Oggi sono in difficoltà: quando non ho potuto partecipare a nobili agoni cavalcando Pegaso, non posso neppure mangiare né dormire. Mi resta solo lo studio, fino alla consunzione, fino al momento in cui la mia mano sinistra stringe la destra per compassione. Segue uno svenimento, ma breve. Quindi riprendo lena e seguito a studiare. Cercherò un fabbro che ripari il danno. Gli prometterò come mercede le prime tre coppe che vincerò montando Pegaso.
La vittoria infatti esige il premio che è un debito dell’artigiano al vincitore e alla stessa dike: "lodare il valente è fiore di giustizia", leggiamo nella Nemea III , di Pindaro (verso29).
Questo dirò al buon fabbro, non potendo ricompensarlo prima delle tre vittorie olimpiche in groppa al mio destriero favorito da Nike.
Intanto però sono digiuno e orbato della mia bici, sicché devo farmi coraggio ripetendo: “O passi graviora, dabit deus his quoque finem”[1].
Né tralascio di aggiungere: “ maestumque timorem - mitte; forsan et haec olim meminisse iuvabit (…) “dura et te rebus serva secundis”[2].
Ho imparato a salvarmi la vita ricordando queste parole beneficentissime quando ero un ragazzo desolato e “pensoso di cessar dentro quell’acque” che fissavo a lungo “la speme e il dolor mio”.
Poi invece ho trovato le res secundas che mi aspettavano e spettavano. Infatti le ho rese mie.
Baci gianni
p. s
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[1] Cfr. Eneide, 1, 199.
[2] Cfr. Eneide, 1, 202 sgg.
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