 

Mi vedo l’ultimo giorno di scuola, il 12 giugno del 1970, in una foto- ricordo con Peppino e le nostre tre classi. Siamo allineati davanti alla chiesa di Camignano dove si legge Venite Adoremus. Di fianco si vede una grande quercia frondosa, profetica, come quelle di Dodona dove sarei andato in bicicletta con l’amico carissimo Fulvio e due allievi di Bologna diventati  amici tra i più cari: Maddalena e Alessandro, una trentina di anni più tardi.

 

Tutto nel sole di giugno brilla: il muro del tempio, le nostre facce giovani e liete, i grembiuli neri delle bambine e pure la tam brevis umbra  dell’albero antico che in giugno non cela il sole[14].

Ho indosso un vestito di lino bianco che mette in risalto l’abbronzatura. Ho l’aria soddisfatta. Sono armonioso. Ho il volto dai lineamenti marcati, e pure fini: mi sento bello. Lo sono.

Sento di avercela fatta a diventare quello che volevo, quello che sono: un educatore.

Mi mancava ancora però il vivido pathos di una donna giovane, bella, intelligente. Una della mia levatura. Tuttavia non volevo sposarmi né fidanzarmi. Colleghe giovani, carine, educate, le avevo incontrate: con un paio di loro avevo pure fatto amicizia, ma un rapporto impegnativo mi spaventava: il mio tempo doveva andare in massima parte alla scuola, allo studio e allo sport per non diventare più rozzo né più fiacco del necessario. Inoltre sapevo che prima o poi sarei tornato a Bologna.

Avventure amorose volevo, ma le ragazze professoresse cercavano altro, né io volevo ingannarle. In luglio sarei andato di nuovo a Debrecen affamato di amore.

Lì sarei potuto tornare il ragazzo che ero .

 

Bologna 16 maggio 2023  ore 11, 51

giovanni ghiselli   

 

 

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[2] Marziale, 12, 51, 2. Con questa citazione avrei iniziato lo scritto dell’esame che mi avrebbe aperto la porta dell’alma mater di Bologna nell’aprile del 2010.

[3] Cfr. Dante, Paradiso, III, 106.

[4] Cfr. Eneide, 1, 199, o tu che hai provato difficoltà più pesanti, un dio porrà fine anche a questa.

[5] Cfr. Eneide, 1, 202 sgg. Riprendi il coraggio e caccia via il timore che ti rattrista, (…) tieni duro e mantieniti in forma per la vicende propizie.

[6] Amores, III, 11, 7-8, sopporta e tieni duro, un giono questo dolore ti gioverà: spesso una pozione amara ha portato aiuto agli affaticati.

[7] Peleo, il nonno di Neottolemo, esecra le Spartane e i loro costumi: “neppure se lo volesse potrebbe restare onesta ("swvfrwn", v. 596) una delle ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case con le cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"",  v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me non sopportabili " (Andromaca, vv.595-600).

Plutarco dà un'interpretazione non malevola dello stesso fatto: il legislatore volle che le fanciulle rassodassero il loro corpo con corse, lotte, lancio del disco e del giavellotto (…) per eliminare poi in loro qualsiasi morbidezza e scontrosità femminile, le abituò a intervenire nude nelle processioni, a danzare e a cantare nelle feste sotto gli occhi dei giovani (Vita di Licurgo , 14). E' interessante il fatto che   Erodoto  (I, 8)  viceversa fa dire a Gige:"la donna quando si toglie le vesti, si spoglia anche del pudore". 

[8] Cfr. Mozart -Da Ponte , Don Giovanni, I, 5.

[9] N. T., Matteo, 20, 20. Il tuo occhio  è cattivo perché sono buono?

[10] N. T., Matteo, 23, 34 E perseguiterete di città in città.

[11] Giovenale, II, 63. La censura perdona i corvi e tormenta le colombe.

[12] Cfr. Orazio, Ars poetica, 163, pieghevoli come la cera e impressionabili dal buon esempio

Cfr. anche Platone: bisogna plasmare (plavttein) il giovane quando egli ejnduvetai tuvpo~ (Repubblica, 377b) si imprime l’impronta che ciascuno deve portare addosso.

 

[13] Cfr. Leopardi, All’Italia, 122

[14] Cfr. Lucano, Pharsalia, IX, 530, ombra tanto corta.

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